La prima volta è farsa, poi diventa tragedia

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«La Storia si ripete sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa», recita un celebre aforisma di Karl Marx.

[La frase esatta è più articolata: «Hegel nota in un passo delle sue opere che tutti i grandi fatti e i grandi personaggi della storia universale si presentano, per così dire, due volte. Ha dimenticato di aggiungere: la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa». Ndr]

In Italia siamo all’opposto: la prima volta è farsa, poi diventa tragedia.

Abbiamo — e uso il plurale perché questo Parlamento lo abbiamo votato noi, mica i marziani — fatto fuori Mario Draghi con la leggerezza con cui si fa fuori un segretario di sezione.

Il segnale che si consegna al mondo intero (quello che ci compra il Debito Pubblico) è: questo povero Paese, cronicamente instabile, con una classe dirigente ferrata nell’apericena e negli hashtag, indebitato fino al collo, può giulivamente fare a meno dell’uomo più autorevole d’Europa — un Paese che peraltro si era ritrovato questa figura al governo per (si perdoni il francesismo) pura botta di culo, non certo per scelta ponderata.

Lo abbiamo perfino preso per i fondelli, Supermario. «No al Quirinale perché deve restare a Palazzo Chigi» e poi «No a Palazzo Chigi perché ci intorbida l’acqua».
Si chiedeva il 21 Luglio Carlo Romeo, conducendo la rassegna stampa di Radio Radicale, se questi nel palazzo si rendano conto del mondo in cui vivono e del momento che vivono, e non credo sia complicato dare una risposta. Stiamo parlando di pensatori convinti che per chiudere la guerra russo-ucraina basti invocare la pace e per affrontare la crisi economica basti distribuire soldi, l’affascinante teoria di un bambino di sei anni: «Se non hai soldi, vai al bancomat». Il loro bancomat è lo scostamento di bilancio: basta fare altro debito, distribuirne di qui e di là, e se poi i mercati, cioè i creditori, sollevano qualche perplessità, è il complotto di George Soros, del Bilderberg e degli euroburocrati.

Metà del Parlamento (ossia purtroppo metà degli italiani) la repubblica non sa nemmeno che cosa sia, e se lo sa la odia e ne desidera la fine. Salvini è il primo portavoce di questa eversione torva e menefreghista, ma certo non l’unico.

Ecco perché Draghi non c’entra nulla con questo Paese, un paese dei balocchi in cui ognuno pensa di essere una vittima, di meritare un risarcimento, c’è chi non si sa come non si sa quando gli ha rubato il borsellino e il futuro, è tutta colpa dei poteri forti, dei banchieri, del magna magna, piove governo ladro, e dunque continuano — continuiamo! — ad affidarci a questi stregoni della prateria, i Salvini, le Meloni, i Berlusconi, i Conte, i Grillo, che no, non si rendono conto del mondo in cui vivono e del momento che vivono, e gli basta dire al popolo quello che il popolo vuole sentirsi dire. Le tutele, le garanzie, il welfare, l’assistenzialismo, la giustizia sociale — una serie di morbidissimi slogan senza mai prendere le misure e le contromisure a un mondo che negli ultimi trent’anni si è evoluto e si ribaltato a velocità spaventosa, e noi non ci abbiamo capito niente, lo abbiamo rifiutato, siamo rimasti indietro e nella pretesa che il nostro ritardo lo paghi Mago Merlino.

Mario Draghi non c’entra niente con questo Paese perché è serio, è autorevole, è competente (tradotto per neofascisti, sovranisti e complottisti che imperversano sui social: è un «banchiere nazista che se ne frega del popolo») e soprattutto perché dice la verità: i soldi non ci sono all’infinito, dal debito bisogna rientrare, si rientra con le riforme, le riforme possono essere dolorose e il futuro si costruisce con fatica nel presente.

Troppo complicato.
Noi di uno così non sappiamo che farcene, si levi di torno e ci lasci nella nostra Disneyland. La quale peraltro si sta pericolosamente svuotando di Topolini, Pippi e Paperini e si sta riempiendo di Bande Bassotti, Gambedilegno e Macchienere.

Di corsa al voto

(In mezzo a una guerra, a una pandemia, a una crisi energetica e all’inflazione galoppante, quando bastava aspettare la primavera)

Andiamo dunque a votare. Per la prima volta in piena estate, e in mezzo a così tante emergenze che la nostra sceneggiatura pare scritta da un maestro dell’horror. In tutto questo, la campagna elettorale nemmeno è cominciata e già fa schifo. L’ottundimento mentale di una classe politica che ha mandato a casa senza alcun motivo esplicito un grande presidente del Consiglio (ed è tutto un rinfacciarsi: «Sei stato tu», «no, sei stato tu», che pena) è evidentemente destinato a protrarsi di qui al fatidico 25 settembre, compleanno di Sandro Pertini, che per sua fortuna non può vedere lo spettacolo di una Repubblica Barnum, come il circo.
In queste prime ore post-Draghi la scena è tra il deprimente e il disgustoso e se il livello non salirà presto nessuno poi dovrà meravigliarsi del calo dell’affluenza: se lo spettacolo è da teatrino di provincia la gente non paga il biglietto.

Senz’altro nella seconda categoria — il disgustoso — rientra l’incredibile performance concessa dal “draghiano” Tg1 a Matteo Salvini, intervistato (si fa per dire) dal giovane conduttore Alessio Zucchini (forse sarebbe meglio se a intervistare i leader fossero giornalisti più esperti e magari con licenza di interloquire), un numero da Woody Allen quando fa l’illusionista (Scoop, Magic in the moonlight), cioè penoso.
Salvini pareva una fattucchiera — «dimmi, tesoro, vuoi sapere come andrà l’amore?» — seduta a un tavolino con dietro una serie di immagini sacre, icone ortodosse, crocifissi, illustrazioni votive, gli mancava il mazzo di carte ma era proprio lui che, spostando indietro le lancette, ha di nuovo agitato lo spettro dei barconi e di Elsa Fornero. (Anche il calendario sulla parete era indietro: anno 2020.) Poco è mancato che improvvisasse un sabba per ritrovare la fortuna di un tempo, o rinfrescasse il mojito del 2019, è tornato come il conte di Montecristo, ricco e spietato, sente l’odore del sangue come i tori raccontati da Ernest Hemingway (Morte nel pomeriggio), è il ragazzo troppo cresciuto che già come minimo si rivede al Viminale.
Inutile dire che l’esibizione di madonne e immagini religiose, in sé raccapricciante, ha ripreso il “numero” dei comizi con il rosario in mano, una via di mezzo tra Peron, Padre Pio e la “maga” del Pasticciaccio di Gadda: politicamente ed esteticamente, un salutone alla Lega “giorgettiana” e “fedrighista” della modernizzazione del Nord: è tempo di barbari, questo, di citofoni e di famiglie fondate «sulla mamma e sul papà».

E per non essere da meno, contemporaneamente è tornato lui, Silvio, ma su questo ha già scritto parole definitive chi ha colto anche qui l’eterno ritorno del sempreguale: mentre guardavamo l’avvocato senza qualità, «tomo tomo e cacchio cacchio Berlusconi si riprendeva il ruolo di sfasciacarrozze» — ha vergato Francesco Merlo — stupendo chi dopo trent’anni si illudeva su una sua crepuscolare resipiscenza morale e nazionale.

Il vecchio, di cui si dice abbia un’autonomia intellettuale per così dire a intermittenza, invece ha colpito ancora come Totò che si diverte a spaccare i vetri di Mezzacapa, stavolta regalando Forza Italia alla Lega — vai a capire se per bilanciare la Meloni o perché proprio non s’è reso conto — e irridendo chi ha detto «non sono d’accordo», i ministri forzisti che a differenza del Cavaliere avevano preferito Mario Draghi a Licia Ronzulli.
Il brutto è che immediatamente Berlusconi ha rimesso i panni del venditore di tappeti — «pensioni a mille euro!», costo stimato fra i 18 e i 60 miliardi, più un curioso «un milione di alberi!» che prende il posto del classico milione di posti di lavoro (e anche qui non si sa se perché il verdismo è di moda o perché il lavoro non c’è manco coi miracoli) — ficcando la manona nel sacco del mercante di sabbia, quello stesso sacco dell’«avete capito bene, aboliremo l’ICI» e delle dentiere gratis.

Ma questi primissimi giorni di campagna elettorale ci hanno dato un assaggio di quello che ci aspetta soprattutto a sinistra, almeno fino al giorno della presentazione delle liste: un dibattito interamente occupato dall’appassionante questione delle alleanze. Chi va con chi, vengo anch’io, no tu no, ma perché? E via cantilenando.
Il bello è che lo stesso tema dominerà anche tutto il resto della campagna elettorale, una volta che le liste saranno state definite e presentate, con l’unica differenza che il dibattito avrà, da quel momento in poi, un carattere retrospettivo: chi è andato con chi, poteva venire anche lui, no lui no, ma perché? E via recriminando.

L’unico vantaggio è che tutto questo, a sinistra, servirà almeno da riscaldamento per il dibattito che verrà dopo le elezioni, cioè dopo la sconfitta (come nel 2001, nel 2008 e nel 2018), il non-pareggio (come nel 2006) o la non-vittoria (come nel 2013). Indipendentemente dall’estensione della coalizione, infatti, il centrosinistra ha vinto pienamente soltanto nel 1996, la prima volta in cui si presentò unito, e solo perché il centrodestra, invece, si presentò diviso (errore che si guarderà bene dal ripetere, di lì in poi).

Le notizie politiche rilevanti di quest’afoso Luglio di global warming sono che il PD (un partito che da quando è nato parla solo di due argomenti: leggi elettorali e primarie, ovvero di come eleggere i parlamentari e di come eleggere i propri dirigenti) vuole fare un raggruppamento con tutti tranne che con Matteo Renzi; che i cespugli di sinistra immaginano di allargare il campo a Giuseppe Conte con fantomatiche alleanze tecniche o tattiche o «non politiche» (insomma, un imbroglio); che Renzi non si alleerà con il Partito Democratico e i suoi satelliti radical populisti, anche perché non lo vogliono; e che Carlo Calenda ed Emma Bonino hanno offerto alle forze politiche draghiane, quindi a PD e a Renzi ma non agli antidraghiani di sinistra, un elenco di principî di governo su cui costruire un’offerta elettorale in vista del voto del 25 settembre.
Il PD potrebbe serenamente sottoscrivere i punti calendiani, ma i suoi cespugli no. Renzi è più d’accordo di Calenda sull’agenda Draghi. Calenda ha sempre detto che non si può alleare con i cespugli antidraghiani. Renzi e Calenda non si sopportano per ragioni ignote ai loro elettori.

Far quadrare i conti è pressoché impossibile, ma in questa surreale stagione politica italiana, stravagante anche negli ambienti non populisti, due più due non fa quattro. Fa un risultato senza senso.
Senza senso perché il PD vuole fare un fronte larghissimo contro il pericolo sovranista, con dentro Fratoianni, Bonelli, Di Maio, Calenda e Gelmini, con metà dei Cinquestelle e con gli ex berlusconiani, ma non con il suo ex segretario che lo aveva portato al 40%. È senza senso anche l’alleanza di Calenda e Bonino con i cespugli populisti a sinistra del PD.

Se le cose dette avessero un senso, infatti, Azione e Più Europa non potrebbero coalizzarsi col PD allargato agli antidraghiani e ai populisti redenti in zona Cesarini perché i loro voti contribuirebbero all’elezione di Luigi Di Maio, indimenticabile accusatore del “partito di Bibbiano”, dei cespugli Fratoianni e Bonelli, di quelli che non hanno votato la fiducia a Draghi e di quelli che non vogliono i rigassificatori e i termovalorizzatori (per tacere dell’ala collaborazionista contiana dentro il PD).

L’unico senso politico di questo scenario grottesco è quello che ha attraversato trasversalmente da sinistra a destra, ma con particolare irragionevolezza a sinistra, tutta l’ultima legislatura: non importa chi vincerà le elezioni, non importa quale governo si farà, l’importante è cancellare ogni traccia di Renzi e questa è la priorità più urgente che ci sia.

A rendere lo scenario ancora più bizzarro è che l’alleanza centrata sulla fantomatica agenda Draghi escluderebbe proprio il leader politico cui dobbiamo Draghi a Palazzo Chigi, per un veto del partito (il PD) che a suo tempo fece di tutto per tenere Conte al governo («abbiamo un solo nome: Giuseppe Conte») — e per dirla tutta anche Calenda, al momento della nomina di Draghi, rimase spiazzato dalla mossa di Renzi.
Quindi nascerebbe un “fronte repubblicano” pro Draghi ma senza il leader che ha preparato, da solo, l’arrivo di Draghi a Palazzo Chigi ma con quelli che non volevano defenestrare Conte per niente al mondo. Un capolavoro della commedia all’italiana.

Tra l’altro, in questo modo, il bel progetto repubblicano presentato da Calenda e Bonino perderebbe credibilità nel provare ad attrarre i voti in libera uscita da Forza Italia, specie se ci sarà — come ci sarà — anche un’offerta renziana autonoma dai due poli.

Appena coperto di terra, dunque, il “campo largo” è già diventato strettissimo, ma poi forse si allarga ai cocomerari di Fratoianni, uno per il quale Draghi era peggio di Scelba.
Poi vogliono acchiappare Carlo Calenda ma fino all’altra sera non si erano fatti sentire, dicono sì al mite Roberto Speranza ma non al suo mentore Pier Luigi Bersani, poi rompono con il Movimento 5 Stelle ma ci fanno insieme le primarie in Sicilia, quindi Franceschini chiede molti posti, e così Orlando, c’è pure una truppa di Orfini, e poi bisogna candidare Zingaretti a Roma (si voterà anticipatamente nel Lazio: un’altra batosta?), fan sfegatato di “Conte the killer”, come cantava in un gran pezzo Neil Young, “Cortez the killer”, Nicola il mai-sindaco-di-Roma, se la sbrigasse il povero Gualtieri inondato di mondezza come e peggio della Raggi.

A poche ore dall’uscita di scena dell’italiano più autorevole nel mondo torna il peggio di entrambi gli schieramenti come fossimo in un gigantesco blob degli anni Novanta, con la destra arcigna e mercantile e la sinistra attorcigliata e pasticciona — ed ecco spiegato perché tanta gente di sinistra e di destra (e di niente) sospira: «Ma perché hanno mandato via Draghi?». Già, signora mia, benvenuta alla campagna elettorale dell’anno di grazia 2022.

È un modello intramontabile: sempre dalla parte in cui tira il vento, ma sempre nella posa del fiero anticonformista, se non proprio del rivoluzionario.
È il peso della pseudo-rivoluzione maggioritaria, con l’altalena delle coalizioni piglia-tutto in cui nascono, si unificano, si scindono e si rifondono sempre nuovi-vecchi partiti, ora in nome del liberismo ora in nome del socialismo, ma guidati sempre dalle stesse persone. Un sistema in cui da trent’anni consideriamo normale che siano i gruppi dirigenti a cambiare i partiti, anziché il contrario.

Quest’uomo no: troppo serio e autorevole per i partiti italiani. La sua “agenda” sì, però. Anche se non esiste.

Se il dio della ragione decidesse di tornare nella nostra landa disperata ci sarebbero soltanto due sole scelte sensate a disposizione dei partiti costituzionali e repubblicani: un ampio fronte repubblicano dal PD agli ex di Forza Italia, ovviamente con Renzi e senza quelli che non vogliono i rigassificatori e la concorrenza (cioè quelli che non vogliono il PNRR e l’indipendenza da Putin). Oppure una più tradizionale offerta socialdemocratica guidata dal PD di fianco a una nuova formazione liberal-democratica indipendente dai due poli di sinistra e di destra.

La prima opzione pare che non sia più possibile, per le ragioni di cui sopra (Renzi deve morire). La seconda, a questo punto, è affidata alla coerenza di Calenda, il quale fin qui ha sempre detto che con Di Maio e con quelli del No non vuole avere niente a che fare, e anche a una maggiore umiltà di Renzi (e dei renziani).
I due dovrebbero mettere da parte diffidenze e risentimenti e — sulla base dei principî ideali della famiglia politica di Renew Europe, dove stanno già comodamente insieme, e dei punti programmatici presentati da Azione e Più Europacostruire un soggetto politico nuovo, comune, liberaldemocratico, aperto ai riformisti e agli elettori di Forza Italia, indicando Mario Draghi come prossimo Presidente del Consiglio.

Sarebbe l’unica vera novità politica italiana di questa sfortunata stagione, un rifugio per quelli che non si rassegnano al destino bipopulista o al fuoco incrociato tra neo-ex-post fascisti e neo-ex-post comunisti. Basterebbe volere questa novità, come diceva Mario Draghi, «whatever it takes», a ogni costo.

Whatever it ends

Comunque finisca l’insopportabile telenovela del campo “largo” o “aperto” o che dir si voglia (con Calenda e senza Di Maio? Con Speranza e senza Renzi? Con Conte ma senza Calenda?), una cosa è sicura: la farsa non finirà affatto. Non finirà mai. Perché non è mai finita da quando è iniziata. Nel 2013 parlavamo della cervellotica “alleanza a due cerchi” di Pier Luigi Bersani (ve l’eravate dimenticata?), nel 2022 parliamo della coalizione “a quattro punte” e perfino di un’ipotesi di “alleanza tattica” con i Cinquestelle (ancora migliore la definizione che ne dava un retroscena di Tommaso Ciriaco su Repubblica: «Alleanza non politica»). Quale che sia l’accordo che alla fine si troverà, o non si troverà, possiamo star certi che continueremo a discuterne fino al giorno del voto, e anche dopo.

Se l’alleanza sarà larga e composita, discuteremo di quanto sono litigiosi, e figuriamoci come potranno governare insieme (del resto, neanche sono partiti e già hanno cominciato a bisticciare, sia su chi debba entrare o non entrare nella coalizione, sia su chi debba andare a Palazzo Chigi); se l’alleanza sarà invece stretta e omogenea, discuteremo di tutti quelli che saranno rimasti fuori. E di conseguenza, se fuori saranno rimasti quelli di sinistra, sarà la prova che il centrosinistra ha perso i valori e l’identità; se fuori saranno rimasti invece quelli di centro, sarà la prova che il centrosinistra non ha abbastanza cultura di governo, e sono sempre i soliti estremisti e demagoghi.

Andrà così anche questa volta, come sempre, ed è ovvio che vada così, considerato che anche questa volta, come ogni volta, la prima trovata dell’ultimo segretario del PD appena nominato è stata rilanciare il maggioritario, illudendosi di potere polarizzare la campagna in uno scontro con Giorgia Meloni, come già provò a fare Walter Veltroni con Silvio Berlusconi nel 2008 (consegnando al centrodestra una maggioranza talmente schiacciante che nemmeno la scissione finiana bastò a intaccarla, e ci volle lo spread a 575 punti per indurre il Presidente del Consiglio alle dimissioni).

Da trent’anni, illudendosi di avvantaggiarsene, i leader del centrosinistra si impiccano a una legge elettorale che di fatto impone le ammucchiate, per poi dividersi tra chi vuole suicidarsi da solo e chi preferisce suicidarsi in compagnia. Ma l’esito, dal 2001 a oggi, è sempre lo stesso: sconfitte epocali o non-vittorie talmente risicate da non reggere un minuto in Parlamento, costringendo poi a quella sfilza di governi di grande o grandissima coalizione che sono diventati il marchio di fabbrica del PD. Marchio che andrebbe benissimo in un sistema proporzionale, intendiamoci, ma è ovviamente il bacio della morte alla vigilia di una campagna elettorale all’insegna del bipolarismo (o addirittura di un finto bipartitismo). Non per niente, ogni volta, i dirigenti del PD devono cominciare a battersi il petto spergiurando che non lo faranno mai più.

Siccome però in questa legislatura, oltre a non avere varato una legge elettorale proporzionale, hanno anche appoggiato il taglio lineare dei parlamentari, è in effetti probabile che all’indomani del voto non ci sia alcun bisogno di grandi coalizioni, visto che il centrodestra potrebbe avere i numeri non solo per governare, ma pure per decidere da solo tutte le cariche istituzionali e di garanzia, nonché per riscrivere la Costituzione a suo piacimento.

Prima la farsa, poi la tragedia, appunto.

E adesso, per evitare un simile pericolo, obiettivamente non piccolo, indoviniamo chi dovremmo votare.
Già: proprio quelli che da 30 anni campano non con una proposta di Paese ma proponendosi in opposizione un nemico immaginario (di volta in volta Berlusconi, Renzi, Salvini, Meloni, Pietro Gambadilegno, Thanos, Galactus, Kang il Conquistatore…).


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