Siamo in recessione demografica

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C’è un’altra recessione che spaventa meno del segno meno davanti al PIL, ma che può determinarlo: la recessione demografica. Tra vent’anni, nel 2042, ci saranno 6,8 milioni di italiani in meno in età da lavoro, 3,8 milioni di pensionati in più. Il saldo naturale è già negativo, quello migratorio quasi: si muore più che si nasce, si parte più che si arriva. Il tema impatta sul futuro del Paese, la sostenibilità sociale ed economica: lavoro, pensioni, assistenza, sanità, bassa natalità, bisogno di manodopera straniera. Questione demografica, migratoria e occupazionale: nodi che si intrecciano e che la politica finge di ignorare.

Il declino ormai è un fatto, Istat torna spesso sul tema. La Fondazione Di Vittorio della CGIL in uno studio li ripropone con una nuova analisi. «Attenzione a esultare quando il tasso di occupazione sale: è un effetto ottico, perché la base si sta restringendo», dice il presidente Fulvio Fammoni. «Il tasso di maggio al 59,8%, celebrato come record, sarebbe un punto più basso se la forza lavoro fosse la stessa di febbraio 2020: e invece siamo sotto di 600 mila unità. Per rendere sostenibile il nostro sistema previdenziale dovremo ampliare quella base anche tramite regolarizzazione di stranieri necessari per occupare i posti di lavoro scoperti».

Lo “shortage” — la difficoltà delle imprese a trovare manodopera, fenomeno acutizzato in pandemia e nel frenetico post pandemia soprattutto in agricoltura, logistica, turismo e nelle professioni più qualificate dell’industria — potrebbe cronicizzarsi. Diventare strutturale per mancanza non di profili, ma proprio di lavoratori. E qui il Reddito di Cittadinanza non c’entra. L’Italia invecchia e i giovani più preparati preferiscono l’estero, che garantisce posti meno precari e stipendi più alti.

Al primo gennaio 2022, dopo 15 anni, la popolazione residente in Italia è scesa sotto la soglia dei 59 milioni. Dal picco del primo gennaio 2014 — 60 milioni e 346 mila — il Paese ha perso 1,4 milioni di residenti. Due crisi finanziarie — 2008 e 2011 — e poi pandemia, recessione, ripresa e ora ancora timori di recessione: acceleratori della crisi demografica, suoi inneschi e amplificatori. Al punto che le tendenze sembrano assumere il carattere della strutturalità.

Il saldo naturale, la differenza tra nati e morti, è passato da -100mila nel 2014 a oltre -200mila nel 2019. Il saldo migratorio, la differenza tra iscritti e cancellati da o per l’estero, è ancora positivo, ma talmente sottile da non riuscire a compensare quello naturale. Sono aumentate le emigrazioni, di italiani e stranieri. Dal 2013 lasciano l’Italia e cancellano la residenza oltre 100mila cittadini all’anno, senza contare gli italiani all’estero che la residenza ce l’hanno ancora qui. Assieme a 140mila stranieri residenti o soggiornanti.

Dice Istat che un cittadino espatriato su tre ha un’età compresa tra 25 e 34 anni e la metà ha una una laurea o un titolo superiore alla laurea. Per il 30% sono “nuovi cittadini” di prima o seconda generazione che hanno acquisito di recente la cittadinanza. Ecco dunque che se emigrano sempre più giovani, istruiti e qualificati, il tema non è solo demografico ma di sviluppo e futuro del Paese.

Così Corrado Bonifazi, demografo dell’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali del CNR (Consiglio nazionale delle ricerche): «Le ragioni dell’attuale calo delle nascite risiedono negli ultimi 45 anni di storia demografica del Paese, visto che dal 1977 il tasso di fecondità totale è sceso al di sotto del livello di sostituzione di 2,1 figli per donna. Non solo, per lunghi periodi abbiamo avuto livelli di fecondità tra i più bassi in Europa, con valori al di sotto degli 1,3 figli per donna che nella letteratura scientifica è considerata la soglia della lowest low fertility. Una categoria nella quale siamo rientrati dal 2018.
A questa situazione si è aggiunta una cospicua diminuzione delle donne in età feconda (15-49 anni), passate dai 13,8 milioni del 2010 ai 12,1 milioni del 2022 per effetto della bassa fecondità degli anni scorsi. Si è innescata quindi quella tempesta perfetta che mette insieme bassi livelli di fecondità e riduzione delle donne in età riproduttiva che da alcuni anni caratterizza il nostro Paese. Una situazione che rischia di continuare anche nei prossimi anni, visto che il calo delle donne tra i 15 e i 49 anni non dovrebbe arrestarsi prima del 2050 quando dovrebbe scendere al di sotto dei 10 milioni
».

«Un Paese dovrebbe fare il contrario di ciò che fa adesso», spiega la sociologa Chiara Saraceno, esperta di cambiamento sociale e sviluppo demografico, «sostenere l’occupazione femminile, dare un orizzonte minimo di sicurezza a uomini e donne, ribilanciare la divisione di lavoro nelle cure in famiglia. L’attuale governo punta molto su questo tema [ma] facendo scelte sbagliate. Si aumenta l’assegno unico per chi ha più di tre figli. Ma bisognerebbe aumentarlo per chi ne fa già uno, il secondo è raro e se ti rivolgi addirittura a chi fa tre figli è chiaro che fai un atto simbolico. Una politica ferma agli anni Cinquanta. Stanno sbagliando tutto».

Il meccanismo si è inceppato, la popolazione decresce. Cosa succede a un Paese in cui non si trovano lavoratori non perché preferiscono il divano, ma perché semplicemente non esistono? Quale futuro per un Paese di pensionati? Chi pagherà le loro pensioni? Tra vent’anni, secondo le stime riportate dallo studio CGIL su dati Istat, la popolazione residente si asciugherà di 3 milioni, da 59 a 56 milioni di persone, il 5% in meno. L’età media salirà da 46,2 a 50 anni.
La fascia di età che subirà la riduzione più marcata è quella tra 15 e 64 anni, la popolazione in età lavorativa: dagli attuali 37,2 milioni a 30,7 milioni. Un tonfo di 6,8 milioni, il 18,1% in meno. In parallelo, crescerà la popolazione non attiva, under 15 e over 64: da 21,5 a 25,3 milioni (+17,6%). Non certo per un boom di culle. Anzi, i giovani caleranno di 1,1 milioni (-14%), gli anziani saliranno di 4,9 milioni (+34,6%).

Lo squilibrio allarma. La popolazione invecchia e «aumenta il carico economico e sociale che grava su chi lavora, la cui quota sul totale della popolazione passa dal 63,5% del 2022 al 54,8% del 2042», scrivono gli autori dello studio CGIL, il sociologo Beppe De Sario e l’economista Nicolò Giangrande. Sempre meno lavoratori dovranno farsi carico di sempre più persone che dipendono dalla pensione o dall’assistenza.
L’indice di vecchiaia, il rapporto tra popolazione anziana e giovane, è destinato dunque a esplodere: dal 188% di quest’anno (già alto) al 295% nel 2042. Così come pure l’indice di dipendenza strutturale, il rapporto tra chi non lavora e chi lavora: da 57 a 82%. E l’indice di dipendenza degli anziani, il rapporto tra anziani e adulti: da 37 a 62%. Spread demografici molto più inquietanti di quello tra Btp e Bund, titoli italiani e tedeschi. Eppure questo lo misuriamo ogni giorno, l’altro lo ignoriamo.

Dovremmo accoglierli con una collana di fiori

Gli stranieri che arrivano nel nostro Paese andrebbero festeggiati come negli atolli polinesiani: mettendo loro al collo una corona di fiori, regali, cibo in abbondanza. Le frontiere andrebbero chiuse non in entrata, ma in uscita: ossia impedire agli italiani (giovani e istruiti) di scappare.

Qualcuno avvisi questo signore…

Altro che «sostituzione etnica». Nemmeno gli stranieri fanno più figli: il rapporto annuale dell’Istat battezza la nuova fase dedicandole un lungo e preoccupato capitolo. A differenza della crisi economica questo tipo di arretramento non svuota ancora le nostre tasche ma lo farà a breve: quando non ci sarà più abbastanza gente per pagare le nostre pensioni ma anche per comprare le case che mettiamo in vendita, le merci che distribuiamo, le verdure e la frutta che coltiviamo, i servizi che offriamo. Quando i 140mila bambini “persi” quest’anno rispetto ad appena dieci anni fa — un quinto del totale dei nati — non si iscriveranno a scuola, non vorranno il motorino, non compreranno abiti o libri.

Fa rabbia questa recessione demografica perché è un problema arcinoto, denunciato da tutti da moltissimo tempo, oggetto di ripetuti interventi legislativi in tutte le direzioni tranne quella che ha funzionato nel resto d’Europa: seri incentivi all’occupazione femminile e investimenti nei servizi per le donne lavoratrici. Dal 2015 a oggi abbiamo avuto il Bonus Bebè, il premio alla nascita, il premio all’adozione, il buono per le rette dell’asilo nido, il buono per l’assistenza ai figli con patologie croniche, la Carta Famiglia e di recente persino l’offerta di terre (incolte) a quelli/e che arrivavano fino al terzo figlio. Nulla ha cambiato di una virgola le cose. La curva demografica ha proseguito nel suo precipizio. E tuttavia la politica — di sinistra, di destra o di centro — ha continuato ostinatamente a perseguire la via delle regalie occasionali rifiutandosi di ammettere quel che altrove hanno capito da un pezzo: i figli li fanno le donne e nessuna donna è incline a fare un figlio senza uno straccio di sicurezza lavorativa, senza un minimo di certezza di potersi pagare le bollette anche da sola.

Ispirandosi a Paesi come Francia e Svezia, l’Italia potrebbe pensare a garantire l’accesso gratuito agli asili nido, ad aumentare l’assegno unico e universale per i figli introdotto nel 2021 e ad allungare e pagare di più i congedi parentali. «In questi Paesi», ricorda ancora Chiara Saraceno, «hanno congedi ben pagati sia uomini che donne. Serve favorire la responsabilità di cura e l’occupazione remunerata, anche con la flessibilità amichevole sul lavoro. Passare all’idea che quello che conta non è il tempo ma la produzione, e che questa si può gestire secondo i propri bisogni». E poi i servizi per l’infanzia. «Non sono solo strumenti di famiglia o conciliazione con il lavoro, devono essere pensati come opportunità educative per i bambini, di crescita. Si pensa a bonus bebè, baby-sitter ma un figlio ha questa caratteristica: tende a rimanere a lungo. I figli costano di più man mano che crescono. Inoltre, non abbiamo raggiunto il 36% di copertura dei nidi. Ci sono aree del Paese che fino a dieci anni fa erano a più alta fecondità, sono oggi a più bassa fecondità. Nel Mezzogiorno è più bassa del Centro Nord, del resto con l’occupazione difficile e servizi inesistenti, questi giovani toccano l’unica cosa su cui hanno un controllo: i figli».

Ma c’è di peggio. Lo spirito del tempo, da noi, sembra addirittura rovesciare la connessione tra reddito femminile e natalità. Da anni serpeggia l’idea che la realizzazione del desiderio di maternità sia collegata all’affermazione di schemi famigliari antichi — la donna a casa, l’uomo in ufficio — e che una visione, per così dire, “tradizionale” delle relazioni possa riportarci le belle famiglie di una volta, quelle con tre o più figli, uccise dal progresso. Il recupero di questo modello, in realtà, è già largamente realizzato grazie alla crisi — metà delle italiane non lavora, al Sud il 70% — e se questi alfieri dell’antimoderno avessero ragione, le case dovrebbero essere piene di bambini. Chissà se gli è mai capitato di ragionarci sopra e chiedersi: e se avessimo sbagliato tutto?

I citati dati Istat sono assai taglienti. Il 45% delle donne tra i 18 e i 45anni non ha mai avuto un figlio, ma solo il 5% dichiara di non volerne perché “non rientrano nel suo progetto di vita”. Il desiderio insomma c’è, manca la possibilità, forse il coraggio. D’altra parte come pensare a un bambino quando più della metà dei 20-35enni, cinque milioni e mezzo di persone, vive ancora in casa coi genitori, nubile o celibe che sia? Pure gli immigrati hanno tirato i remi in barca visto che per la prima volta dopo molto tempo i figli di stranieri sono scesi sotto quota 100mila. Molti ne saranno soddisfatti: Italia agli italiani, et cetera. E tuttavia sappiamo bene che tanti posti di lavoro, a cominciare da quelli nella scuola, esistono ancora, non sono stati tagliati, proprio per quei ragazzini di seconda generazione. Brindare al loro declino non pare molto furbo.

Oltre i numeri e i ragionamenti di carattere economico dovrebbe comunque atterrirci la prospettiva di un Paese vuoto, popolato solo da vecchi. Già oggi lungo tutto l’Appennino, nelle aree interne del Sud, nelle Isole, si moltiplicano i paesi fantasma, posti con poche decine di abitanti dove non c’è più niente, né ufficio postale, né banca, talvolta nemmeno un bar, e se l’idea di rianimarli è utopistica dovremmo coltivare almeno quella di fermare la desertificazione prima che si prenda pure centri più grossi. Provarci, almeno. Copiando un po’ dall’Europa, invece di fare di testa nostra con irriducibile ostinazione — e ammettendo che le loro ricette hanno funzionato, le nostre no.

Perfino Elon Musk si permette uno sfottò

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