Bassorilievi in riva al mare a Capo Bruzzano

Tempo di lettura: 10 minuti

In questo articolo voglio raccontare una piccola… “avventura alla Indiana Jones” occorsa a me e a un gruppo di amici nell’ultimo giorno della stagione balneare 2014. Un ritrovamento archeologico, lealmente — quanto ottimisticamente — sottoposto alle autorità, che ha generato una serie di rebus sfortunatamente rimasti a tutt’oggi irrisolti, con immenso rammarico (ci sono due potenziali reperti lasciati a consumarsi irrimediabilmente in riva al mare, dei quali l’anno prossimo non ci sarà più traccia) e una grande domanda finale inevasa: siamo stati vittime di una truffa, oppure abbiamo trovato (e già perduto) le tracce di insediamenti pre-ellenici in zona magnogreca?

Ecco cosa è successo.

In questi due video, la testimonianza visiva del ritrovamento fortuito occorso il 14 settembre 2014 a un gruppo di bagnanti (ossia, i miei amici e io) alle “piscine” di Capo Bruzzano (RC), un punto molto noto della costa jonica meridionale calabrese. La persona che per prima ha notato i due reperti si chiama Teresa Pietropaolo.
Il luogo, per l’esattezza, è questo:

Cliccare qui per accedere a GoogleMaps in caso la mappa non sia visibile

Si tratta di due lastroni di pietra (stessa pietra entrambi, diversa dalle altre rocce del luogo) che, al momento della scoperta, sembravano esser stati portati alla luce dalle recenti mareggiate che avevano colpito tutta la costa da Bianco a Palizzi, e che avevano creato una specie di “gradino” sulla sabbia della battigia, alto circa un metro. Tanto che per raggiungere l’acqua si doveva a volte saltar giù dalla sabbia.
In uno dei lastroni è presente un bassorilievo di impegnativa (anche se non pregevole) fattura: una sorta di antico personaggio, dio o guerriero, dall’aria vagamente greca (capelli e barba a riccioli, come nelle raffigurazioni degli eroi della grecità classica), ritratto di profilo, che regge un utensile (un’arma?); in cima alla testa c’è una specie di “assenza”, un vuoto la cui forma ad arco ricorda il piumaggio degli antichi elmi greci (ma non c’è elmo).
Nel secondo lastrone è invece scolpita la sola traccia del profilo di un viso: naso aquilino, occhi, bocca, uno strano copricapo che termina a punta in avanti.
(Cliccare sulle due immagini per zoommare. Nella foto in basso, la posizione dei lastroni: abbandonati in quel punto, proprio dove battono le onde, entro la prossima estate non resterà traccia dei bassorilievi…)

Le immagini sono state sottoposte già il giorno dopo alla Direzione Regionale Beni Culturali e Paesaggistici della Calabria (sede RC) e ad altri esperti.
Nel frattempo, nel gruppo di cui il sottoscritto autore del blog faceva parte (in spiaggia eravamo 5 adulti e 4 bambini) si era accesa un’accanita discussione sulla natura dei lastroni. Alcuni sostenevano si trattasse dell’opera di qualche artista che aveva fatto campeggio in quel punto per qualche giorno; un’altra teoria voleva che fossero opera di qualcuno degli operai che hanno costruito il muro di contenimento che si vede al di sopra della battigia. Ovviamente, l’opposizione più forte è dovuta al seguente ragionamento: «Sono a pelo d’acqua, non possono essere ‘antichi’: il mare avrebbe consumato qualsiasi cosa nell’arco di qualche anno».

Ma Teresa, la scopritrice, e il sottoscritto non siamo mai rimasti convinti di queste spiegazioni (sebbene siamo d’accordo sul fatto che il mare «avrebbe consumato le opere»). E il perché è presto detto, e ne abbiamo dato subito conto su Facebook la sera stessa del ritrovamento.

1. Intanto, perché mai un “artista” avrebbe dovuto lavorare un lastrone (anzi, due) adagiato dove batte l’onda, col rischio di esser ricoperto (anzi, ricoperti) dalla sabbia (o, appunto, consumati dall’azione del mare) e quindi di restare “invisibili”? La spiaggia in quel punto è disseminata di pietre anche molto grandi, sia a riva che “all’asciutto”: dove sarebbe stato molto più comodo lavorare di scalpello. Ma dove (soprattutto) sarebbero rimaste ben visibili e al riparo dal mare. Quale scultore realizzerebbe la propria opera in un angolo lontano dalla vista, dove il mare pian piano consumerebbe la sua fatica? (NB: le lastre a occhio e croce pesano almeno tre quintali ciascuna, non sono sollevabili se non da una dozzina di uomini o da una gru.)

2. Lasciando da parte il lastrone con il solco, che potrebbe benissimo essere l’opera moderna (ma anche no, come esporrò sotto) raffazzonata e frettolosa di qualche buontempone che non aveva come altro passare il tempo su quella spiaggia… a essere davvero imponente è il lastrone col bassorilievo: non si tratta di un lavoro di poche ore. Soprattutto, perché scolpire un mezzobusto così grande lasciando la figura “a metà”? Come si intravede nel filmato e nelle immagini, infatti, sia la figura umana che l’«arma» si interrompono nelle parte inferiore della grande pietra: come se l’intera lastra fosse spezzata in quel punto — e quindi parte di una raffigurazione molto più grande.

Baal-Ammone, il dio supremo della colonia fenicia di Cartagine

3. I due lastroni sono di una pietra completamente diversa rispetto a tutto il resto delle rocce presenti in situ.

4. La figura del primo lastrone, pur avendo nella parte superiore i “canoni della grecità” (la testa coi riccioli, che vagamente richiama la Testa del Filosofo presente al Museo di Reggio Calabria, dove costituisce la seconda attrazione dopo i Bronzi di Riace), in realtà ha in sé qualcosa di più arcaico. Le proporzioni del corpo non sono armoniche, e il braccio è sproporzionato. Un “buontempone” di saccopelista che si fosse fermato da quelle parti non avrebbe scolpito un’opera così “sghemba”: appartenendo lui al XXI Sec. (e verosimilmente uscito da una scuola d’arte), essa sarebbe molto più proporzionata.
Piuttosto, osservando quella sorta di “aureola” che ne sovrasta il capo, a me personalmente richiama alla mente le divinità del pantheon Fenicio/Mesopotamico: penso a El o ancora meglio a Ba’al/Ammon (nell’immagine b/n qui sopra). Peraltro, l’accoppiata barba-aureola può richiamare anche figure ascetiche non necessariamente antichissime. La storia della zona è densa delle esperienze di frati bizantini e fu teatro di numerosi insediamenti cenobitici; questi monaci basiliani erano notoriamente barbuti e, quando tramandati ai posteri come santi, dotati di nimbo nell’iconografia. In tal caso, l’«arco» che sovrasta la testa non sarebbe un «piumaggio» ma un’aureola: quella che ha in mano non è un’arma, e il bassorilievo è la raffigurazione di un santo cristiano.

5. Sempre a proposito di popoli antichi, la figura presente sul secondo lastrone è a mio personalissimo avviso molto più interessante, pur essendo artisticamente la meno appariscente. Perché ha una incredibile rassomiglianza con due antichissime divinità dei pantheon iranici/assirobabilonesi/fenici: Tammuz (o Dumuzi) e Mithra. Fate voi stessi il confronto, osservando principalmente il copricapo (l’immagine si apre ingrandita in una nuova finestra):

6. Se le due lastre sono opera di un falsario, perché avrebbe dovuto realizzarle in due modi, con due stili tanto diversi?

7. Nel caso della figura del secondo lastrone, perché inventarsi quel “buffo copricapo”?

Questi ultimi due dubbi sono paralleli a un quesito anche in senso inverso (che fa cioè propendere per la non-autenticità): se il primo lastrone raffigura Baal oppure un eroe greco o ancora un monaco-santo basiliano, che ci farebbero nel medesimo sito due figure appartenenti a culti diversi e non sovrapponibili? Tammuz/Dumuzi appartiene alla civiltà assiro-babilonese e il suo culto si estese fino alla Grecia (dove divenne Adone, cambiando però anche sembianze fisiche), Mithra ad adiacenti culti indo-iranici e il suo culto arrivò perfino a Roma contemporaneamente al Cristianesimo, mentre Ba’al (e/o Ammone) era il dio supremo della colonia fenicia di Cartagine e corrispondeva al semitico El, al greco Crono e al romano Saturno.
D’altro canto, però, c’è da rilevare che in una stele di Baal del XIV–XII Sec. a.C. ritrovata a Ras Sharma (l’antica Ugarit), oggi al Museo del Louvre di Parigi, il dio Baal è raffigurato con un copricapo simile a quello di Tammuz/Dumuzi e di Mithra. E allora i due lastroni potrebbero essere l’eccezionale testimonianza di un sincretismo unico che si produsse proprio (e soltanto) in questo lembo di penisola? Qua ci vorrebbe James Frazer: ci scriverebbe su il seguito de “Il ramo d’oro”…

Finiti i dubbi, approfondisco il ragionamento fino alle più estreme conseguenze: i bassorilievi scoperti il 14.09.2014 da Teresa Pietropaolo sulla riva di Capo Bruzzano (in verità, come esporrò sotto, avrebbe “scoperto” solo il secondo), affioranti dalla sabbia del sea-shore, non sono né del XXI Secolo né della Magna Grecia.
Se è vero — come è vero — che proprio su quelle rive, nell’VIII Sec. a.C., sbarcarono per la prima volta quei Greci che poi andarono a formare le colonie della “Magna Grecia”, ciò significa che quella parte di “grecità” che colonizzò le terre calabresi arrivò con canoni artistici già relativamente sviluppati (vd. “L’Arte Greca Arcaica”): canoni cui lo sgangherato (nelle proporzioni armoniche) mezzobusto del primo lastrone proprio non corrisponde. Il che potrebbe voler dire che questo lastrone non fa parte di un’opera artistica né moderna né greca: a meno che non sia di epoca bizantina, potrebbe essere PRE-ELLENICA. Magari attribuibile ai Pelasgi (i mitici Popoli del Mare di “Italo”, il re che finì col dare il nome all’intera nostra penisola e che regnò proprio su questo lembo di Calabria). Stesso dicasi per il secondo bassorilievo, e anzi a maggior ragione, con una figura che tanto ricorda Tammuz–Dumuzi e/o Mithra.

Secondo Teresa (la scopritrice), potrebbe trattarsi della parte superiore di una tomba: saremmo cioè in presenza della decorazione sul coperchio di un sarcofago, raffigurante un antico guerriero (o capo) sepolto dentro. Magari proprio uno dei primi «coloni» greci sbarcati a Capo Bruzzano. (Anche qui, resta comunque il rompicapo del fatto che le figure sono due, e di due stili diversi.)

Secondo il sottoscritto, al di là dei personaggi raffigurati, se i bassorilievi sono autentici (non opera del famigerato buontempone), bisogna anzitutto affrontare e risolvere il problema di spiegare la loro presenza e semi-integrità (“integrità”… almeno fino al 14 settembre 2014!) in quel punto della spiaggia. In altre parole, rispondere alla domanda: dove sono stati, per secoli (o millenni), senza consumarsi?
È evidente infatti che quelle pietre non possono essere state portate dal mare (troppo pesanti, e in più il luogo è pieno di scogli che avrebbero impedito il loro trascinamento fino a riva, e come se non bastasse il mare le avrebbe consumate), quindi le spiegazioni, a mio modo di vedere, possono essere soltanto due: o erano sotto la sabbia, o erano dentro la collina di Capo Bruzzano.
Non credo alla prima ipotesi: in millenni, qualcuno le avrebbe viste; la sabbia va e viene sotto l’azione del mare, e comunque con tutti i terremoti delle nostre terre sarebbero prima o poi affiorate, o peggio sarebbero rimaste distrutte. Per cui, per quanto riguarda il sottoscritto, la risposta non può che essere: «erano dentro la collina».
Ora, lì c’è il Capo Bruzzano, che reca due interventi dell’uomo, uno molto datato e uno recente: quello molto datato è la ferrovia (che in quel punto scava il promontorio con una galleria), quello recente è un muro di contenimento, fra ferrovia e spiaggia, realizzato da non più di 5 o 6 anni. Questo lo schema del mio ragionamento:

Escludendo una connessione con gli scavi ferroviari, troppo antichi, mi azzardo perciò a ipotizzare che la comparsa dei due lastroni sulla spiaggia risalga alla recente costruzione del muro di contenimento, il quale peraltro dà origine a un piccolo tratto di strada sterrata che collega la discesa dal parcheggio — in alto — a un punto del tratto ferroviario caratterizzato da pilotis — in basso —. Magari gli operai si sono trovati di fronte ai lastroni e, spaventati dal possibile intervento delle autorità preposte ai beni archeologici (con immediato blocco dei lavori, e quindi anche dell’appalto di Ferrovie dello Stato e relativi emolumenti), hanno pensato bene di nascondere le pietre nella spiaggia prospiciente.
È una ricostruzione fantasiosa, certo. E soprattutto ingenerosa verso chi ha realizzato il muro (magari onesti operai che devono guadagnarsi il pane duramente). Ma spiegherebbe un mucchio di cose:
✔ perché nessuno abbia mai visto quelle pietre sulla battigia prima del 2014;
✔ perché il loro stato di conservazione è buono (sono state da sempre dentro la montagna), almeno fino al 14 settembre;
✔ come hanno fatto a spuntare sulla spiaggia, ovvero come sia stato possibile portarle lì (una ditta di lavori edili avrebbe avuto i mezzi adatti allo spostamento — per es., una gru);
✔ perché la pietra di cui sono costituite è completamente diversa da quella del sito.

Al di là di questo spunto fantastico, in effetti, il lettore converrà con me che la presenza delle due lastre sul quel tratto di spiaggia non si spiega con un arrivo dal mare o da “sottoterra”, né tantomeno con una permanenza sotto la sabbia: ce le ha messe l’uomo, e di recente — o il falsario, oppure chi ha lavorato sul costone di Capo Bruzzano.

La soluzione di questo quesito è fondamentale: soltanto dopo si potrà discutere sull’origine dei bassorilievi. La mia ipotesi di un sincretismo che quaggiù in Calabria produsse una convergenza di culti (Tammuz+Mithra+Baal) è intrigante, ma lo erano altrettanto i falsi di Modigliani, e i falsi diari di Hitler, e gli astronauti di Palenque, e il Priorato di Sion…

confronto con 1mo ritrovamento

Per completezza di informazione, riporto infine che la “scoperta” del primo lastrone era stata già fatta da altri il 10 luglio: cercando sul web, mi sono imbattuto in questa notizia dell’emittente RTV, che ne dava l’annuncio. Ecco in che stato era il primo lastrone: come si può vedere dal confronto (cliccare per ingrandire), nei due mesi e mezzo intercorsi fra la prima notizia e il nostro ritrovamento, il bassorilievo aveva già subìto danni ingenti di erosione.
Dalle altre foto presenti nell’articolo si capisce che esso si trovava ancora al riparo dalle onde (lo “scalino” non era stato ancora scavato dal mare sulla spiaggia), quindi l’erosione che ha già cancellato parte dell’orecchio, del sopracciglio e del naso si è prodotta in appena un mese di esposizione alle onde del mare: non oso immaginare a che punto sia adesso — o a che punto sarà la prossima estate…
Come che sia, nella notizia battuta da RTV non c’è alcun riferimento al secondo lastrone, quello con la figura col copricapo.

Sempre per completezza, dò anche conto del fatto che nella stessa zona (un paio di km oltre Capo Zeffirio, fra Africo e Bianco), due anni prima, si era verificato un altro “ritrovamento potenzialmente inestimabile” 1, poi rivelatosi “soltanto di epoca romana” 2: un leone e un’armatura, entrambi in bronzo.

In conclusione di questo post, al netto di tutti i ragionamenti che ho esposto fin qui, l’ultimo dato che devo riportare è una punta di sconforto: malgrado la denuncia alle autorità preposte 3, a tutt’oggi non abbiamo ricevuto notizie sul nostro “ritrovamento”. Non esiste una risposta — né ufficiale né ufficiosa — degli “esperti” al quesito sulla natura di questi lastroni, se cioè sono autentici oppure uno scherzo.
Non è una cosa piacevole. E il lettore converrà che non è bello nemmeno pensare che, se autentici, quei lastroni siano rimasti abbandonati lì a farsi consumare dalle onde del mare, dopo aver magari resistito per molti secoli.

(1) Corriere della Sera, Ansamed, Ntacalabria, Gioacchino Criaco

(2) La Riviera 15/03/2014, Il Quotidiano del Sud 17/02/2015

(3) Direzione Regionale Beni Culturali e Paesaggistici della Calabria, N.Prot. 8098 del 14/9/2014. Tale protocollo significa che è stata anche diramata segnalazione a Soprintendenza ai Beni Archeologici, Soprintendenza per i Beni Architettonici/Paesaggistici/Storici, e al Nucleo Tutela Patrimonio Culturale dei Carabinieri.

EDIT 18 AGOSTO 2015

Siamo tornati sul luogo (cliccare per ingrandire le foto).
Dei due lastroni neanche l’ombra.

La spiaggia, in quel punto, si è completamente trasformata: ora il mare dista quasi 30 metri, la sabbia si è ricostituita compatta. Abbiamo cercato i due manufatti, ma nulla: si sono volatilizzati. Sono (di nuovo) sotto la sabbia? Li ha portati via qualcuno? (Non certo il mare…)
A tutt’oggi, nessuna comunicazione di ritorno dalle autorità. E adesso manca anche l’oggetto della denuncia.

EDIT 26 LUGLIO 2017

A quasi tre anni dal ritrovamento (e ancora in attesa di una risposta dagli “esperti” e/o dalle autorità), c’è una novità importante. Riassunta tutta in questo confronto fra il lastrone più lavorato e la statua del santo cattolico più venerato da quelle parti: San Leo.

Le immagini sono tratte dal libro dell’archeologo Pasquale Faenza, “Del santo padre nostro Leone di Africo. Storie di un monaco, di una reliquia e di un reliquiario”, Iiriti Editore, Reggio Calabria 2014 – Isbn 9788864941325 — Foto: Enzo Galluccio.

Non credo possano sussistere dubbi. Aureola, ascia, barba: benché l’utensile si trovi nella mano destra nella statua conservata ad Africo e invece nella mano sinistra sul bassorilievo, quasi tutto coincide.
Il primo lastrone dunque non è “antichissimo”: non è né un dio guerriero né un eroe greco ma più semplicemente un monaco basiliano. Il monaco più famoso nell’area Grecanica.
“San” Leo (Leone Rosaniti) nacque a Bova (RC) e dopo una vita che le (poche) fonti storiche raccontano molto movimentata morì ad Africo (RC) nel monastero da lui stesso fondato; visse probabilmente nella seconda metà dell’XI Sec., durante la prima età della dominazione normanna nel Reggino.
Il tratto caratteristico della vita del monaco Leone Rosaniti da Bova è quello che identifica la peculiarità stessa del modello di santità italo-greca: l’inscindibile connubio fra preghiera, ricerca spirituale ed erudizione mediante ascesi e studi da una parte, e il grande assistenzialismo sociale a beneficio delle comunità locali dall’altra. San Leo portò avanti un meticoloso processo di commercializzazione della pece aspromontana, celebre sin dall’antichità e menzionata da autori come Plinio o Dionisio di Alicarnasso, i cui proventi venivano interamente devoluti in beneficienza. Era lo stesso Leo a recarsi in Aspromonte per fare scorta di resina (da qui la piccola ascia dell’iconografia), poi trasportata e venduta sino a Messina, il vecchio porto falcato del mito di Urano che i Normanni fecero diventare fiorente a scapito della prospiciente Reggio, troppo greca, linguisticamente e religiosamente, per i loro gusti, e quindi pericolosa nell’ottica delle mire di latinizzazione forzata a scapito dell’Italia Meridionale promosse dai papi e realizzate con le armi dei predoni venuti da Nord.
Nella chiesetta aspromontana di Africo è conservata una sua statua che si usa far risalire al 1635.
Iconograficamente, perciò, le fattezze visibili sul primo lastrone, ben che vada, possono esser fatte risalire al massimo al Medioevo — molto più verosimilmente, in realtà, al XVII Sec. —. Stiamo parlando in qualunque caso di pochi secoli, già solo per la nascita dell’iconografia (la realizzazione del lastrone è un altro paio di maniche: per quel che ne sappiamo, potrebbe essere di cinque anni fa o meno): altro che millenni, quindi
Resta intatta e senza risposte la questione del secondo lastrone.

EDIT 16 settembre 2017

La vicenda si complica. (O piuttosto si chiarisce definitivamente?)

Quella del 2017 è per me l’estate delle sorprese.
Due mesi dopo aver casualmente identificato “l’identità” della figura del primo lastrone, perdendo in un certo senso tutta la magia e il fascino contenuti nei manufatti per via della loro potenziale eredità di vestigia millenarie, ecco che dalla stessa spiaggia spuntano altre sculture!

Qui l’articolo sul Corriere della Locride.

E con queste siamo già a 4. Le rocce battute dallo Zefiro, che nell’VIII Sec. a.C. videro lo sbarco dei primi uomini dell’Ellade dai quali ebbe il via l’epopea della Magna Grecia, si stanno rivelando una miniera di raffigurazioni tridimensionali. E questo pur essendo assolutamente improbabile, come già ho illustrato sopra, la permanenza e conservazione di simili opere in un simile luogo, vuoi per l’erosione da parte del mare, vuoi per gli ostacoli rocciosi sulla battigia.
La prima reazione, un po’ superficiale ma ovvia, di fronte alla nuova scoperta, è la stessa del precedente ritrovamento: da dove vengono? Come hanno fatto a resistere all’azione del mare? Erano sotto la sabbia? Perché, malgrado la fama e l’affollamento della spiaggia di Capo Bruzzano, nessuno li ha mai scoperti prima?

E soprattutto: ma quante altre ce ne sono?!

Dopo qualche minuto però l’atteggiamento cambia. Almeno, il mio.
Proviamo a guardarle tutte insieme:

Non so a voi, ma a me vien da fare le seguenti riflessioni.

DISOMOGENEITÀ. Tutti stili diversi: appartengono a epoche diverse? Anche le rocce sono diverse, e, nel caso di quelli che Teresa Pietropaolo vide nel 2014, di qualità differente da tutte le altre rocce presenti in loco — anche qui: come mai? —. Il luogo è una sorta di folle… “secolare discarica di sculture” di disparata provenienza?

PROFILO. Tutt’e quattro i manufatti raffigurano un volto maschile di profilo. Nessuna raffigurazione frontale.

BARBA. Una delle 4 figure, il “Mithra/Tammuz” con cappuccio, è privo di barba; le altre sono tutte barbute. Un altro aspetto della citata disomogeneità.

APOTROPAICI. Le nuove figure rinvenute nel 2017 hanno un vago aspetto apotropaico. Presenti  in molte culture, a latitudini diverse e da tempi remoti, le maschere apotropaiche avevano per funzione magica l’allontanamento degli spiriti maligni. Nell’Italia meridionale l’abitudine avita di sistemare sull’architrave o sulla chiave di volta dell’arco una maschera di pietra o di terracotta si è tramandata per secoli. Celeberrime sono le ceramiche di Seminara (RC), ma la quantità di esempi di quest’uso scaramantico calabrese è praticamente sterminato, specialmente come elemento architettonico sopra portoni antichi, sotto balconi pericolanti e all’angolo di edifici. Per riuscire ad allontanare (αποτρεπειν, “apotrepein” in greco antico) la malasorte, le maschere dovevano essere mostruose, in grado di spaventare gli spiriti maligni e tenerli distanti dall’abitazione. L’iconografia è molto varia: di solito sono rappresentazioni antropomorfiche più o meno terrificanti. Tuttavia i modelli più ricorrenti sono facce demoniache con lingua di fuori e corna vistose. Quindi molto differenti dalle facce alquanto “miti”, serafiche che invece si vedono su queste due pietre appena scoperte a Capo Bruzzano.

Tutti questi dubbi vanno a cumularsi con i quesiti di tre anni fa (vd. sopra), e cioè:

✔ Se sono dei falsi, perché mai un “artista buontempone” avrebbe dovuto lavorare dei lastroni adagiati dove batte l’onda, col rischio di trovarseli ricoperti dalla sabbia o, peggio, consumati dall’azione del mare, e quindi di restare “invisibili”?
✔ Se le lastre sono opera del “falsario”, perché avrebbe dovuto realizzarle in modi e stili tanto diversi? È un… “club di falsari”?
✔ Se non sono opera di falsari, dove sono state queste pietre, per secoli, senza consumarsi? È evidente che non possono essere state portate dal mare (troppo pesanti, e in più il luogo è pieno di scogli che avrebbero impedito il loro trascinamento fino a riva, per tacere dell’erosione marina). Erano sotto la sabbia, o erano dentro la collina di Capo Zeffirio?

L’aggiornamento della vicenda avvenuto in questa afosissima estate 2017 non sarebbe completo se non riportassi un dettaglio piuttosto inquietante. Che potrebbe anche inserirsi nel quadro della situazione.
A meno di 5 km dal sito dei lastroni, appena all’esterno dell’abitato di Marinella, c’è un piccolo villaggio semiabbandonato, con villette a schiera. È identificato nell’immagine sottostante (e qui c’è il flag su GoogleMaps):

La villetta più a sinistra nell’immagine (più a destra nella realtà) è un’abitazione in stato di abbandono, già parzialmente diroccata, priva di infissi. Al suo interno c’è una stanza i cui muri sono stati riempiti, in modo alquanto rabberciato (ricorrendo a una o più bombolette spray), di geroglifici egizi. In particolare, una parziale riproduzione del celebre “Libro dei Morti” dell’antico Egitto. Oltre a questo, sul pavimento della stanza giacciono resti di candele.
L’impressione netta dell’ambiente è inequivocabile: in quella stanza si sono svolti (si svolgono?) “riti” tipici di una qualche setta. Oppure di un’organizzazione massonico-esoterica. O entrambi.

Esiste qualche collegamento fra questo ambiente poco rassicurante e i lastroni che da tre anni hanno cominciato a spuntare come funghi alla scogliera amena e poco distante di Capo Zeffirio? Naturalmente è una domanda pleonastica, e altrettanto ovviamente non mi avventuro certo a cercare la risposta.

Arrivati a questo punto, mi piacerebbe soltanto che almeno ci fosse una risposta alla denuncia ufficiale effettuata alle autorità (vd. sopra) in merito ai lastroni: Teresa e io siamo in attesa da 3 anni.
In tutta sincerità, però, l’intera storia comincia a “puzzare” di falso.

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