Calabria: la discarica tossica dello Stato Italiano
Una storia sporca. Anzi, inquinatissima. Di una gravità inaudita, peggio del Watergate o di Enron o di qualunque altro scandalo si sia mai visto: per decenni, le industrie che volevano smaltire a basso costo rifiuti tossici si rivolgevano al governo italiano, che chiamava i servizi segreti, i quali chiamavano i vari boss, i quali compravano navi da affondare con dentro i rifiuti; questi ultimi, dopo i primi tentativi nel Mar Rosso (troppo distante, e comunque instabile e pericoloso), trovavano più conveniente cagare la loro merda nei nostri mari. Decine — e forse centinaia — di navi colate a picco in tutto il Mediterraneo in oltre 20 anni, con una preferenza per il basso Tirreno e lo Jonio. Ma anche camionate di porcherie interrate in vari siti in Calabria e Basilicata. Con conseguente aumento delle casistiche tumorali nelle popolazioni dell’Italia del Sud. La giornalista Ilaria Alpi e l’ufficiale Natale De Grazia avevano scoperto qualcosa (se non tutto) e sono stati assassinati. In mezzo a questo teatrino drammatico e stragista, genialate criminali come quella — addirittura brevettata e offerta a mezzo mondo — di sparare siluri ripieni per “inchiodarli” nel fondo marino, oppure semplice idiozia ignorante e irresponsabile come quella delle decine di possidenti agricoli che “piantavano” fusti nei loro terreni per arrotondare le entrate.
Il tutto, ça va sans dire, apparecchiato dalla solita ’Ndrangheta, dai soliti massoni, dai soliti politici anche di grosso calibro, dai soliti agenti segreti, dalla solita ignavia e/o impotenza della magistratura, dai soliti fantasmi americani e russi, dal solito strepito sterile delle associazioni ambientaliste.
Una «storia sporca, inquinatissima, gravissima»: e dunque indicibile.
Forse uno dei motivi per cui lo Stato chiamato Italia non ha mai combattuto seriamente le mafie è proprio questo: i boss e le loro manovalanze tornano comodi quando c’è del “lavoro sporco” da fare in silenzio…
La mafia è un’organizzazione creata ad hoc per svolgere determinate funzioni, e riceve precise protezioni, senza le quali non potrebbe esistere. Volerla trasformare in un “tipo antropologico” o in un fenomeno nato dal basso significa occultare come agisce l’oligarchia dominante, e i metodi che essa utilizza per continuare a dominare. Oggi le autorità statunitensi ed europee hanno un potere di controllo sul pianeta mai avuto prima, eppure esse sostengono di non poter debellare né la mafia né il “terrorismo” né la pirateria contemporanea. I governi occidentali, che dovrebbero combattere ogni fenomeno criminogeno, appaiono stranamente inadeguati, con mezzi insufficienti, e talvolta persino latitanti. Se gli Stati intendono combattere DAVVERO la mafia, come mai non la sconfiggono? Se infatti oggi esiste una sola e potentissima egemonia — quella angloamericana — che controlla anche la produzione di droga e di armi, com’è possibile che essa non abbia nulla a che vedere con le reti mafiose internazionali?
E poi c’è il Sud in sé. La scaltrezza (viltà?) di quanti si riempiono la bocca con la pericolosità delle relazioni della Mafia (la “zona grigia”) finché si rimane sul piano teorico, per poi trincerarsi dietro timidezze d’ogni tipo quando si passa al piano concreto dell’effettiva individuazione di tali rapporti: si sfocia nel tentativo di negare in generale l’esistenza stessa di rapporti mafia-politica-economia. Una rilettura surreale il cui leit-motiv è una sorta di riduzionismo/negazionismo di tali rapporti, che sarebbero in pratica inventati da indagini “creative”, quindi inquinate e inattendibili: si tratterebbe di “isolate vicende locali”, prive di respiro idoneo a farne una componente della storia nazionale. Pur essendo, questa tesi riduzionista/negazionista, totalmente smentita dall’imponente materiale probatorio emerso dai processi (Andreotti e Dell’Utri per tutti) e dalle indagini dei ricercatori più qualificati.
Ma andiamo con ordine. Cronologico…
Quanto segue è una sorta di diario con gli episodi salienti della vicenda a partire dal suo scoperchiamento, nel 2009: inchieste, scoop, sentenze, aggiornamenti, nuove rivelazioni e scoperte. I singoli episodi — pardon, le pagine di questo diario — sono indicati con la relativa data echeggiando un “diario del capitano” che è omaggio non tanto al capitano Kirk di Star Trek quanto piuttosto al capitano di corvetta Natale De Grazia, ucciso (e quasi certamente perfino torturato) nel 1995. Colpito mentre era in missione esplorando “l’ignoto” (ignoto alla massa, non certo alla parte grigia delle istituzioni) a bordo non di una Starship bensì di una… Starshit (la “merda” di livello “stellare” di cui la Calabria è stata riempita) nelle “silenziose profondità dello Spazio” (quello limaccioso delle mute complicità e delle stragi impunite e ineffabili, materia in cui l’Italia, pur non avendo Hollywood, è insuperata primatista mondiale).
«Com’è profondo il mare… così stanno uccidendo il mare…»
Starshit, diario del capitano - Giovedi, 01 Ottobre 2009
L’orribile verità
E così, lentamente ma inesorabilmente, un’orribile verità sta venendo a galla grazie alle rivelazioni di un pentito di ’Ndrangheta e alle faticose indagini di un PM: la Calabria — e i suoi mari, e i suoi monti — è la discarica “legale” dei rifiuti tossici di mezzo mondo, non solo aziende ma anche “cose pubbliche” come l’ENEA e l’ENI.
Da 20 anni e oltre, le industrie che si devono disfare di veleni, scorie e pattume radioattivo, si rivolgono ad apparati dello Stato; alcuni politici — anche di spicco — fungono da intermediari con i servizi segreti, i quali incaricano la malavita e i boss mafiosi, i quali a loro volta s’incaricano di sbrigare il lavoro sporco (affondare “navi-carretta” a pochi kilometri dalle coste della Somalia o direttamente del Mediterraneo, oppure interrare il contenuto di interi TIR in greti di torrente o cave abbandonate del Pollino, dell’Aspromonte e di chissà quale altra zona).
Le aziende risparmiano sui costi; i politici intascano lauti compensi sottobanco; gli ufficiali dei servizi segreti una congrua mazzetta; i boss della ’Ndrangheta montagne di denaro. E i Calabresi muoiono di cancro.
«Basta essere furbi, aspettare delle giornate di mare giusto, e chi vuoi che se ne accorga?». «E il mare? Che ne sarà del mare della zona se l’ammorbiamo?». «Ma sai quanto ce ne fottiamo del mare? Pensa ai soldi, che con quelli, il mare andiamo a trovarcelo da un’altra parte…». Dialogo tra due boss della ’Ndrangheta contenuto nel fascicolo del PM Cisterna: ogni commento è superfluo, su questa gente, che alcuni ancora si ostinano a definire “uomini d’onore”…
Non so se è chiaro il concetto… Lo ripeto, perché è di una gravità inaudita: le industrie che volevano smaltire rifiuti tossici a basso costo si rivolgevano al governo italiano, che chiamava i servizi segreti, i quali chiamavano i vari boss, i quali compravano navi da affondare con dentro i rifiuti; questi ultimi, siccome il Mar Rosso era distante, trovavano più conveniente cagare la loro merda nei nostri mari. Un centinaio di navi affondate in tutto il Mediterraneo in 20 anni. La giornalista Ilaria Alpi e l’ufficiale Natale De Grazia avevano scoperto tutto e sono stati assassinati.
Il 12 Dicembre 1995 il pool di investigatori della Procura di Reggio Calabria che si reca in macchina verso La Spezia è composto, oltreché da De Grazia, anche da Nicolò Moschitta e Rosario Francaviglia. Poco prima di Nocera Inferiore in Campania, i tre decidono di fermarsi a cenare in uno dei tanti service dell’autostrada. Mezz’ora al massimo. Ripartiti, il capitano è seduto dietro. I colleghi a un certo punto non lo sentono più parlare. Ha il respiro pesante, non risponde alle sollecitazioni. Rantola.
L’auto viene fermata su una piazzola d’emergenza. De Grazia, secondo il racconto degli unici due testimoni, muore in pochi istanti, nonostante i loro tentativi di soccorso. La morte del comandante «può ricondursi, per sua natura, a una morte di tipo naturale, conseguente a una insufficienza cardiaca acuta, inquadrabile più specificatamente nella fattispecie della morte improvvisa». È questo il responso di prima autopsia, il cui referto viene depositato il 12 Marzo 1996. Morte improvvisa, dunque. Inspiegabile, comunque rarissima.
Gli investigatori a La Spezia ci andavano per cercare le rotte di alcune navi partite da quel porto. Non ci arriveranno mai, e quando qualcun altro si presenterà all’archivio dell’approdo ligure, si scoprirà che, nel frattempo, le stanze che ospitavano quei documenti si erano allagate, e che tutto era finito al macero.
I familiari di De Grazia, non convinti, a distanza di tempo chiedono una nuova perizia medica. Sarà affidata alla stessa dottoressa Del Vecchio che ha eseguito la prima. Identico a quello precedente anche l’esito. Una stranezza. Fra le tante.
Un elenco di affondamenti volontari, navi che spariscono nel nulla senza lanciare il mayday…
Basta ricordare alcuni casi per avere un’idea di quello che è successo in questi anni.
Nel 1985, durante il viaggio da La Spezia a Lomè (Togo), sparisce la motonave Nikos I, probabilmente tra il Libano e Grecia. Sempre nel 1985 s’inabissa a largo di Ustica la nave tedesca Koraline. Nel 1986 è il turno della Mikigan, partita dal porto di Marina di Carrara e affondata nel Tirreno Calabrese con il suo carico sospetto. Nel 1987 a 20 miglia da Capo Spartivento, in Calabria, naufraga la Rigel. Nel 1989 la motonave maltese Anni affonda a largo di Ravenna in acque internazionali. Nel 1990 è il turno della Jolly Rosso a spiaggiarsi lungo la costa tirrenica in provincia di Cosenza. Nel 1993 la Marco Polo sparisce nel Canale di Sicilia.
Fino agli anni Novanta c’era addirittura chi teorizzava pubblicamente la sepoltura in mare dei rifiuti radioattivi: la ODM (Oceanic Disposal Management, “gestione di depositi sottomarini”) di Giorgio Comerio si presentava su Internet offrendo i suoi servigi di “affondamento su commissione”. Era già in vigore la Convenzione di Londra che vieta espressamente lo scarico in mare di rifiuti radioattivi, ma la ODM, che operava dal 1987, sosteneva che non si trattava di scarico “in” mare ma “sotto” il mare perché la tecnica proposta consisteva nell’uso di una sorta di siluri d’acciaio di profondità che, grazie al loro peso e alla velocità acquisita durante la discesa, s’inabissano all’interno degli strati argillosi del fondo marino penetrando a una profondità di 40-50 metri… Allucinante! Questi si facevano pubblicità sul web!
Comerio contattava i governi della Sierra Leone, del Sudafrica, dell’Austria. Proponeva affari anche al governo somalo: 5 milioni di dollari per poter inabissare rifiuti radioattivi di fronte alla costa e 10 mila euro di tangente al capo della fazione vincente dell’epoca, Ali Mahdi, per ogni missile inabissato. Pagamento estero su estero, s’intende. A provarlo ci sono i fax spediti da Comerio nell’autunno del 1994 al plenipotenziario di Mahdi, Abdullahi Ahmed Afrah, e acquisiti dalla commissione di inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi.
La giornalista della RAI aveva scoperto il traffico e, cosa più pericolosa, la tangente?
Nel 2000, l’indagine iniziata dalla magistratura di Reggio Calabria nel 1994 dopo una denuncia di Legambiente sulla Rigel, fu archiviata, nonostante la gran mole di indizi, perché “mancava il corpo del reato”. Difficile del resto che le prove potessero emergere da sole visto che erano state seppellite con cura in una fossa del Mediterraneo.
Nel settembre 2009 però, grazie all’ostinazione della procura di Paola e dell’assessorato all’Ambiente della Regione, la “pistola fumante” è stata trovata: un piccolo robot è riuscito a fotografare il delitto (no, non è un refuso per relitto…) sepolto a 487 metri di profondità, i bidoni della vergogna che spuntano dalla falla nella prua della probabile Cunsky. Il teorema della prova irraggiungibile è crollato.
La radioattività a Serra d’Aiello
Il peggio del peggio è emerso inequivocabilmente sulla terraferma. Si è trovata un’area collinare, a pochi chilometri dal litorale cosentino, contaminata dalla radioattività. Si è scoperto che in quella stessa zona è avvenuto lo smaltimento di rifiuti tossici provenienti dalle lavorazioni industriali. Sono spuntate testimonianze che collegano questi ritrovamenti a traffici, via mare, di scorie pericolose. E soprattutto, si è riscontrato nei comuni limitrofi l’aumento dei tumori maligni, con un pericolo a tutt’oggi incombente sulla popolazione.
Una vicenda terribile che parte il 14 dicembre 1990 dalla spiaggia di Formiciche, nei pressi di Amantea, mezz’ora di macchina a nord di Lamezia Terme. Pochi ombrelloni sparsi, turismo familiare e l’azzurro tenue del mare costeggiato dalla ferrovia. Qui si è arenata davanti agli occhi perplessi dei residenti la motonave Rosso. Secondo l’armatore Ignazio Messina, si trattò di un incidente provocato dal mare in burrasca. Ai magistrati, invece, venne il dubbio che a bordo ci fossero sostanze tossiche o radioattive: bidoni che avrebbero dovuto essere smaltiti sui fondali marini, e che causa maltempo sarebbero finiti sulla costa, per poi sparire nell’entroterra. A lungo, come riferito in numerosi articoli da L’Espresso, gli investigatori hanno cercato di scoprire la verità. Sia sul carico della Rosso, sia sulle altre carrette del mare: imbarcazioni in condizioni pietose, mandate a picco nel Mediterraneo colme di scorie. Un lavoro segnato da mille ostacoli e costanti minacce. Il 13 dicembre 1995, dentro questo scenario, è morto in circostanze più che sospette il capitano di corvetta Natale De Grazia, consulente chiave della procura di Reggio Calabria. E intanto, dall’intreccio tra Italia e altre nazioni (europee e non, comunque disposte a tutto per smaltire pattume tossico) sono uscite le figure di agenti segreti, politici ai massimi livelli, faccendieri massoni e onorati membri della ’Ndrangheta. Ma nonostante le migliaia di verbali, di indizi, di indicazioni sui presunti luoghi di occultamento, non si è raggiunta per anni la certezza. Ancora il 13 maggio 2009, il GIP Salvatore Carpino si è trovato ad archiviare il sospetto di affondamento doloso e truffa pendente sugli armatori Messina. E loro hanno festeggiato: dichiarando che quell’atto chiudeva una stagione di «accuse infondate, calunnie, subdole diffamazioni e campagne stampa fondate sul nulla».
Poco è stato definitivamente chiarito, in questa storia, e il primo a riconoscerlo è il procuratore capo di Paola, Bruno Giordano. Il quale non soltanto sta continuando a indagare, ma ha trovato quello che si sospettava da anni: appunto la presenza, a pochi chilometri dalla spiaggia di Formiciche, sulla strada provinciale 53 che sale in collina, di un’area radioattiva. Un angolo di campagna che prende i nomi di Petrone-Valle del Signore e Foresta, e che è incastrato tra i comuni di Aiello Calabro e Serra d’Aiello, lungo il greto del fiume Oliva. Già nel 2004, l’Arpacal (Agenzia regionale protezione ambiente calabrese) aveva qui scoperto metalli pesanti e granulato di marmo, utilizzato dalla malavita per schermare la radioattività.
Allora, il perito Ornelio Morselli certificò la presenza eccedente di rame e zinco, ma anche di policlorobenzeni (Pcb) con «caratteristiche tossicologiche analoghe alle diossine». Se a questo si somma che un funzionario dell’ex genio civile ha ammesso di avere visto un fusto nella briglia del fiume Oliva, si capisce perché l’ex PM di Paola, Francesco Greco, abbia ipotizzato un nesso tra il ritrovamento dei rifiuti e la motonave Rosso; e più in generale, un legame tra le sostanze tossiche e i traffici marittimi. Una tesi che qualcuno ha cercato di catalogare come azzardata, ma che oggi, con il ritrovamento di un documento inedito, assume tutt’altro spessore. Nel 2005, infatti, un investigatore della procura di Paola ha accompagnato al fiume Oliva Amerigo Spinelli, poliziotto municipale di Amantea (l’ameno paesino accanto alla spiaggia di Formiciche). E nella sua relazione finale, ha scritto: «Spinelli indicò un’area che (…) corrisponde al greto della località Valle del Signore e aree adiacenti». Di più: Spinelli ha riferito che «un’ampia zona compresa tra la predetta zona e almeno 200 metri a ovest (…) era stata interessata dal deposito di rifiuti/materiali derivanti dallo smantellamento della motonave Rosso»…
Nel 2007 è arrivato il secondo colpo di scena, anch’esso sconosciuto fino a oggi. Due ufficiali hanno notato dei camion che prelevavano terreno dai torrenti Catocastro e Valle del Signore (affluente dell’Oliva) per il ripascimento delle coste. E quando hanno ispezionato le spiagge interessate, hanno trovato svariati oggetti ferrosi, tra i quali un “coperchio (…) presumibilmente appartenente a un fusto”, pezzi di lamiera e “quattro tubi di diverso diametro” che «possono essere ricondotti, verosimilmente, a parte delle protezioni in uso sui traghetti Ro-Ro»: navi come la Rosso, con lo sportello ad hoc per imbarcare i carichi su ruote.
A cavallo tra il 2007 e il 2008 l’Arpacal e il perito Morselli hanno riscontrato in profondità a Foresta agro di Serra d’Aiello la presenza di Cesio 137 (lo stesso fuoriuscito da Chernobyl). Nel novembre 2008, grazie ai carotaggi nelle immediate adiacenze della briglia del fiume Oliva, si è trovato un sarcofago (di dimensioni ancora ignote) in cemento a circa 10 metri di profondità. All’interno, scrivono i consulenti della procura, «c’erano concentrazioni elevate di mercurio», presente anche in altri campioni. Da qui parte l’ultima svolta di questo incubo. Dalla testardaggine con cui il procuratore Giordano insegue reati che vanno dal disastro ambientale all’avvelenamento delle acque: a fine 2008 incarica l’università della Calabria e il CNR di sondare, con cartografie satellitari, eventuali anomalie termiche nell’entroterra calabro (segno di radioattività). E il 17 febbraio arriva la risposta: positiva…
Il 9 giugno 2005 L’Espresso aveva pubblicato il dossier di un ex boss della ’Ndrangheta che si accusò di avere affondato, d’accordo con il clan Muto, carrette del mare zeppe di sostanze tossiche. Tra le navi, ne indicava tre che transitavano «al largo della costa calabrese, in corrispondenza di Cetraro, provincia di Cosenza». E proprio in questo tratto di mare, a 487 metri di profondità, l’Arpacal ha individuato il 14 dicembre 2008 un «rilievo di forma ellittico/circolare, lungo circa 80 metri e largo non più di 50, che si eleva rispetto alle profondità medie circostanti di circa 4 metri». Guarda caso, agli investigatori risulta che il titolare della vecchia cava accanto al fiume Oliva (oggi defunto) fosse taglieggiato dagli ’ndranghetisti Muto.
Questa è la storia che ha tolto il coperchio alla terribile pentola. Ma ora scopriamo che è piuttosto la punta di un iceberg. Una verità troppo grave per poter essere rivelata, e ci sono già i primi segnali di una volontà di insabbiamento. Ci sarebbero addirittura rifiuti tossici e/o radioattivi provenienti dall’ENEA e dall’ENI nella stiva del Cunsky, la nave affondata al largo di Cetraro.
È passato quasi un mese dall’individuazione del relitto. Nonostante le promesse — «coinvolgeremo anche la Nato», ha detto il ministro dell’Ambiente, Prestigiacomo — non si ha notizia di alcun piano di recupero dei rifiuti contenuti nella nave. Anche l’assessore all’Ambiente della Regione Calabria dice di non aver saputo nulla dal Ministero dell’Ambiente. Si dichiara stupito del fatto che «di una questione così grave non se ne sia parlato in un Consiglio dei Ministri». Annuncia di voler fare una “denuncia politica” a Bruxelles e di voler coinvolgere il commissario all’Ambiente dell’Unione Europea.
Un patto fra ’Ndrangheta e servizi segreti. Una nave affondata con rifiuti tossici di ENEA e di ENI. Sospetti inquietanti: e il fatto che non si stia procedendo al recupero non aiuta a dissiparli.
L’Aspromonte
E purtroppo l’incubo minaccia di non essere confinato solo ai mari.
Negli ambienti ospedalieri di Reggio Calabria è risaputa l’anomala incidenza di casi di leucemia nei comuni di Santo Stefano in Aspromonte e Pellaro; nel comprensorio di Melito Porto Salvo è segnalata una anormale casistica di tumori alla lingua e ai polmoni; in un comune della Piana di Gioia Tauro è segnalata una mortalità pari al 100% nei casi di cancro…
[EDIT 2018] A livello ufficiale i tassi di incidenza e mortalità dei tumori risulterebbero inferiori alla media nazionale nel complesso: merito della dieta mediterranea e dell’assenza di fabbriche. Tuttavia, inspiegabilmente, dal registro dei tumori della provincia di Reggio Calabria emerge che nei comuni di Seminara e Palmi e giù fino a Reggio Calabria, negli anni a partire dal 2006 vi sia un eccesso statisticamente significativo di decessi per tumore nel sesso maschile rispetto alla media, mentre a Montebello Jonico e Motta San Giovanni un eccesso di rischio per tumori femminili.
In particolare il distretto di Reggio ha incidenza statisticamente superiore per il complesso dei tumori in entrambi i generi (+14%) e per alcune neoplasie (tumori del pancreas +86%, mesoteliomi +208%, tumori della mammella femminile +44%, tumori della prostata +25%). Per il distretto Tirrenico si osservano per contro eccessi per i tumori epatici (+71%), per i tumori del polmone (+26%) e per i sarcomi di Kaposi (+133%); il distretto Jonico è invece caratterizzato da eccessi per i tumori del parenchima renale (+64%) e della tiroide (+26%).
«In questa vicenda si muovono personaggi sconvolgenti, persone che galleggiano tra lo Stato e l’anti Stato». Nuccio Barillà è lo storico esponente di Legambiente Calabria che assieme a Enrico Fontana, attuale capogruppo di Sinistra e libertà nella Regione Lazio, fornì lo spunto necessario all’apertura delle indagini. «La mattina del 2 marzo ’94, insieme a Enrico Fontana rileggevamo la denuncia che da lì a poco avremmo consegnato a Francesco Neri — a quel tempo giovane sostituto della allora Pretura di Reggio —. Ci rendevamo conto della gravità e delicatezza della faccenda che andavamo segnalando. Mai, però, avremmo potuto immaginare che nei mesi e negli anni seguenti si sarebbe scatenata tutta quella tempesta». Le notizie si riferivano a un presunto traffico di rifiuti tossici e nocivi trasportati dal Nord Europa verso ben determinate zone dell’Aspromonte. «Stando alle informazioni di cui eravamo entrati in possesso» ricorda ancora Barillà, «quantitativi imprecisati venivano trasportati con grossi TIR e interrati in discariche illegali ricavate in cave naturali o in anfratti, lontano da occhi indiscreti. Alcuni di questi traffici avvenivano via mare. Le navi approdavano in porti non controllati e da lì poi i rifiuti prendevano la via della montagna. Fu quella la prima miccia che fece esplodere il caso. L’inchiesta si sarebbe poi allargata a macchia d’olio. Fino a delineare uno scenario di dimensioni davvero planetarie. Poi tutto si fermò». Tutto archiviato.
Nella sentenza del GIP veniva confermato lo scellerato disegno criminale di smaltimento in mare di rifiuti radioattivi, l’affondamento delle navi. Mancava la sicurezza che il carico fosse di rifiuti i radioattivi. In sostanza, mancava il “corpo del reato”. Quella prova che il mare ha ora restituito. «Sono stati anni difficili» ricorda Barillà. «In cui abbiamo sempre cercato di rincorrere la verità. È il momento per creare un organismo nazionale che coordini tutte le indagini che hanno preso il via dalle dichiarazioni del pentito ex boss Fonti. Prima fra tutte quelle sul centro ENEA della Trisaia, in Basilicata».
I tumori a Paola
I giovani paolani si ammalano di tumore quattro volte di più rispetto alla media nazionale. Paola è a metà strada tra Cetraro — dove è sparita la nave Cunsky — e Amantea, dove si è spiaggiata l’ormai tristemente famosa Jolly Rosso. Non si sa ancora con certezza dove siano stati interrati i rifiuti — la Procura di Paola sta indagando su questo — ma di certo proprio a partire dall’arrivo di quelle navi sono aumentati i tumori nella popolazione giovane. Il picco di malattie a Paola si è registrato negli ultimi dieci anni: proprio nel 1990, il 14 dicembre, la Jolly Rosso arrivò sulla spiaggia nei pressi di Amantea, dove rimase abbandonata a se stessa per ben sei mesi, fino al giugno del ’91. E si ipotizza che quelli fossero anche gli anni dell’affondamento della Cunsky.
Nella fascia 30/34 anni i giovani di Paola si ammalano di tumore con una media del 2,90% contro la media nazionale dello 0,74% per gli uomini e dello 0,86% per le donne. Dai 35 ai 39 anni la media a Paola è del 2,07 contro quella nazionale dell’1,24 per gli uomini e dell’1,78 per le donne. Nella fascia dai 40 ai 44 anni la media a Paola è del 4,15% contro il 2,11 per i maschi e il 3,33 per le donne. Ma anche se guardiamo la fascia 60/64 anni il tasso del 15,77% è superiore all’11,43 dei maschi e all’11,69 delle donne. Dopo i 65 anni la media scende.
«Fino a qualche anno fa avevo pazienti ultracentenari, oggi neanche uno» dice il dottor Cosmo De Matteis — chiamato familiarmente «Cosimo» —, che ha coordinato l’indagine. «Le ricerche sono state fatte a Paola ma ora ci si augura che anche i medici degli altri paesi costieri incrocino i dati per vedere se il fenomeno riguarda tutta la zona o no».
La senatrice Antonella Bruno Ganeri, due volte sindaco di Paola dal ’93 al 2001, è stata colpita personalmente dalla perdita di due figli giovanissimi, morti entrambi per tumore. «Chiedo che il governo centrale si muova. Lo deve a chi non c’è più perché vittima del lavoro, come nel caso della Marlane, e dell’ambiente, come sta accadendo a Paola. Ci sono stati casi di ragazzini morti a dodici anni. Questa è una terra avvelenata da sostanze radioattive buttate qui come se la Calabria fosse la pattumiera d’Italia» dice. Ma perché i rifiuti tossici sono stati buttati proprio in Calabria? «Attribuisco questo lento declino del territorio a due fattori: la depressione culturale in cui sta sprofondando il Paese e la malapolitica. La Seconda Repubblica non è mai decollata. In Calabria la politica ha abdicato ai propri compiti, è diventata clientela e mercato. La città di Paola è stata colpita. Cosa dobbiamo auspicare? Un esodo in massa per lasciare la nostra terra nelle grinfie della mafia e della malapolitica? Spero che finalmente oggi si arrivi al punto di sapere la verità e che queste cose non vengano più insabbiate. Oggi abbiamo un Procuratore della Repubblica, Bruno Giordano, e un assessore regionale all’ambiente, Silvio Greco, che hanno fatto scudo contro il sistema dei faccendieri e della malapolitica. Chiedo che lo Stato li sostenga».
Il Pollino
Gli echi dalla Calabria turbano la tranquillità in Basilicata. Non solo e non tanto perché Cetraro è distante qualche tiro di schioppo dalla costa tirrenica lucana, ma perché lo stesso pentito della ’Ndrangheta, Francesco Fonti, che aveva parlato di quell’affondamento, aveva parlato di un’altra «carretta dei veleni» affondata nel 1992 proprio a largo di Maratea e di 100 bidoni da 220 litri l’uno, contenenti scorie radioattive, seppelliti in territorio di Pisticci. E l’elenco potrebbe ancora allungarsi.
«Noi» dice l’ex procuratore capo di Matera, Nicola Maria Pace, il primo, a inizio anni ’90, a indagare su questo filone, coordinandosi col collega di Reggio Calabria Francesco Neri, «avevamo tutti gli elementi per ritenere, come abbiamo ritenuto da subito, che almeno una quarantina di navi fossero state affondate nel Mediterraneo». Quell’inchiesta, alla ricerca dei riscontri, dovette arrendersi per l’indisponibilità delle tecnologie presenti oggi e per la mancata volontà del Governo di sostenere le spese di ricerca necessarie, ma oggi racconti del pentito e ritrovamenti sono «perfettamente coincidenti» con lo scenario emerso all’epoca, partendo nelle indagini dall’Itrec, il centro ENEA di Rotondella, e un possibile traffico internazionale di plutonio che potrebbe aver avuto uno snodo in Basilicata. La questione, oggi, con la Guerra Fredda passata da un pezzo, vede invertirsi l’ordine di rilevanza dei fattori. Il traffico nucleare a fini bellici non appassiona più. Quello dei rifiuti, invece, crea non pochi problemi e le attività d’indagine sembrano non dover essere circoscritte alla sola Calabria.
«Anche qui faremo qualcosa» dice il sostituto procuratore di Lagonegro, Francesco Greco, oggi in servizio nella procura lucana che ha competenza su Maratea, ma lo stesso che tempo fa avviò l’indagine a Paola sui presunti inabissamenti di navi contenenti rifiuti radioattivi nel mare dell’Alto Tirreno Cosentino. Greco andrà alla ricerca della “Yvonne” la nave che, secondo il pentito Fonti, avrebbe avuto la stessa sorte della Cunsky a largo di Maratea, con a bordo 150 fusti di fanghi radioattivi.
Negli anni scorsi, sempre sotto la spinta della Procura di Paola, una nave oceanografica ha compiuto rilievi anche sui fondali di Maratea che hanno dato esito negativo rilevando valori di radioattività nella norma e ancora ieri l’Arpab, l’agenzia ambientale lucana, è tornata a fornire assicurazioni parlando di «valori nella norma» per i campionamenti che periodicamente fa nelle acque tirreniche lucane. Conseguentemente, o i 17 anni passati hanno ormai disperso ogni effetto, o la Yvonne non è affondata lì. Ma perché un pentito che descrive nei minimi dettagli quanto avvenuto a Cetraro dovrebbe mentire su quanto avvenuto qualche miglio più a nord? Una domanda che ha un suo simile in terraferma. Perché sempre Fonti parlò di «100 fusti di scorie radioattive che, non potendo essere imbarcati su una nave, vennero interrati in Basilicata a Coste della Cretagna di Pisticci». In quella zona non sono stati trovati riscontri, ma oggi si apprende di altre ricerche fatte dall’Istituto Nazionale di Geologia e Vulcanologia, come attività d’indagine diretta, e, in modo più riservato, nell’ambito di programmi di ricerca dell’Agenzia Spaziale Italiana (e così pagati), «sperimentando» tecniche di ricerca satellitari, ma con qualcuno dello Stato che suggeriva dove andare a fare i test. E, con indagini all’infrarosso termico, sarebbero emersi alcuni «siti da approfondire», tra Pisticci (in una zona con un nome uguale a quello indicato dal pentito) nei calanchi di Tursi e in alcune cave del massiccio del Pollino. Qualcuno avrebbe messo materiali o movimentato terra senza un apparente perché. E i timori lucani continuano a crescere.
Il marketing dei siluri
C’è un personaggio chiave al centro degli intrighi. Compare puntualmente in tutte le vicende collegate a questi traffici: si chiama Giorgio Comerio. Ecco come il rapporto Ecomafia del 2006 lo descrive: «È un ingegnere brillante e spregiudicato di Busto Arsizio, ma residente in diverse parti del mondo: all’isola britannica di Guernsey, a Malta, a Lugano e, in Italia, in una bella villa di Garlasco in provincia di Pavia. Di lui in questi anni si è detto di tutto. Per esempio che sia un affarista internazionale collegato ai servizi segreti di numerosi Stati, che sia stato espulso dal Principato di Monaco per traffico d’armi perché riforniva di missili Exocet i generali argentini, durante la guerra delle Falkland. Questo signore, dai modi cortesi e dalle amicizie influenti, si definisce con apparente modestia “semplice esperto di navi e di localizzazioni”». È lui: quello che si faceva pubblicità sul web. «Si è appropriato di uno studio preliminare, avviato dai Paesi dell’Euratom, costato circa 120 milioni di dollari e poi, dopo 15 anni, lasciato cadere. Ha messo in piedi, con il suo socio austriaco e altri personaggi, la società Odm, di cui ufficialmente è solo “uno dei direttori tecnici”». Poi è partito in giro per il mondo a offrire una soluzione davvero originale per la sistemazione delle scorie radioattive, quelle stesse che i governi non sanno dove mettere: i “siluri farciti” sparati sul fondo marino.
Parla il pentito
Francesco Fonti, il pentito della ’Ndrangheta, non ha problemi ad ammetterlo: «Era una procedura facile e abituale. Ho detto e ribadisco in totale tranquillità che sui fondali della Calabria ci sono circa 30 navi».
E non parla per sentito dire: «Io ne ho affondate tre, ma ogni anno al santuario di Polsi (provincia di Reggio Calabria) si svolgeva la riunione plenaria della ’Ndrangheta, dove i capi bastone riassumevano le attività svolte nei territori di loro competenza. Proprio in queste occasioni, ho sentito descrivere l’affondamento di almeno tre navi nell’area tra Scilla e Cariddi, di altre presso Tropea, di altre ancora vicino a Crotone. E non mi spingo oltre per non essere impreciso».
Ciò che invece Fonti riferisce con certezza è il sistema che regolava la sparizione delle navi in fondo al Mediterraneo. «Il mio filtro con il mondo della politica è stato, fin dal 1978, un agente del Sismi che si presentava con il nome Pino. Un trentenne atletico, alto circa un metro e ottanta con i capelli castani ben pettinati all’indietro, presentatomi nella capitale da Guido Giannettini, che alla fine degli anni Sessanta aveva cercato di blandirmi per strapparmi informazioni sulla gerarchia della ’Ndrangheta. Funzionava così: l’agente Pino contattava a Reggio Calabria la cosca De Stefano, la quale informava il mio capo Romeo, che a sua volta mi faceva andare all’Hotel Palace di Roma, in via Nazionale. Da lì telefonavo alla segreteria del Sismi dicendo: “Sono Ciccio e devo parlare con Pino”. Poi venivo chiamato al numero dell’albergo, e avveniva l’incontro».
Il contenuto degli appuntamenti era sempre simile. «L’agente Pino mi indicava la quantità di scorie che dovevamo far sparire e mi chiedeva se avessimo la possibilità immediata di agire». La maggior parte delle volte la risposta era positiva. Ed era un ottimo affare: «Si partiva da 4 miliardi di vecchie lire per un carico, e si arrivava fino a un massimo di 30». Soldi che venivano puntualmente versati a Lugano, presso il conto “Whisky” all’agenzia Aeroporto della banca Ubs, o in alcune banche di Cipro, Malta, Vaduz e Singapore. «Tutte operazioni che svolgevamo grazie alla consulenza segreta del banchiere Valentino Foti, con cui avevamo un cinico rapporto di reciproca convenienza». Quanto ai politici che stavano alle spalle dell’agente Pino, secondo Fonti, sarebbero nomi noti della cronaca italiana. «Mi incontrai più volte per gestire il traffico e la sparizione delle scorie pericolose con Riccardo Misasi, l’uomo forte calabrese della Democrazia Cristiana» dice, «il quale ci indicava se i carichi dovessero essere affondati o seppelliti in territorio italiano o straniero. La ’Ndrangheta, infatti, ha fatto colare a picco carrette del mare davanti al Kenya, alla Somalia e allo Zaire (ex Congo belga), usando capitani di nazionalità italiana o comunque europea, ed equipaggi misti con tunisini, marocchini e albanesi». Rimane l’incontrovertibile fatto, aggiunge Fonti, «che la maggior parte delle navi è stata fatta sparire sui fondali dei nostri mari». Non soltanto attorno alla Calabria, ma «anche nel tratto davanti a La Spezia e al largo di Livorno, dove il boss Natale Iamonte mi disse che aveva “sistemato” un carico di scorie tossiche di un’industria farmaceutica del Nord».
Seguono altri racconti dell’ex boss, che dopo il ritrovamento del mercantile sui fondali di Cetraro non si limita a occuparsi dei retroscena di casa nostra ma apre una pagina internazionale finora ignota sulla Somalia: «Avevo rapporti personali», dice, «con Ibno Hartomo, alto funzionario dei servizi segreti indonesiani, il quale contattava me e la ’Ndrangheta per smaltire le tonnellate di rifiuti tossici a base di alluminio prodotte dall’industriale russo Oleg Kovalyov, vicino all’allora agente del KGB Vladimir Putin». Un lavoro impegnativo per le dimensioni, spiega Fonti, gestito in due fasi: «Nella prima caricavamo le navi in Ucraina, a Kiev [il fiume Dnepr è interamente navigabile per 8 mesi all’anno e sfocia nel Mar Nero, ndr], le facevamo passare per Gibuti e le dirigevamo a Mogadiscio oppure a Bosaso. Nella seconda fase, invece, le scorie venivano affondate a poche miglia dalla costa somala o scaricate e seppellite nell’entroterra». Facile immaginare le conseguenze che tutto ciò potrebbe avere avuto sulla salute della popolazione. E altrettanto facile, secondo Fonti, è spiegare come le navi potessero superare senza problemi la sorveglianza dei militari italiani, che presidiavano il porto di Bosaso: «Semplicemente si giravano dall’altra parte. Anche perché il ministro socialista Gianni De Michelis, che come ho già raccontato all’Antimafia gestiva assieme a noi le operazioni, era solito riferirci questa frase di Bettino Craxi: “La spazzatura dev’essere buttata in Somalia, soltanto in Somalia”. Naturale che i militari, in quel clima, obbedissero senza fiatare». Allucinante? Incredibile? Fonti allarga le braccia: «Racconto esclusivamente episodi dei quali sono stato protagonista, e aspetto che qualcuno si esponga a dimostrare il contrario». Magari, aggiunge, «anche su un altro fronte imbarazzante: quello delle auto sulle quali viaggiavo per recuperare, nelle banche straniere, i soldi avuti per gli affondamenti clandestini dei rifiuti radioattivi». Gliele forniva «direttamente il Sismi, con la mediazione dell’agente Pino. Per salvarmi la vita, in caso di minacce o aggressioni, mi sono segnato il tipo di macchine e le matricole diplomatiche che c’erano sui documenti. Va da sé che ci venivano assegnate auto diplomatiche perché non subivano controlli alle frontiere». Ora, dopo queste dichiarazioni, «i magistrati avranno nuovi elementi sui quali lavorare», conclude Fonti. «Troppo facile e troppo riduttivo» sostiene, «sarebbe credere che tutto si esaurisca con il ritrovamento nel mare calabrese di un mercantile affondato». Questa, aggiunge, non è la fine della storia: «È l’inizio di un’avventura tra i segreti inconfessabili della nostra nazione. Un salto nel buio dalle conseguenze imprevedibili».
Quanti altri Cunsky custodiscono segreti e rilasciano veleni dal fondo del Mediterraneo? La domanda è la stessa che inseguiva quattordici anni fa il capitano di vascello Natale De Grazia. Nel cuore dell’indagine prendeva appunti. Uno degli ultimi, fino a oggi inedito, offre qualche punto interrogativo e diverse certezze. Vale la pena di leggere: «Le navi, 7/8 italiane e a Cipro. Dove sono? Quali sono? I caricatori e i mandanti. Punti di unione tra Rigel e Comerio. Hira, Ara, Isole Tremiti. Basso Adriatico. Porti di partenza: Marina di Carrara m/v Akbaya. Salerno/Savona/Castellammare di Stabia/Otranto/Porto Nogaro/Fiume. Sulina Beirut. C/v Spagnolo. Materiale radioattivo». Qual era la mappa cui si riferiva il capitano De Grazia nell’autunno del ’95? Non lo sapremo mai. Una sera di metà dicembre di quell’anno De Grazia si accascia sul sedile posteriore dell’auto che lo sta portando a La Spezia, alla caccia dei misteri delle navi a perdere. Una morte per infarto, dice il medico. Ma un infarto particolare, se poco tempo dopo il capitano verrà insignito della medaglia d’oro al valor militare… Comincia da qui, da quell’appunto inedito, il viaggio alla ricerca delle navi dei veleni, affondate non solo in Italia ma in tutto il Mediterraneo e nel Corno d’Africa.
Comandante della Capitaneria di Porto di Reggio Calabria, De Grazia era considerato un militare dalla schiena dritta. Che non temeva la fatica e i rischi di un’indagine considerata spinosa. Era sereno anche il giorno della partenza per la Liguria.
C’è un documento che spiega il valore del lavoro svolto dal capitano. È la relazione inviata al Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi nella primavera del 2003, per chiedere, per il capitano, il riconoscimento ufficiale dello Stato. Riconoscimento che arrivò sotto forma di medaglia d’oro, poco tempo dopo. Il documento porta la firma di Francesco Neri, il magistrato che aveva fatto del comandante della Marina Militare uno dei suoi investigatori di punta. Ed è controfirmato da altre due toghe, Nicola Maria Pace (ex procuratore capo di Matera, il primo, a inizio Anni ’90, a indagare sul filone delle navi dei veleni) e Giovanni Antonino Marletta.
In uno dei passaggi, si legge che durante le perquisizioni a casa di alcuni degli indagati «determinante fu l’apporto investigativo del capitano De Grazia, non soltanto per la sua ben nota esperienza marinaresca e militare, ma – soprattutto – per l’acume investigativo dimostrato, che portò l’indagine ad acquisire elementi probatori di eccezionale importanza e, con la sua competenza, di rapida e facile lettura». Fu De Grazia a trovare le piste che portavano al “caso Ilaria Alpi”, al traffico di armi internazionale, al principale indagato Giorgio Comerio. E fu sempre il capitano a gestire il cuore di un’indagine che «per la sua naturale evoluzione si arricchiva sempre più di elementi investigativi importanti, inediti e al tempo stesso pericolosi».
De Grazia indaga sugli affondamenti ma anche sulle rotte. E scopre che se il cimitero dei veleni è nei mari del Sud Italia, i porti di partenza sono nel Nord, in quell’angolo misterioso tra Toscana e Liguria dove si incontrano due condizioni favorevoli: l’area militare di La Spezia e le cave di marmo delle Alpi Apuane. Perché l’area militare garantisce la riservatezza e il granulato di marmo copre le emissioni delle scorie radioattive. Ma De Grazia sapeva altro. Sapeva, per esempio, che nella casa di Comerio c’era una cartellina: «una carpetta» riferisce Neri «con la scritta Somalia e il numero 1831. Nella cartella c’era il certificato di morte di Ilaria Alpi». Oggi, naturalmente, scomparso dagli atti.
La giornalista Ilaria Alpi aveva probabilmente messo il naso in queste vicende. È stata fatta fuori in un’imboscata «dei ribelli» in Somalia…
[Edit del 2013] In un Paese serio cosa si sarebbe dovuto fare già a questo punto?
Intanto, la vicenda non avrebbe mai dovuto passare sotto silenzio, i riflettori non avrebbero dovuto mai spegnersi. Sarebbero dovute intervenire la Procura nazionale antimafia e il Ministero dell’Ambiente. Sarebbe stato necessario formare un’unità di crisi per il monitoraggio delle zone in cui all’aumento della radioattività corrisponde un picco di tumori.
E poi ci piacerebbe tanto sapere la verità sui legami tra il traffico di rifiuti e il traffico di armi, le connessioni con il caso Ilaria Alpi e il trafugamento di plutonio e rifiuti radioattivi.
In fin dei conti, buona parte del lavoro era già fatto: mettendo assieme le informazioni raccolte pazientemente dai magistrati di mezza Italia sarebbe possibile costruire la mappa dei cimiteri radioattivi dei nostri mari e sul nostro territorio.
IN BREVE: VORREMMO ESSERE LIBERATI DA QUESTA MERDA!
IN SOSTANZA, INVECE: È CALATO IL SILENZIO, I RIFLETTORI SONO SPENTI DA UN PEZZO. E LA GENTE CONTINUA A MORIRE AVVELENATA.
Starshit, diario del capitano - Mercoledi, 28 Ottobre 2009
Non è la Cunsky… e allora dov’è la Cunsky?!
E così non è la Cunsky. Il relitto identificato sul fondale davanti a Cetraro è di un’altra nave (un piroscafo affondato nel 1917). E tanto basta al ministro Prestigiacomo per salutare con entusiasmo la notizia e bacchettare quanti avrebbero seminato «paura e allarme sociale, senza avere riscontri attendibili». Sono stati necessari ben 45 giorni perché i potenti mezzi del Ministero dell’Ambiente, anzi, di una società privata noleggiata in corsa (si fa per dire…), ci dicessero che il nome non era quello indicato dal pentito. E finalmente si è fatta sentire la voce del Ministro, che di 45 giorni non ne ha trovato uno libero per affacciarsi in una Regione dove si sta consumando uno dei più grossi scandali ambientali del nostro Paese, squarciando faticosamente veli di silenzi e di omertà.
La Calabria è in ginocchio, caro Ministro, e non per colpa di allarmi immotivati, ma a causa dei veleni veri ritrovati fin nei capelli dei bambini di Crotone, per colpa delle troppe morti documentate dall’Arpacal nell’area della collina di Ajello, per l’alto tasso di radioattività dichiarata dal Suo Ministero, per gli inquinanti trovati sulla costa che hanno convinto la Capitaneria a emanare un’ordinanza per vietare la pesca in un ampio tratto di costa tirrenica. L’Arpa, il Ministero, la Capitaneria: ecco chi ha «lanciato l’allarme sociale». E poi le procure, a partire da quella di Reggio Calabria, che da tempo indica nell’area dell’Aspromonte i luoghi d’interramento di rifiuti e che da anni cerca di venire a capo del mistero della Rigel, la nave che non si è mai voluta cercare. E la Procura di Paola, la cui tenacia ha consentito di trovare i rifiuti tossici nel torrente Oliva e la cava radioattiva. E poi quella di Lagonegro, che chiede di approfondire le indagini sul relitto individuato di fronte a Maratea. Che ci siano tante navi affondate con rifiuti tossici e radioattivi è una verità.
Che altrettanti rifiuti siano stati interrati dalla ’Ndrangheta sulla terraferma, purtroppo, è un’altra drammatica verità. E se il relitto davanti a Cetraro non è quello della Cunsky, invece che tranquillizzare, a noi procura ancora più ansia, perché allunga i tempi della verità e ci fa sorgere il sospetto che il dramma sia molto più ampio.
Mettiamo che ci siano 55 navi* affondate nei mari italiani: se quella non è la Cunsky, siamo ancora fermi a 55, non siamo scesi a 54! Bisogna tirare fuori i rifiuti interrati sotto il torrente Oliva, bonificare ampie aree della città di Crotone, indagare le cavità dell’Aspromonte e i segreti cunicoli della diga sul Metramo, bisogna cercare la Rigel, la Yvonne A, la Michigan (senza scordarsi della Cunsky, che stando al pentito è lì da qualche parte)… e bisogna che il Governo, non solo il Ministero dell’Ambiente, prenda atto che questa vicenda è più grande, molto più grande della nave che giace di fronte a Cetraro. Allora, e solo allora, smetteremo di tirare la cordicella del segnale d’allarme, Ministro...
(*) Interrogazione parlamentare 4/07697 presentata da Ermete Realacci (PD) il 10 Giugno 2021:
Il loro numero varia da 55 (deposizione dall’ammiraglio Bruno Branciforte al Copasir) a 44 (comunicazione trasmessa dalla direzione marittima di Reggio Calabria alla Commissione antimafia il 27 ottobre 2009) a 39 (per il periodo 1979-1995: relazione conclusiva del 25 ottobre 2000 della Commissione bicamerale sui rifiuti).
L’intera interrogazione è riportata più in basso.
(Peraltro, un paio di quesiti: ma su questo “piroscafo” non erano stati fotografati dei fusti che fuoriuscivano dalla stiva? E questi fusti non avevano etichette che avevano fatto sospettare il coinvolgimento dell’ENEA?! O ce lo siamo sognati?… La missione era stata condotta dalla nave “Copernaut Franca” della società Nautilus, incaricata dalla Regione Calabria con l’Arpacal — Agenzia regionale protezione ambiente —; da questa nave era stato calato il cosiddetto Rov, un robot che nel punto individuato — coordinate 39 gradi 28.50 primi nord, 15 gradi 41.57 primi est — è sceso sotto la teleguida della società Arena sub a 472 metri di profondità filmando il relitto, appoggiato di fianco, nella parte destra uno squarcio — oggi viene da dire: il siluro tedesco —; poco più in là un primo bidone, imploso per la pressione del mare… Ce lo siamo sognati pure questo? Che dire allora di questa testimonianza? E di tutto questo dossier?)
Starshit, diario del capitano - Venerdi, 30 Ottobre 2009
Ci tirano sabbia (dei fondali) negli occhi?
«Cari Calabresi, la nave di Cetraro non è quella che pensavate che fosse. Arrivederci e grazie».
Non c’è alcuna “nave dei veleni” e il pentito Francesco Fonti è da considerarsi definitivamente inattendibile. Lo dicono in coro il ministro Prestigiacomo, il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso e il capo della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, Antonio Vincenzo Lombardo.
La verità ufficiale, emersa dopo le ricerche della “Mare Oceano”, affittata (a 43mila euro al giorno) dal governo e spedita a fare rilievi nel Tirreno cosentino per una settimana, parla di una nave passeggeri, trovata a 470 metri a largo di Cetraro: la “Catania”, un piroscafo lungo 103 metri, costruito a Palermo nel 1906 e affondato il 16 marzo del 1917 da un siluro lanciato da un sommergibile tedesco, dopo aver fatto evacuare i passeggeri, durante il viaggio di ritorno di una crociera da Bombay a Napoli.
Il messaggio è: «il caso è chiuso». Chiuso?
LE IMMAGINI
Le foto e i brevi segmenti di filmato mostrati durante la conferenza stampa del 29 ottobre 2009 alla Direzione Nazionale Antimafia non sono sembrate chiarissime a chi era presente; inoltre erano assai simili a quelle diffuse durante le prime rilevazioni del 12 settembre (qui il video sul sito de L’Espresso, con un’inquadratura di ben 30 secondi su un bidone imploso per la pressione). Non si legge il nome della nave (“Catania”), anche perché delle cime, che sono sembrate nuovissime, coprono il punto dove sarebbe stato possibile leggerlo. Non solo: non c’è più traccia dei bidoni, si vede solo una manica a vento adagiata sul fondo che, alla lontana, somiglia a un fusto.
Quindi come hanno fatto, dalla Mare Oceano, a stabilire che quel relitto che ora mostrano è il Catania?!
IL PENTITO
Il pentito racconta frottole? In altre parole: il fatto che quella nave a largo di Cetraro non sia la Cunsky, mette o no in ombra le confessioni di Francesco Fonti? Claudia Conidi, legale di Fonti: «Quella nave al largo di Cetraro non si sapeva che fosse lì. Eppure, dopo le rivelazioni di Fonti, guarda caso, una nave proprio lì è stata trovata». La Conidi ha anche ricordato che nell’unico verbale giudiziario scritto a Catanzaro davanti al dottor Luberto, Francesco Fonti non fece alcun nome di navi. Disse anche che quando andava ad affondare navi non andava tanto a guardare il nome né i libri di bordo: metteva la dinamite e se ne andava di corsa.
Solo nel memoriale inviato al dottor Macrì della Direzione Nazionale Antimafia, quei nomi vennero fuori. Su quelle pagine ricordò di averli sentiti pronunciare dai boss che gli avevano dato l’ordine di affondarle. «Anzi» aggiunge la Conidi, «a me oggi viene il sospetto che i mandanti di Fonti facessero quei nomi un po’ a caso, per rendere ancora più torbida e confusa l’operazione».
Ma quali sarebbero gli interessi del pentito? In definitiva, Francesco Fonti — che ha già contribuito a mettere in galera centinaia di affiliati della ’Ndrangheta — che interesse avrebbe avuto a dire una cosa per un’altra? Con le sue dichiarazioni egli ha disegnato solo un piccolo particolare di un quadro che nel complesso rappresenta comunque l’intreccio criminale che gestisce lo smaltimento dei rifiuti tossici e radioattivi in tutto il mondo. Il collaboratore di giustizia “ci avrebbe provato”, magari per rientrare nel protocollo di protezione, attualmente negatogli (e che adesso, alla luce della smentita, difficilmente otterrà)? Fonti avrebbe indicato un luogo, e per qualche settimana il suo gioco avrebbe retto, ma ora è stato smascherato? Insomma uno indica un tratto di mare e dice: «Lì c’è una nave», e ci prende, che culo!, perché lì, proprio dove ha detto lui, un relitto c’è?… Fonti dovrebbe provarci al Superenalotto: farebbe più grana che con il suo ex-mestiere di boss!
LE “LAMIERE SALDATE SENZA BULLONI” E IL “CESIO 137”
Ma anche il Procuratore di Paola, Bruno Giordano, il primo a indagare con grande impegno sul relitto di Cetraro, prima che il fascicolo fosse trasferito alla Dda di Catanzaro, avrebbe preso una fionza? «Se sia davvero la nave di cui parla il pentito Fonti, questo lo dirò solo quando avremo tutte le prove. Certo, una serie di elementi lo fanno pensare: la lunghezza complessiva, tra i 110 e i 120 metri, la relativamente recente costruzione, perché non presenta bullonature ma le lamiere sono saldate, il fatto che non sia registrata come affondata, tutto ciò fa pensare che sia una delle tre navi indicate dal pentito». Parole caute, ma chiarissime.
Ancora più chiare le parole di Nicola Maria Pace, attuale Procuratore di Trieste, il quale in passato si è occupato di navi dei veleni insieme al giudice Francesco Neri e al defunto Capitano De Grazia: «[il memoriale di Fonti] riproduce e si sovrappone, con una precisione addirittura impressionante, agli esiti di indagini che ho condotto proprio come procuratore di Matera, partendo dalla vicenda della Trisaia di Rotondella e proseguendo con la tematica dello smaltimento in mare di rifiuti radioattivi, su cui svolsi delle indagini in collegamento investigativo con la procura di Reggio Calabria».
Sarebbe altresì interessante capire perché nel 2008 l’Arpacal (Dipartimento di Reggio Calabria), esaminando le specie ittiche, evidenziò nelle acque di Cetraro la presenza di tracce di Cesio 137, lo stesso radionuclide della catastrofe di Chernobyl. E qualcuno deve spiegare perché la capitaneria di porto di Cetraro abbia decretato il divieto di pesca nel 2007 «a causa di sostanze inquinanti» presenti in quelle acque: nessuno ha mai spiegato da dove provenissero…
«Il procuratore Giordano ha chiesto più volte alla Marina Militare se nelle acque di Cetraro ci fossero relitti bellici affondati» racconta l’assessore all’ambiente della Regione Calabria Silvio Greco, «ma gli è stato sempre detto di no. La cosa strana è che in quell’area è stato anche posto il segreto di Stato. Io mi sono mosso solo dopo fine indagine e in conseguenza ai tanti problemi che abbiamo rilevato. Da metà giugno, quando ho informato il governo, il ministro Prestigiacomo e il capo della Protezione Civile, solo ora abbiamo ottenuto una risposta che fa piacere a tutti noi. Se si fossero mossi prima, avremmo evitato preoccupazioni inutili. Mi piacerebbe, però, avere un minimo dato scientifico sulla questione. Sapere che tipo di campionamento è stato fatto e dove si trovano i campioni prelevati, per esempio. Solo per curiosità accademica. Anche perché il tecnico Arpacal è potuto rimanere sulla nave “Mare Oceano” solo quattro ore senza poter vedere i filmati…».
Sembra la trama di un film di spionaggio. Nel Paese dei depistaggi (da Ustica a Gladio, da Piazza Fontana all’Italicus), è facile fare dietrologia: ma questa chiarificazione “Cunsky-Catania” non ci convince. Per niente.
Starshit, diario del capitano - Sabato, 31 Ottobre 2009
Sì, ci tirano sabbia (dei fondali) negli occhi: ecco la frode
Ecco che cosa vogliono darci a bere: la “Mare Oceano” è andata a colpo sicuro su un vecchio relitto — il “Catania”, appunto — di cui già conoscevano la posizione. Più giù ce n’è pure un altro, il “Cagliari”. Che magari tenteranno di usare in seguito per dire «Ecco, questa è la Mikigan, o la Rigel… anche qui, il caso è chiuso, non insistete, non esistono navi dei veleni». In realtà il relitto trovato e filmato in settembre dal rov dell’Arpacal ha coordinate differenti: quattro miglia più a ovest! (Le coordinate fornite dalla Regione per il Rov calato dalla nave “Coopernaut Franca” della società “Nautilus” il 12 settembre sono: 39 gradi 28,50 primi nord, 15 gradi 41,57 primi est; mentre quelle della nave mercantile “Catania”, come risulta da dati tratti dall’Ufficio idrografico del Regno Unito, sono: 39 gradi 32 primi nord, 15 gradi 42 primi est.)
Starshit, diario del capitano - Martedi, 03 Novembre 2009
Al largo di Cetraro i relitti non si contano più: e si sa dal 2006
Esiste un documento ufficiale inedito, la parte segreta di una seduta della Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti, dove si dice che le navi sono tre, non una. E che sono stati pescati fusti in mare. Ma nessuna delle tre navi corrisponde alle misure e alla profondità del “Catania”…!
Il documento inedito si riferisce a una seduta del 24 gennaio 2006 dove il PM Franco Greco, che all’epoca aveva aperto l’inchiesta sulla nave di Cetraro, dice davanti alla commissione che i pescatori della zona hanno pescato dei bidoni: «Ho cercato in tutti i modi di capire quale fosse il luogo preciso. Mi sono state date delle coordinate, che ho riportato al consulente, per verificare il sito…. Ed è stato rilevato un corpo estraneo della lunghezza di 126 metri. I consulenti hanno escluso che si possa trattare di un oggetto naturale… non si spiegano cosa sia. Potrebbe essere una nave… si trova a 680 metri di profondità». Non è l’unica nave, poiché nel documento si legge di un secondo ritrovamento: un relitto lungo tra gli 88 e i 108 metri, largo dai 15 ai 20 metri, a 380 metri di profondità; intorno alla pancia di questa nave affondata c’è un alone di 200 metri quadri, scuro, che «non può essere liquido e deve per forza essere il carico della nave che appoggiandosi, si è aperto ed è fuoriuscito».
Greco racconta di aver chiesto alla Capitaneria di Porto se c’erano navi da guerra affondate in quell’area: risposta negativa, risultava solo una nave affondata nel 1989, a 15 miglia, verso Scalea. Incrociando dati con l’ufficio maridrografico di Genova, Greco scoprì che esisteva un relitto della Prima Guerra Mondiale ma scoprì anche due grandi punti interrogativi: la nave risulterebbe affondata nel 1920, cioè dopo la fine del conflitto. Si chiamava “Federico II”, ma gli atti relativi sono «classificati, ossia coperti da segreto militare». Un segreto militare dopo ottanta anni dall’affondamento?
La nave di cui parla Fonti sarebbe affondata nel 1992. Le mappe nautiche riportano la Federico II dal 1993, come relitto non pericoloso con battente d’acqua sconosciuto. «Il che vuol dire» dice il PM Greco, «che non sanno cos’è; ma allora come fanno a dire che non è un relitto pericoloso? Ho chiesto il motivo per il quale questa nave non è stata mai riportata nelle mappe nautiche e non mi hanno saputo dare una risposta».
Di certo c’è che nella zona della nave Federico II la Capitaneria di Porto di Cetraro vietò la pesca per un anno e quattro mesi perché proprio lì le analisi hanno rilevato metalli pesanti, tra cui arsenico e mercurio, fuori dai livelli consentiti. Come mai proprio in quel punto la concentrazione dei metalli? È nero su bianco nella memoria di tutti — filmati, articoli, interviste — il verbale che riporta tracce di Cesio rinvenute nei pesci: curiosamente, quelle analisi ora sono scomparse nel nulla.
La seduta segreta tra il PM e la Commissione viene sintetizzata in una domanda che lo stesso presidente della Commissione rivolge a Greco: «Dottore, mi faccia capire, mi sto perdendo. C’è quindi una nave certa, una che si vede e una che potrebbe esserci». E Greco: «Sì, quello è il posto dove sono stati trovati i bidoni».
Qualcuno ha capito che cosa sta succedendo, qui?
Io propongo una chiave di lettura, ma potrebbe essere soltanto un’opinione maligna e sbagliata. La “Federico II” non esiste: è la nave affondata da Fonti e dai suoi complici (la Cunsky?). Ed è proprio quella che il rov inviato dall’Arpacal ha filmato il 12 settembre 2009. E adesso il peggio, l’innominabile: la cosa è stata secretata perché è lo Stato Italiano ad aver commissionato, attraverso faccendieri, servizi segreti e boss della ’Ndrangheta, l’affondamento (e chissà quanti altri oltre questo, altrimenti oggi Ilaria Alpi e Natale De Grazia sarebbero ancora vivi). Non è una faccenda che può essere rivelata al pubblico. È una porcheria dello Stato, sulle sue stesse coste e a danno dei suoi stessi cittadini — cittadini di serie B, evidentemente: i Calabresi —, frutto dell’imperizia dei suoi governanti, dell’avidità (la catena di guadagno riguarda necessariamente politici, agenti segreti e boss) e della mancanza di programmazione (dove mettiamo i rifiuti tossici?). Una vergognosa porcheria, ma come tante altre (Ustica, la “strategia della tensione”, l’omicidio teleguidato di Aldo Moro); una scomodissima situazione a guardia della quale un nuovo muro di gomma è stato posto a respingere qualunque tentativo di risalire alla verità.
Sembra una pagina perfetta di dietrologia, vero?
Be’, peccato che non lo sia.
Starshit, diario del capitano - Venerdi, 06 Novembre 2009
Nessun conto torna
C’è una sequenza di stranezze che parte il mattino del 27 ottobre 2009, quando il procuratore Grasso si presenta alla Commissione Parlamentare Antimafia e dice: «Proprio stamane mi è stato comunicato che gli ultimi riscontri non dànno la certezza che si tratti proprio della Cunsky, anche se il castello sembra essere compatibile con l’indicazione che viene da Fonti». L’altra ipotesi in campo, aggiunge, «è che si tratti del piroscafo Cagliari», affondato a inizio anni Quaranta.
Passano poche ore, e alle 12,56 l’agenzia Adnkronos batte una nota del ministro Prestigiacomo: «Il relitto al largo di Cetraro non corrisponde alle caratteristiche della Cunsky. Il Rov, il robot sottomarino, ha già svolto le misurazioni e i rilievi fotografici del relitto». Detto questo, le indagini continueranno «con il prelievo di sedimenti dai fondali, carotaggi in profondità e prelievi di campioni dai fusti».
Informazioni nette, inequivocabili.
Che però vengono smentite appena un quarto d’ora dopo: «Finora abbiamo fatto solo esplorazioni acustiche» affermano alle 13,12 i proprietari della nave “Mare Oceano” che sta svolgendo le analisi a Cetraro (e che risulta dell’armatore Diego Attanasio, coinvolto dall’avvocato David Mills nel processo in cui è stato condannato per aver mentito su Silvio Berlusconi in cambio di denaro…). «Il Rov» aggiunge la “Geolab”, «farà altre esplorazioni acustiche e poi quelle visive. Non ci sentiamo di dire con certezza che quella possa o non possa essere la nave Cunsky: per noi è ancora troppo presto».
Ma che storia è questa? Perché Grasso si sbilancia a indicare il nome di un relitto sbagliato? E perché il ministro Prestigiacomo parla di rilievi avvenuti, se chi li compie deve ancora iniziare?!
Non è finita qui. Le caratteristiche della nave Catania stridono con i rilievi svolti sul relitto scoperto il 12 settembre al largo di Cetraro. In quell’occasione fu calcolata una lunghezza tra i 110 e i 120 metri, una larghezza di circa 20 e un’altezza di fiancata attorno ai 10. Ora, invece, basta iscriversi al sito sui disastri navali www.wrecksite.eu, per verificare che la Catania è lunga 95,8 metri, larga 13 e alta 5,5 (dati confermati anche dal sito www.uboat.net e dal sito www.miramarshipindex.org.nz). I numeri non collimano neanche con quelli della conferenza stampa del 29 ottobre, dove viene indicata una lunghezza di 103 metri.
In quell’incontro con i giornalisti ci sono altre sfasature. Il vice procuratore Giuseppe Borrelli dice che «la stiva della nave al largo di Cetraro è vuota»; però Pippo Arena, titolare della società “Arena Sub” e pilota del Rov nella prima ispezione alla presunta Cunsky, lo smentisce: «La nave che ho ispezionato io aveva due stive. Ed erano piene, tanto che un pesce cercava di entrare e non riusciva».
E come va interpretata l’altra uscita della Dda di Catanzaro, pubblicata dal Quotidiano della Calabria? Stavolta a parlare è il procuratore capo Lombardo, il quale racconta che attorno alla nave c’era «una folta vegetazione» oltre a vari pesci. «Lo abbiamo visto dalle immagini (…). Ci fosse stata radioattività, tutto questo non sarebbe stato presente. La radioattività, infatti, provoca una forma di desertificazione». Parole rassicuranti, quelle di Lombardo, perfette per placare la rabbia della popolazione locale. Peccato che Roberto Danovaro, ordinario di Biologia marina all’Università politecnica delle Marche, lo smentisca di brutto: «È impossibile che il relitto, a quasi 500 metri di profondità, sia coperto da vegetazione: a quella profondità, la mancanza di luce impedisce la vita di alghe o piante marine»…
Starshit, diario del capitano - Lunedi, 23 Novembre 2009
Guai (grossi) a parlarne
Il 1° Maggio 2008 in Italia è entrato in vigore il Dpcm (Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri) che allarga il campo d’applicazione del segreto di Stato, in nome della tutela della sicurezza nazionale, a una lunga serie di infrastrutture critiche tra le quali “gli impianti civili per produzione di energia”.
Questo significa che i siti per il deposito delle scorie nucleari, nuovi impianti civili per produzione di energia, centrali nucleari, rigassificatori, inceneritori/termovalorizzatori sono coperti da segreto di Stato. Segreto che si estende anche agli iter autorizzativi, di monitoraggio, di costruzione e della logistica di tutta la filiera, quindi anche delle discariche. Dpcm: «Nei luoghi coperti dal segreto di Stato le funzioni di controllo ordinariamente svolte dalle aziende sanitarie locali e dal Corpo nazionale dei Vigili del Fuoco, sono svolte da autonomi uffici di controllo collocati a livello centrale dalle amministrazioni interessate che li costituiscono con proprio provvedimento» e le amministrazioni «non sono tenute agli obblighi di comunicazione verso le aziende sanitarie locali e il Corpo nazionale dei Vigili del Fuoco a cui hanno facoltà di rivolgersi per ausilio o consultazione». Di fatto vengono poste sotto il segreto di Stato anche le informazioni, le notizie, i documenti, gli atti e le attività attinenti alle materie di riferimento. In altre parole, un vero e proprio divieto di divulgazione, in quanto chiunque dovesse rendere nota, per esempio, l’esistenza di una discarica di scorie nucleari nel proprio comune, rischierebbe fino a cinque anni di reclusione (art. 261 del Codice Penale: rivelazione di segreti di Stato – Chiunque rivela taluna delle notizie di carattere segreto indicate nell’articolo 256 è punito con la reclusione non inferiore a cinque anni. Art. 256 del Codice Penale: Procacciamento di notizie concernenti la sicurezza dello Stato – Chiunque si procura notizie che, nell’interesse della sicurezza dello Stato o, comunque, nell’interesse politico, interno o internazionale, dello Stato, debbono rimanere segrete, è punito con la reclusione da tre a dieci anni).
Naturalmente eviteranno di punire penalmente possibili reporter di professione o reporter civili, non conviene tirare troppo la corda; fatto sta che hanno reso le aree off-limits, ecco a cosa è servito e come hanno inteso la militarizzazione. Questo Dpcm peraltro contrasta con la direttiva n. 2003/4/CE adottata dal Parlamento Europeo e dal Consiglio dell’Unione Europea in data 28 Gennaio 2003 che disciplina l’accesso del pubblico all’informazione ambientale, ma tant’è, su certe cose l’Europa ha orecchio solo quando conviene a Francia o Germania o Gran Bretagna…
I significati del provvedimento sono molteplici.
Significa che chiunque tenti di appropriarsi di informazioni inerenti alla gestione delle discariche e le divulghi è penalmente perseguibile…
Significa che i comitati civici non possono ricercare notizie o informazioni relative alla gestione della discarica…
Significa che le amministrazioni locali non hanno né l’autorizzazione, né il potere di richiedere informazioni o documenti inerenti alla gestione delle discariche…
Ma significa soprattutto qualcosa di gravissimo, alla luce del discorso nucleare e dell’esigenza e volontà politica di riutilizzarlo in Italia, considerando che nel Dpcm è stato incluso anche il problema “scorie nucleari”: nelle normali discariche potrebbero, nell’assoluto segreto, venir sversate scorie nucleari, il tutto senza aver l’obbligo di informare amministrazioni e cittadini.
A cosa servono, quindi — e qui la domanda sorge spontanea —, le interrogazioni parlamentari, i ricorsi, gli esposti e le denunce? A niente, perché sulla materia, dal maggio 2008, vige il segreto di Stato. Su tutto vige una commissione ministeriale tecnica che non deve dar conto a nessuno del suo operato.
Per contrastare questa stortura non esistono precedenti storici o giuridici, non esistono sentenze della Cassazione, non c’è niente cui appigliarsi: non è mai accaduto venisse posto il segreto di Stato su servizi pubblici quali la gestione dei rifiuti. Solo i servizi segreti avranno accesso alle notizie, ai dati, ai resoconti e documenti inerenti la gestione delle discariche più discusse: neanche alle ASL e ai Vigili del Fuoco sarà concesso per alcun motivo di entrare in contatto con questi impianti, che verranno gestiti direttamente dallo Stato attraverso agenzie e funzionari “preposti”.
Ciliegina sulla torta: anche tutta la documentazione sulle “navi dei veleni” è posta sotto il segreto di Stato!
I cittadini e le amministrazioni locali sono virtualmente tagliati fuori dai giochi…
Come volevasi dimostrare, il muraccio di gomma è completo.
Starshit, diario del capitano - Venerdi, 11 Dicembre 2009
C’è un secondo pentito (che ha subito rischiato la vita…)
C’è un nuovo pentito disposto a rivelare la sua verità sulle navi dei veleni. L’avvocato Claudia Conidi, legale del primo pentito Francesco Fonti, ha segnalato alla commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti la testimonianza di Emilio Di Giovine, ex boss della ’Ndrangheta di Reggio Calabria: «Ho incontrato Di Giovine in occasione di un processo e mi ha spiegato di aver raccontato la storia degli affondamenti durante un interrogatorio nel 2004. Ho ritenuto utile chiedere alla commissione di ascoltare la sua testimonianza». La Conidi riferisce anche una inquietante coincidenza: «Proprio il giorno in cui ho chiesto l’audizione in Commissione rifiuti, Di Giovine è stato investito da un’auto ed è scampato per miracolo all’incidente. È stato ricoverato in ospedale da dove verrà prossimamente dimesso».
Secondo l’avvocato Conidi, Di Giovine sosterrebbe le stesse tesi del suo assistito: le navi dei veleni ci sono, sono nei nostri mari con il loro carico letale. Intanto Fonti depone a Livorno per chiarire le sue dichiarazioni sull’affondamento di rifiuti tossici al largo delle coste toscane.
Di Giovine è un personaggio di primo piano: è stato per molto tempo il compagno della figlia di Theodor Cranendonk, trafficante di armi legato ai clan reggini di Serraino-Condello-Imerti. Cranendonk è stato arrestato dalla Dda di Milano per traffico d’armi. In casa di Cranendonk è stata trovata copia del progetto ODM per smaltire rifiuti pericolosi in mare: siluri imbottiti di materiali scomodi, sparati sotto il fondo dei mari e degli oceani. Ma l’autore di questi progetti, Giorgio Comerio, alla domanda «Conosce Cranendonk?» risponde: «E chi è? Una persona?». Lo stesso Comerio ha inviato a Repubblica.it la sua verità in un memoriale su un traffico di veleni di cui per anni è stato accusato di essere uno dei registi. Al punto che, intervenendo in parlamento a nome del governo, Carlo Giovanardi lo ha definito “noto trafficante”.
È sempre più evidente: tutta la ’Ndrangheta faceva business con le “navi dei veleni”, non era un’iniziativa di singole cosche o di singoli boss…
Starshit, diario del capitano - Lunedi, 15 Febbraio 2010
20 domande al Ministro dell’Ambiente, Tutela del Territorio e del Mare
Caro Ministro dell’Ambiente, Tutela del Territorio e del Mare, non dimentichi, lei è un nostro dipendente al servizio della collettività e non di interessi padronali. È un obbligo normativo (Decreto Legge 4/2008) dare una risposta alle seguenti domande e fornire finalmente prove concrete all’opinione pubblica. È in gioco l’esistenza dei nostri figli e delle future generazioni.
1) Come è possibile che una persona non del luogo, come Francesco Fonti, fosse a conoscenza della presenza di un relitto nei fondali di Cetraro esattamente nel sito dove è stato trovato?
2) Perché questo relitto, se conosciuto dalla Marina e dalle Capitanerie di Porto, non è stato segnalato a tempo debito al Procuratore Giordano titolare dell’inchiesta?
3) Perché esistono differenze sostanziali tra le caratteristiche del relitto di Cetraro e del piroscafo Catania? Quest’ultimo, secondo i dati dei costruttori, era lungo 95,8 metri mentre la lunghezza ufficiale del relitto, comunicata dal Governo, è pari a 103 metri.
4) La nave “Mare Oceano” di proprietà dell’armatore Attanasio (amico dell’avvocato David Mills implicato in altre inchieste) dove ha effettuato esattamente le verifiche? Che rotta ha seguito, dove si è posizionata?
5) Come mai le foto e le riprese video effettuate dal Rov della nave Mare Oceano sono diverse da quelle realizzate dal Rov dell’Arpacal?
6) Perché non è stato ancora reso pubblico l’intero filmato georeferenziato realizzato dal Rov della Mare Oceano?
7) Perché il Ministro, ancora prima che il Rov della Geolab si immergesse nelle acque, ha comunicato che il relitto di Cetraro non poteva essere quello del Cunsky?
8) Che fine hanno fatto i fusti o maniche a vento ripresi dal Rov inviato dalla Regione Calabria e perché non sono stati recuperati e portati in superficie a prova della asserita verità?
9) Perché il Ministro dell’Ambiente, Tutela del Territorio e del Mare ha subito detto che «il caso è chiuso» senza neanche accertarsi del carico della nave?
10) Perché sono stati comunicati solo i dati delle analisi sulla radioattività effettuate a 300 metri di profondità nonostante il relitto si trovi a oltre 480 metri? Questa differenza incide notevolmente visto che le radiazioni gamma hanno una schermatura diversa a seconda della profondità: anche in presenza di numerosi noccioli di reattori nucleari, la contaminazione radioattiva non sarebbe facilmente rilevabile.
11) Perché, nonostante la richiesta ufficiale da parte della Regione Calabria, non è stato comunicato il protocollo scientifico adottato per compiere le analisi sul relitto, sui fondali e nelle acque circostanti?
12) Perché non sono state condotte, in via preliminare, le dovute indagini sulla catena alimentare della fauna ittica e sui sedimenti dei fondali onde rilevare la presenza di eventuali radionuclidi e/o agenti contaminanti di diversa natura? Questo allo scopo di tranquillizzare la popolazione in caso di eventuale riscontro negativo o viceversa proclamare lo stato di emergenza onde ricorrere agli indennizzi in caso di riscontro positivo (alla luce di indagini pregresse che già paventarono tale possibilità).
13) Perché per la vicenda del relitto di Cetraro è stato adottato un metodo differente da quello utilizzato per le indagini sul materiale contaminato rinvenuto nella vallata dell’Oliva, dove le analisi sui campioni prelevati saranno condotte da quattro laboratori differenti, mentre sulla Mare Oceano non è stato permesso l’ingresso, se non per poche ore, ai ricercatori dell’Arpacal?
14) Perché tanta fretta nel chiudere le indagini e nel mandare via la Mare Oceano mentre, vista la presenza in loco dell’imbarcazione, si sarebbe potuto continuare a scandagliare tutto il mare circostante Cetraro?
15) Perché la Capitaneria di Porto di Cetraro nel 2007 emise l’ordinanza di divieto di pesca a poche centinaia di metri dal luogo indicato da Fonti, subito dopo le analisi effettuate dall’Arpacal che indicavano la presenza allarmante di metalli pesanti quali l’arsenico, il cobalto e il cromo sul pescato?
16) E perché quell’ordinanza venne ritirata un anno dopo e ora non appare più sul sito dell’ufficio marittimo di Cetraro, dove sono visibili però altre ordinanze precedenti?
17) Il Ministro dell’Ambiente, Tutela del Territorio e del Mare è a conoscenza dei filmati effettuati nel 2005-2006 per conto della Procura di Paola della società Nautilus? Perché non viene resa pubblica questa documentazione visiva?
18) Che fine hanno fatto i due fusti di rifiuti individuati recentemente al largo di Cetraro dal dottor Andrea Peiser, zoologo marino, segnalati e sequestrati dall’ufficio marittimo di Cetraro?
19) Perché il comandante della direzione marittima di Reggio Calabria, già coinvolto nell’affaire e nel disastro della nave Eden V in mare Adriatico, non consente l’accesso al registro pubblico dei sinistri marittimi?
20) Al giornale Italia Terra Nostra risulta che sia stato apposto il solito Segreto di Stato. È proprio così, e se sì, perché?
Starshit, diario del capitano - Martedi, 08 Giugno 2010
Il procuratore Giordano e gli scavi nel fiume Oliva
«Si sospettava: si può usare tranquillamente l’imperfetto, perché dubbi non ce ne sono più riguardo alla presenza di sostanze tossiche sotto il fiume Oliva: ci sono almeno 4 siti interessati». A dirlo è il Procuratore Capo di Paola, Bruno Giordano, intervistato l’8 giugno 2010 dall’AGI sul caso dell’inquinamento, finora ipotizzato, dell’area ricadente tra i comuni di Amantea, Serra d’Aiello e Aiello Calabro, lungo l’alveo del fiume dove si scava da più di un mese. Le aree in cui si effettuano i carotaggi erano state oggetto di un’analisi superficiale preventiva, perché in questa zona della Calabria l’incidenza tumorale, come è stato evidenziato da alcune ricerche epidemiologiche, è molto più alta che altrove. «Non sappiamo ancora da dove possano provenire» sottolinea Giordano, secondo il quale non servirebbero neanche strumenti per capire che siano rifiuti pericolosi. «Man mano che si scava, l’odore di idrocarburi e di metallo diventa insopportabile. E pensare» osserva il Procuratore di Paola «che qui doveva nascere un parco naturale. Oltre alle aree che già avevamo individuato, adesso abbiamo trovato altre due aree, contrada Carbonara e contrada Giani, dove c’è un ammasso notevolissimo di rifiuti tossici, interrati e poi coperti con terreno naturale. Pensi che in contrada Giani il magnetometro era impazzito, durante le rilevazioni. Qui la benna, scavando, è arrivata a 5 metri e mezzo di profondità, senza toccare il fondo del deposito».
Secondo il magistrato «il problema è che sicuramente, negli anni, c’è stata un’infiltrazione nelle falde, perché il materiale si è diluito. Non possiamo ancora dire se ci sia materiale radioattivo, quello si vedrà. E se non c’è materiale radioattivo, la bonifica la dovranno fare solo gli enti locali, Regione e Provincia». E Giordano aggiunge che «non ci sono discariche per fanghi industriali in Italia. Bisogna mandarli in Germania, e visti i quantitativi rilevanti, il costo sarebbe davvero ingente». Si scaverà ancora per un mese circa. Poi l’analisi dettagliata dei prelievi. [fonte: antimafiaduemila.com]
Starshit, diario del capitano - Venerdi, 18 Giugno 2010
Somalia: così hanno nascosto i container nel molo
Sono immagini inequivocabili. Inedite. Sconcertanti. Sono cinque fotografie scattate nel luglio 1997 durante la costruzione del porto somalo di Eel Ma’aan, poco a nord di Mogadiscio. Costituiscono la prova che quella banchina non è stata realizzata, come di solito accade, utilizzando soltanto pietre o cemento. Ma fu infarcita, incredibilmente, di container.
Una parata di contenitori davanti ai quali, si vede in uno scatto, posano due uomini di colore, uno dei quali sorride e mostra una pistola. Dietro di loro c’è la barriera portuale ancora incompleta, con alla base i parallelepipedi metallici utilizzati per il trasporto merci. Gli stessi che si ritrovano in un’altra fotografia, ammassati in una fossa. E chi avesse ancora dubbi su questa singolare procedura, può verificarla in altre tre istantanee: la prima dove un container blu spunta dal ventre della banchina, un’altra in cui due persone camminano sopra i container, e un’ultima panoramica che mostra l’area delle operazioni.
(immagini tratte dal Flickr di Greenpeace)
«Dopo tante parole, tanti sospetti sull’utilizzo dell’Africa e della Somalia come pattumiera dei Paesi industrializzati, finalmente sottoponiamo all’opinione pubblica elementi concreti» dice Alessandro Giannì, direttore delle campagne di Greenpeace Italia. In mano ha “The toxic ships: the italian hub, the Mediterranean area and Africa” (Le navi tossiche: lo snodo italiano, l’area mediterranea e l’Africa), il dossier in lingua inglese con cui l’associazione ambientalista ricostruisce punto per punto, documento per documento, la vergogna di decenni trascorsi ad avvelenare i mari con il traffico di rifiuti tossici e radioattivi. Punto focale, in questa operazione verità, è il nome di Giancarlo Marocchino: colui che ha costruito nella seconda metà degli anni Novanta il porto di Eel Ma’aan, come viene spiegato il 25 ottobre 2005 alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Lo stesso imprenditore che per primo a Mogadiscio, il 20 marzo 1994, accorre sul luogo dell’omicidio della giornalista e del suo operatore. L’uomo del quale Marcello Fulvi, dirigente della Digos romana, scrive in un’informativa del 3 febbraio 1995:
«Si comunica che (…) personale di questo ufficio ha avuto un incontro con una fonte di provata attendibilità, la quale ha confidato che mandante dell’omicidio di Ilaria Alpi e dell’operatore Miran Hrovatin sarebbe il noto Marocchino Giancarlo», il quale «avrebbe ordinato l’uccisione della giornalista».
Ecco: Marocchino, mai processato e neppure indagato per l’assassinio Alpi, secondo Greenpeace costruisce il porticciolo di Eel Ma’aan «per creare un’alternativa alla chiusura del porto di Mogadiscio, dovuta a scontri tra i signori della guerra somali» in lotta tra loro per controllare il territorio. E il fatto che, contro ogni consuetudine, l’imprenditore seppellisca montagne di container dentro la banchina, assume indubbio rilievo.
[continua qui, con l’intero reportage de L’Espresso]
Starshit, diario del capitano - Lunedi, 21 giugno 2010
Atto Camera dei Deputati – Interrogazione a risposta scritta 4-07697 presentata da Ermete Realacci lunedi 21 giugno 2010, seduta n. 340.
Al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, al Ministro dell’interno, al Ministro degli affari esteri.
Per sapere –
premesso che: il dossier Greenpeace «Le navi tossiche: lo snodo italiano, l’area mediterranea e l’Africa», pubblicato il 18 giugno 2010 sul settimanale L’Espresso e sul quotidiano Financial Times, riassume più di vent’anni di traffico di rifiuti tossici e radioattivi tra l’area mediterranea e il continente africano;
vengono diffuse per la prima volta alcune foto risalenti al 1997, che mostrano chiaramente come centinaia di container di ignota provenienza siano stati interrati nell’area portuale di Eel Ma’aan in Somalia: porto somalo, a trenta chilometri da Mogadiscio, costruito per ovviare al blocco di guerra del porto della capitale, la cui realizzazione fu affidata ad imprenditori italiani, tra cui Giancarlo Marocchino;
dagli atti della Commissione parlamentare di inchiesta sull’omicidio di Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin, il dottor Marcello Fulvi, dirigente della Digos di Roma, in un’informativa del 3 febbraio 1995 cita il sopraddetto Marocchino e scrive: «si comunica che […] personale di questo ufficio ha avuto un incontro con una fonte di provata attendibilità, la quale ha confidato che mandante sarebbe il noto Marocchino Giancarlo, il quale avrebbe ordinato l’uccisione della giornalista». Lo stesso imprenditore racconta alla Commissione parlamentare d’inchiesta di essere accorso per primo a Mogadiscio sul luogo dell’omicidio;
Giancarlo Marocchino non risulta, ad oggi, essere mai stato indagato né per l’omicidio della troupe italiana né per l’attività illecita di traffico di rifiuti tossici;
Ilaria Alpi e Miran Hrovatin furono uccisi, il 20 marzo 1994, mentre si trovavano a Mogadiscio come inviati del TG3 per seguire la guerra civile somala e per indagare su un traffico d’armi e di rifiuti tossici illegali in cui probabilmente la stessa Alpi aveva scoperto che erano coinvolti anche l’esercito ed altre istituzioni italiane;
il sopraccitato documento elenca inoltre numerosi casi di esportazione illegale di rifiuti. Da questo dossier emergerebbe poi come il traffico illegale di rifiuti pericolosi si sia evoluto e ramificato: da attività individuali, si è organizzato in una «rete», in cui i nomi di persone e imprese sono stati segnalati più volte da investigatori e magistrati ricorrendo con cupa frequenza;
emerge altresì un ulteriore elemento di novità in merito alla ricerca in mare, nel 2009, del presunto relitto della «Cunski», al largo di Cetraro, che si aggiunge agli altri già evidenziati a febbraio 2010.
Per le indagini della procura di Palmi (RC), nell’ottobre del 2009 il Governo italiano ha utilizzato una nave per le ricerche sottomarine «Mare Oceano» di proprietà della famiglia Attanasio;
Diego Attanasio è un armatore napoletano con una flotta di sette navi oceanografiche e teste centrale dell’inchiesta «Mills-Berlusconi»;
sembrerebbe che il Ministero britannico della difesa abbia offerto mezzi e personale qualificato a un prezzo inferiore rispetto a quello proposto dai proprietari di «Mare Oceano»;
non sono tuttavia note le ragioni per cui l’offerta britannica sarebbe stata rifiutata così come i termini del contratto tra la nave «Mare Oceano» e il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare;
l’Agenzia europea dell’ambiente in un rapporto del 2009, ha chiarito come il traffico illegale di rifiuti tossici sia un problema rilevante e non sanato e che il divieto dell’export di rifiuti tossici tra Paesi OCSE e non-OCSE sancito dalla convenzione di Basilea, sia ben lontano dall’essere pienamente applicato; da operazioni investigative effettuate dalla magistratura e da indagini delle forze dell’ordine emerge l’esistenza di decine di «relitti sospetti».
Il loro numero varia da cinquantacinque (deposizione dall’ammiraglio Bruno Branciforte al Copasir: come riferita dal quotidiano Calabria Ora, 26 settembre 2009) a quarantaquattro (comunicazione trasmessa dalla direzione marittima di Reggio Calabria alla Commissione antimafia il 27 ottobre 2009) a trentanove (per il periodo 1979-1995: relazione conclusiva del 25 ottobre 2000 della Commissione bicamerale sui rifiuti); a tal proposito, risulta all’interrogante che l’iter dell’atto di sindacato ispettivo numero 4-01342 del 15 ottobre 2008 sul presumibile affondamento doloso della nave Jolly Rosso sia, nonostante i numerosi solleciti, ancora in corso.
– Se corrisponda al vero quanto denunciato nell’articolo pubblicato dal settimanale L’Espresso e, in caso affermativo, per quale motivo non sia stata fatta ancora piena luce su queste vicende inquietanti, soprattutto visto che i fatti sono noti oramai da decenni; se intendano riferire urgentemente agli organismi parlamentari competenti sulla questione del traffico illecito di rifiuti e sul traffico illegale di armi, in modo che la vicenda finalmente sia chiarita, anche all’opinione pubblica, a partire dalla drammatica vicenda di Ilaria Alpi e Miriam Hrovatin, uccisi tre anni prima che venissero scattati i fotogrammi sopradetti; se non sia opportuno intervenire diplomaticamente presso l’ONU perché finalmente e concretamente sia verificata la presenza, o meno, di rifiuti tossici a Eel Ma’aan e, al contempo, intervenire urgentemente, anche in sede comunitaria, perché siano aumentate le misure di sicurezza per la prevenzione della produzione e traffico di rifiuti tossici; se corrisponda al vero che il Ministero britannico della difesa abbia offerto mezzi e personale qualificato ad un prezzo inferiore rispetto a quello proposto dai proprietari di Mare Oceano per le ricerche del relitto del Cunski e, in caso affermativo, per quali motivi l’offerta sia stata rifiutata; se non si reputino oramai improcrastinabili, garantendo le opportune risorse economiche e umane, l’istituzione di un coordinamento tra le autorità investigative e l’avvio di un censimento delle attività già effettuate per la ricerca e rimozione dei relitti delle «navi dei veleni»; se non intendano assumere iniziative volte a stanziare adeguati fondi affinché sia avviato un monitoraggio chimico delle acque marine italiane e sanitario per gli eventuali rischi per la popolazione e per l’ambiente marino e costiero, a partire dalle zone di Cetraro, Capo Spartivento e Amantea, in modo da provvedere all’eventuale bonifica delle aree inquinate.
Starshit, diario del capitano - Venerdi, 02 Luglio 2010
4.000 persone a rischio. Accertato
Adesso è certo. È la conclusione della perizia della Procura di Paola eseguita dopo i rilievi nel fiume Oliva: più di centomila metri cubi di fanghi industriali provenienti non si sa da dove e scaricati nel letto del fiume e dintorni. Un pericolo drammaticamente attuale per la popolazione residente nei territori dei comuni di Amantea, San Pietro in Amantea e Serra d’Aiello.
La zona è quella circostante al letto del fiume Oliva a sud della località Foresta (centri di Campora San Giovanni, Coreca e Case sparse comprese tra il mare e la località Foresta), letto nel quale sono stati riversati «contaminanti ambientali capaci di indurre patologie tumorali e non: metalli pesanti e radionuclidi artificiali».
Dai carotaggi ordinati dal Procuratore di Paola Bruno Giordano — che sta indagando sulle cause dell’aumento dei tumori nella zona — emerge la presenza di Cesio 137, «che rende il danno ambientale assai più grave», berillio, cobalto, rame, stagno, mercurio, zinco e vanadio, tutti oltre i limiti consentiti dalla legge; c’è manganese nell’acqua del fiume; ci sono antimonio, cadmio e altri radionucleidi di uso medicale e industriale.
Nella relazione del dottor Giacomino Brancati si legge: «Un segno utile alla valutazione di effetti già evidenti sulla salute della popolazione è proprio determinato dalla presenza nei territori più prossimi ai siti di contaminazione di neoplasie maligne, e in particolare della tiroide, per le quali in specie il Cesio 137 è conosciuto in letteratura quale fattore etiologico». Gli abitanti si ammalano di tumore in modo direttamente proporzionale alla vicinanza ai siti contaminati. Dal 1996 al 2008 ben 1.483 persone si sono ammalate di tumore nei comuni di Amantea, San Pietro, Serra d’Aiello, Aiello, Cleto, Lago, Domanico, Grimaldi e Malito (tutti in provincia di Cosenza). Ma è proprio in prossimità del fiume Oliva che si registra il picco: «Si conferma l’esistenza di un eccesso statisticamente significativo di mortalità rispetto al restante territorio, dal 1992 al 2001, in particolare nei comuni di Serra d’Aiello (tumori del colon, del retto, degli organi urogenitali e del seno), Amantea (con prevalenza di tumori del colon), Cleto e Malito (prevalenza tumori del colon)». I dati sono stati estrapolati dalle schede di dimissione ospedaliere, sia in regione che fuori regione, relative ai ricoveri dei residenti nei comuni esaminati.
La perizia parla di «contaminanti radioattivi in quantità e collocazione che fa fortemente sospettare l’origine esogena»: in soldoni, è roba che non è del luogo — del resto non ci sono industrie ad Amantea —, è stata scaricata lì. In particolare nei comuni di Serra d’Aiello e di Amantea i ricoveri sono aumentati con un «eccesso statisticamente significativo rispetto al rimanente territorio regionale dal 1996 a oggi».
La relazione del dottor Brancati dice anche cosa va fatto: «Tali dati confermano la necessità oramai improcrastinabile di approfondire il livello di analisi con indagini epidemiologiche di campo in uno con le attività di sorveglianza sanitaria, risk management e bonifica ambientale».
Ma come togliere «oltre centomila metri cubi» di sostanze che mettono a rischio la vita della gente? E chi risarcirà gli ammalati e le loro famiglie? E inoltre, chi ha scaricato queste sostanze nel fiume Oliva e suoi dintorni, e quando? Secondo la Procura ci sono materiali portati anche negli ultimi tre anni. Nelle vicinanze del fiume c’è la spiaggia di Formiciche dove si arenò la famosa nave Jolly Rosso sulla quale grava l’ombra delle “navi a perdere”. La Procura di Paola sta cercando anche gli ipotetici fusti che sarebbero stati portati di notte dalla nave fin nei pressi del fiume, con l’aiuto di camion: finora di fusto non ne è stato trovato neanche uno. In compenso, è stata inaspettatamente trovata una colonna del VI Sec. a.C. che, secondo un primo sopralluogo archeologico effettuato l’1 luglio, apparterrebbe all’antica città di Themesa. Un gioiello buttato nella “discarica” dopo esser stato probabilmente ritrovato in altro luogo. Forse per evitare un blocco di lavori a causa del valore storico della colonna…
Alle violenze contro l’ambiente e la salute si è dunque aggiunta oggi la scoperta di questa violenza contro l’Arte e la Storia. Ma del resto cosa ci si potrebbe aspettare da persone che, stando al pentito Fonti, con i guadagni delle “navi dei veleni”…
Starshit, diario del capitano - Lunedi, 26 Luglio 2010
Se Atene piange (lacrime avvelenate), Sparta non ride…
I vicini di casa della Lucania non sono messi meglio dei Calabresi. La Basilicata dei Sassi di Matera e dell’Aglianico del Vulture è sotto l’assedio del malambiente, avvelenata dalla malapolitica.
In Calabria siamo messi male, ma c’è una situazione ambientale altrettanto drammatica: quella lucana. Come certificato dall’Istituto Superiore di Sanità assieme all’Istituto Tumori di Milano: «In Basilicata l’incidenza tumorale cresce come in nessun’altra parte d’Italia». Con una situazione paradossale (ma non troppo): lascia infatti interdetti la tempestività della magistratura lucana che ha messo sotto processo chi ha voluto e fatto le contro-analisi dei corsi d’acqua della Basilicata, un grave inquinamento di origine biologica e chimica sulle acque del Petrusillo, di Monte Cutugno, della Camastra e di Savoia Lucana, invasi che riforniscono acqua sia per usi potabili che irrigui. Analisi realizzate in forma indipendente da Maurizio Bolognetti, segretario dei Radicali lucani, assieme al tenente di polizia provinciale Giuseppe Di Bello, che hanno fornito dati che contraddicono le rilevazioni dell’Arpab (Agenzia regionale per l’ambiente), silente per oltre un anno sul mercurio e altre sostanze cancerogene immesse nel fiume Ofanto dall’inceneritore Fenice.
La Val Basento ha ospitato, sin dai primi anni Sessanta e fino alla fine dei Settanta, industrie che producevano clorosoda, cloruro di vinile, polivinile cloruro (Pvc) e amianto. L’azienda Mythen arriva all’interno di un sito di bonifica di interesse nazionale, a Ferrandina, in provincia di Matera, nel 2003: produce biodiesel, olio di soia, glicerina pura e fosfato monopotassico. Dallo stabilimento parte un tubo che scarica sostanze inquinanti direttamente nel Basento. Le acque del fiume cambiano colore, assumendo uno strano e minaccioso giallo, come scrive per la prima volta il Quotidiano della Basilicata nel 2006: «Chiazze giallastre e odore acre lungo un tratto del Basento hanno fatto gridare a un nuovo pericolo inquinamento». Mythen, per sgomberare il campo da ogni dubbio, ha avviato le procedure per risolvere alcune criticità del processo produttivo.
Vi sarebbero ancora molti altri casi di inquinamento su cui indagare: la Fenice; l’Itrec; le cave di salgemma di Scanzano. Tutti misteri fitti. Purtroppo però pare che anche in Basilicata sia all’opera una casta occulta — un altro muro di gomma —, cui è pressoché impossibile opporsi: una casta che non spara, questa, ma che ti circonda e ti lascia nell’indigenza.
O ti fa arrestare. Il 1° marzo 2010 Bolognetti viene convocato dai Carabinieri di Latronico, in provincia di Potenza, per essere ascoltato da due ufficiali del Noe (il comando per la tutela dell’ambiente): «All’inizio ho pensato di esser stato convocato», scrive il radicale nel suo dossier sulla “Lucania dei veleni”, «per avere notizie sugli esposti riguardanti vicende di inquinamento di Tito, della Val Basento, di Fenice, o per essere ascoltato sulla denuncia presentata in procura nei confronti di alcuni dirigenti dell’Arpab. Non è così: la procura di Potenza vuole conoscere la mia fonte sulla vicenda dell’inquinamento degli invasi. In pochi minuti passo dal ruolo di accusatore a quello di imputato. Il sostituto procuratore di Potenza dispone la perquisizione della mia abitazione, negandomi la possibilità di avvalermi del segreto professionale, in quanto non iscritto all’albo dei giornalisti. Sono rinviato a giudizio insieme al tenente Di Bello»…
Capita l’antifona?
In altre parole, chi mette le mani nelle vite dei comuni mortali, negando giustizia, producendo avvelenamenti, saccheggiando il territorio, dorme in pace, mentre chi denuncia e prova a raccontare, il sonno lo perde; chi fa un’operazione di trasparenza e verità viene indagato per procurato allarme, mentre su chi tace mettendo a rischio la vita delle persone nessuno procede…
Starshit, diario del capitano - Mercoledi, 20 Luglio 2011
Fanghi tossici in campi agricoli e frutteti
Dovevano trattare fanghi industriali tossici per reimpiegarli nell’edilizia, invece li sotterravano nei campi… Oltre 135mila tonnellate di rifiuti pericolosi e tossici stoccati e interrati illegalmente a San Calogero (Vibo Valentia): coinvolte varie società, calabresi e pugliesi, che si erano aggiudicate contratti milionari — stipulati con una società nazionale leader nella produzione di energia elettrica — per il trasporto, il recupero e lo smaltimento di fanghi «altamente inquinanti e pericolosi» di derivazione industriale, con alte percentuali di Nichel e Vanadio. Lo ha scoperto la GdF di Vibo Valentia, a conclusione di una lunga indagine (“operazione Poison”) iniziata nel novembre 2009: un’associazione a delinquere operante tra varie regioni d’Italia, in particolare Calabria, Puglia e Sicilia, per l’illecito trasporto e smaltimento di rifiuti industriali tossici e altamente pericolosi.
L’ennesimo segnale inquietante del fatto che in Calabria non si è usato solo il mare…
Starshit, diario del capitano - Giovedi, 15 Settembre 2011
Preoccupazioni da una tavolata estiva
(Episodio che coinvolge direttamente l’autore del blog.) Quest’estate sono stato seduto a una grande tavolata nella quale c’era un tizio anzianotto di cui non conosco il nome, un conoscente di altri conoscenti, che nel locale trattavano con deferenza (per dire, la pizza ci è stata portata prima di altri tavoli malgrado si fosse arrivati dopo), il quale sembra abbia dichiarato, in una discussione sulle “navi dei veleni”, una cosa del tipo: «E che ne sapevamo, noi, che quelle cose che ci prendevamo da interrare avrebbero fatto ammalare la gente?»… In sostanza, pare che la pratica di seppellire scorie (in mare ma anche, è evidente, in Aspromonte) fosse una cosa abbastanza comune a partire dagli Anni ’80 in tutta la Calabria, un modo come un altro per arrotondare le entrate da parte di chi possiede terreni ma con l’agricoltura non riesce a camparci più.
E non è una questione di “boss”, è proprio una questione di gente “qualunque”, come questo tizio qui, che non era esattamente uno ndranghetista ma un semplice benestante di campagna, come ce ne sono tanti: l’espressione «ci prendevamo da interrare» racconta di un business portato avanti come può essere quello di allevare bestie o piantare ulivi.
«Peppino, te li prendi sei quintali di bidoni gialli sigillati?», «Che c’è dentro?», «Olio usato», «E quanto rendono?», «Tot euro l’uno, in contanti ed esentasse», «Vabbò, mandami nu’ camion, che ora chiamo quattro marocchini con le vanghe», e l’affare è fatto, tanto c’ho quei due ettari su a Santo Stefano dove non cresce niente, almeno mi rendono qualcosa…
È questo, il vero incommensurabile male dei Calabresi: l’ignoranza abissale. L’«olio usato» (in realtà scorie inquinanti o radioattive pericolosissime) che male può fare?
Starshit, diario del capitano - Giovedi, 20 Dicembre 2012
“De Grazia avvelenato”: ah, finalmente una voce fuori dal coro?
Natale De Grazia, l’ufficiale che seguiva la pista delle «navi a perdere», non sarebbe morto per una fatalità ma sarebbe stato ucciso. Per fermarlo nelle indagini sugli affondamenti delle navi. «Il Capitano De Grazia non è morto di morte improvvisa mancando qualsivoglia elemento che possa in qualche modo rappresentare fattore di rischio per il verificarsi di tale evento», scrive il perito; «si trattava infatti di soggetto in giovane età, in buona salute, senza precedenti anamnestici deponenti per patologie pregresse, che conduceva una vita attiva e, come militare in servizio, era sottoposto alle periodiche visite di controllo dalle quali non sembra siano emersi trascorsi patologici. E per altri versi l’esame necroscopico, al contrario di quanto è stato prospettato attraverso una analisi non attenta e piuttosto superficiale dei reperti anatomo e istopatologici, non ha evidenziato nessuna situazione organo-funzionale che potesse costituire potenziale elemento di rischio di morte improvvisa (…) In questa morte si può riconoscere solo la causa tossica». Insomma, fu avvelenato.
L’articolo integrale di Repubblica/L’Espresso.
Starshit, diario del capitano - Lunedi, 21 Gennaio 2013
Nuova perizia sulla morte di De Grazia
Il 12 dicembre 1995 moriva in circostanze misteriose il capitano di corvetta Natale De Grazia, punta di diamante degli investigatori calabresi in cerca della verità sul presunto affondamento di rifiuti tossico-radioattivi a bordo di vecchie navi. Nel 1995 e nel 1997 due autopsie ufficiali (curiosamente affidate a uno stesso giudice) hanno garantito che si trattava di morte naturale. Oggi invece una nuova perizia, svolta da un prestigioso consulente della Commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti, individua nella “causa tossica” la fonte del malore di De Grazia.
Ecco su L’Espresso il testo integrale del documento
Starshit, diario del capitano - Giovedi, 12 Dicembre 2019
Fanpage “riapre” il caso De Grazia
Né infarto naturale né veleno: tortura
Sarebbe stato sequestrato, torturato e poi ucciso perché avrebbe scoperto un traffico internazionale di materiale nucleare. A indicare la causa e le motivazioni della morte di Natale De Grazia alcuni testimoni sentiti da Fanpage.it, il giornale online di inchieste italiane. Secondo questa ricostruzione, l’uomo che per conto della Procura di Reggio Calabria nei primi Anni ’90 stava svolgendo indagini delicatissime sulle procedure di smaltimento in mare di scorie tossico-nocive e radioattive sarebbe stato assassinato perché era divenuto troppo “scomodo”. Un’inchiesta, questa pubblicata dal quotidiano online, che arriva esattamente a 24 anni dalla morte dell’ufficiale della Marina in circostanze mai chiarite. Su questa storia anche la commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti nel 2012 aveva ipotizzato che De Grazia potesse essere stato ucciso per avvelenamento. Una ipotesi che confutava profondamente la versione ufficiale che aveva chiuso l’indagine sulla morte del capitano di corvetta definendo quel decesso come “naturale”.
Ora questa nuova pista aperta dalle parole di un testimone definito da Fanpage un ex membro dei servizi segreti italiani. «De Grazia lo hanno ammazzato quando doveva venire da me, lo sapete?», dice nell’intervista. «De Grazia sapeva che io non c’entravo niente con le navi che andavano giù nel basso Tirreno. Io gli ho dato l’esatto posizionamento dell’affondamento di una nave, la Rigel, perché lo avevo saputo a mia volta da altri».
Proprio quella nave, la Rigel, è al centro dell’inchiesta che stava conducendo la Procura della Repubblica di Reggio negli Anni ’90 e che sarebbe stata tra le cosiddette “navi a perdere”. Una nave affondata al largo di Capo Spartivento a Reggio Calabria, che secondo alcuni pentiti conteneva rifiuti tossici e materiale nucleare. Nave colata a picco dolosamente, come stabilito dalla sentenza emessa il 20 marzo del 1995 del Tribunale di La Spezia, che aveva condannato l’armatore assieme all’equipaggio per truffa alle assicurazioni. Da qui l’attenzione massima dedicata a quel relitto da parte della Procura reggina e dunque del capitano De Grazia.
«Gli inquirenti hanno mandato giù il maialetto subacqueo sulle coordinate che avevo dato io a De Grazia», spiega la fonte di Fanpage. «La prima volta si è rotto, la seconda volta c’era mare grosso e non poteva immergersi, la terza volta lo hanno mandato e poi non lo hanno mai più fatto immergere, perché quando è andato giù hanno visto cosa c’era e doveva rimanere lì. Io le coordinate non ce l’ho più, è qualcosa di cui mi sono liberato e non ho più voluto saper nulla dopo la morte di De Grazia». Sta di fatto che quella nave svanisce dal radar delle indagini dopo il decesso del capitano.
Ma ci sono altri elementi inquietanti che l’inchiesta del giornale online solleva: in primis, le torture che De Grazia avrebbe subito prima di morire, e inoltre la scoperta di una tratta di materiale nucleare.
Sulla prima vicenda è lo stesso cognato di Natale De Grazia, Francesco Postorino, a sollevare dubbi: «Quando ho visto il corpo sono rimasto scioccato: era quasi irriconoscibile, aveva il volto gonfio, il naso gonfio come se avesse preso una testata, era tutto pieno di lividi, come se qualcosa gli fosse esploso dentro. Sotto il costato, all’altezza dell’ascella, aveva una ferita a forma di triangolo, sembravano bruciature fatte con un ferro incandescente, una cosa strana. Il dubbio che mi viene è che potessero essere dei segnali di tortura». Fanpage pubblica anche le foto del cadavere del capitano per segnalare l’anomalia.
E poi c’è la pista del traffico di materiale nucleare giocato tra Stati Uniti e Russia che vede proprio l’Italia al centro di questa vicenda. «Quello che cambia tutto», dice a questo proposito la fonte di Fanpage, «è quando De Grazia a Genova trova le fatture della nave “Americana”, una nave usata dall’esercito degli Stati Uniti. Con quelle fatture che dimostravano cosa trasportava, il capitano De Grazia sarebbe andato a sequestrare la centrale nucleare di Bosco Marengo, in provincia di Alessandria. Quella era la meta finale dell’ultima missione di De Grazia, sequestrare la centrale di Bosco Marengo. Dentro c’erano 800 kg di polveri di uranio pronte a diventare combustibile nucleare, arrivava dall’America, da Norfolk, e lo aveva trasportato la nave “Americana”, dopo essere stato riprocessato andava in Lettonia e in Russia; in pratica gli americani e i russi si scambiavano le carte in Italia». Ipotesi che se confermate darebbero una nuova chiave di lettura a quanto successe la notte tra il 12 e il 13 dicembre del 1995.
Nella GoogleMap: la ex centrale nucleare di Bosco Marengo, oggi Sogin SpA, la società di Stato responsabile del decommissioning degli impianti nucleari italiani e della gestione dei rifiuti radioattivi, compresi quelli prodotti dalle attività industriali, di ricerca e di medicina nucleare. Sul sito web si legge: «Attività svolte per garantire quotidianamente la sicurezza dei cittadini, salvaguardare l’ambiente e tutelare le generazioni future. Interamente partecipata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, Sogin opera in base agli indirizzi strategici del Governo italiano».
Starshit, diario del capitano - Lunedi, 11 Febbraio 2013
Servizi segreti e “missili-penetratori”
È ancora L’Espresso a tentare di tenere accesa una luce che in tanti vogliono spegnere. E lo fa con un articolo che riporta al centro della vicenda i “siluri” di Comerio e la Jolly Rosso.
Per oltre vent’anni l’armatore Ignazio Messina ha negato che la motonave Rosso, arenatasi il 14 dicembre 1990 sulle coste calabresi, trasportasse siluri-penetratori per sparare rifiuti tossico-radioattivi dentro ai fondali marini. Nessuno ha mai trovato la prova che l’imbarcazione nascondesse questo segreto e i magistrati hanno chiuso il caso. Senonché adesso spunta un documento shock del 22 maggio 2003.
Quattordici pagine dove l’allora sostituto procuratore generale di Reggio Calabria, Francesco Neri, propone di assegnare la medaglia d’oro al merito di Marina al capitano di corvetta Natale De Grazia: suo collaboratore chiave nell’inchiesta sulle navi dei veleni, morto in circostanze sospette la notte del 12 dicembre 1995. Ed elencando ciò che l’ufficiale aveva scoperto riguardo alla vicenda Rosso, il magistrato scrive: «De Grazia, mediante l’escussione testimoniale del comandante Bellantone della Capitaneria di porto di Vibo Valentia, accertava personalmente che a bordo della nave che si era spiaggiata, vi erano i cosiddetti “penetratori”, indicati dai marinai come “munizioni”». Non solo. Stando a quanto riferisce Neri sulle indagini di De Grazia, «i documenti di carico erano falsificati».
Il che si somma al fatto che «lo stesso Bellantone aveva lanciato l’allarme radioattivo ai Vigili del Fuoco, i quali intervennero regolarmente sui luoghi, senza però stranamente certificare nulla».
Dopodiché, citando le parole di Neri, sarebbe emerso che il comandante Bellantone «sapeva che a bordo della nave vi era un carico “pericoloso”, perché a suo dire era stato già allertato dal comando della Marina Militare». E se tutto questo fosse ancora poco, per sollevare qualche dubbio sull’andamento dei fatti, va aggiunto che a bordo della nave, «proprio sulla plancia di comando, Bellantone aveva sequestrato le identiche mappe di affondamento» della ODM, l’azienda di Comerio che aveva proposto a decine di nazioni di seppellire in mare le scorie tossico-nocive.
Un quadro sconcertante, nell’insieme. Anche perché Neri, ricostruendo i giorni successivi allo spiaggiamento della Rosso, racconta che l’imbarcazione fu smantellata dall’armatore dopo che l’azienda olandese Smit Tak (specializzata nel recupero marino di rifiuti tossici e radioattivi) «aveva lavorato con la completa “sorveglianza” del sito, reso inaccessibile da parte di un servizio segreto non meglio identificato».
Tutto normale? Tutto da interpretare come una banale prassi operativa? Le domande, in queste ultime settimane, stanno tornando a farsi dense attorno al capitolo delle navi dei veleni. Sia per l’ipotesi lanciata da Neri che sulla Rosso ci fossero i famosi missili-penetratori, sia perché il settimanale Corriere della Calabria ha pubblicato alcuni passaggi dell’audizione di Emilio Osso davanti alla Commissione parlamentare ecomafie. Sede in cui questo istruttore di polizia municipale, al fianco della Procura di Paola nelle inchieste ambientali, ha definito quello che la Rosso trasportava il 14 dicembre 1990 «difforme» dal piano di carico ufficiale. «Inoltre», riferisce Osso a L’Espresso, «tre container non sono più stati rinvenuti». Dettagli impossibili da sottovalutare, a questo punto. Schegge di un mistero che pochi vogliono risolvere.
Starshit, diario del capitano - Martedi, 20 Giugno 2017
Avvelenati e beffati. Il giallo di Amantea
Uno scenario ambientale preoccupante. Ecco cosa ha sottolineato, nel 2011, la prima relazione stilata dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) sul fiume Oliva, in provincia di Cosenza.
Nel 2013 il giudizio dell’Ispra è confermato perché la situazione di inquinamento è davvero grave. La relazione in questione ha messo in evidenza la presenza di massicce quantità di idrocarburi, metalli pesanti e numerose sostanze tossiche responsabili di aver causato l’avvelenamento delle acque di falda che, secondo il ministero dell’Ambiente, sono inutilizzabili per uso umano, agricolo e zootecnico.
Al tempo stesso, la Procura di Paola attraverso indagini approfondite ha individuato in un consistente e continuo interramento di rifiuti — per un totale di circa 160 mila metri cubi, tra scorie e fanghi di varia natura, anche industriali — la presenza di tali inquinanti.
L’aumento statistico di patologie associabili alle sostanze inquinanti rinvenute nei suoli e nelle acque
Secondo i documenti del ministero competente, le sostanze rinvenute si concentrano principalmente nei suoli delle località Carbonara e aree limitrofe (Aiello Calabro), Foresta (Serra d’Aiello) e su un sito ricadente nel territorio comunale di Amantea. Nelle acque sotterranee sono state riscontrate elevate concentrazioni di ferro, manganese e solfati. In località Foresta, invece, c’è un’elevata concentrazione di arsenico, triclorometano e tricloroetano. Si ipotizza che tali sostanze abbiano causato — e possano ancora causare — la compromissione della salute «con un aumento statistico di patologie associabili alle sostanze inquinanti rinvenute nei suoli e nelle acque».
Un danno ambientale che avrebbe compromesso l’uso delle acque sotterranee, diverse coltivazioni nelle aree irrigate con le acque sotterranee e superficiali del fiume Oliva. Compromesso anche l’habitat per alcune specie ittiche meno adattabili a situazioni di inquinamento, in una zona «senza ritorno» dal punto di vista idrogeologico, paesaggistico e con perdita di valore turistico. Si comincia così a parlare di necessità di bonificare e si accendono anche i riflettori sui possibili responsabili di una situazione che si configura come un vero e proprio disastro ambientale.
Una lunga vicenda giudiziaria
Nel 2012 il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Paola, Carmine De Rose, emana un decreto di rinvio a giudizio per Cesare Coccimiglio (imprenditore ottantunenne di Amantea), Vincenzo Launi (sessantaduenne di San Pietro in Amantea), Giuseppina Marinaro (sessantenne), Antonio Sicoli (trentaduenne di Aiello Calabro) e Arcangelo Guzzo (ottantenne proprietario terriero). Le accuse vanno dal disastro ambientale all’omicidio colposo.
Solo nel mese di gennaio 2017 il pubblico ministero Maria Francesca Cerchiara, alla presenza del collegio giudicante presieduto dal giudice Giovanni Garofalo e da Francesca De Vuono, ha chiesto la condanna a sedici anni e sei mesi di reclusione per Coccimiglio e l’assoluzione di tutti gli altri imputati.
A raccontare nel dettaglio la vicenda è la giornalista Maria Teresa Impronta. In un articolo pubblicato su QuiCosenza.it del 16 gennaio 2017 non usa mezzi termini.
«Si tratta di un processo rimbalzato da Paola a Cosenza, con una sfilata di testimoni in aula, perlopiù agricoltori della zona che coltivavano sui terreni contaminati, che non ricordavano di aver visto neanche uno dei quindicimila camion che hanno riversato nella valle dell’Oliva oltre 162 mila tonnellate di rifiuti industriali» (162 mila metri cubi di materiale sono più o meno l’equivalente di 15.000 camion di grande portata a pieno carico, ndr). Un’attività iniziata, secondo l’accusa, dall’imprenditore Coccimiglio negli anni Ottanta e proseguita fino al 2009 attraverso l’utilizzo di un’impresa edile (Coccimiglio Cesare & C. snc: è quella inquadrata nella mappa Google qui sotto, a ridosso del fiume Oliva, alla cui foce sottostante si spiaggiò la Jolly Rosso il 14 Dicembre 1990) come copertura per l’attività di smaltimento illecito di rifiuti.
L’azienda, inoltre, nel corso degli anni si sarebbe aggiudicata anche appalti pubblici che hanno consentito, come nel caso dei lavori sulla SS 53 a Serra d’Aiello, di costruire sversando fanghi altamente inquinanti nei terreni. In questa strada, di proprietà della Provincia di Cosenza, nel tratto che collega Valle del Signore a Galleria Cozzo Manca e ad Aiello Calabro, sarebbe stato rilevato sotto il manto stradale un accumulo di rifiuti tossici di oltre un metro di spessore. L’imprenditore è accusato di aver organizzato il trasporto e lo scarico dei rifiuti utilizzando mezzi appartenenti alla sua azienda. Vincenzo Launi, Giuseppina Marinaro, Antonio Sicoli, Arcangelo Guzzo (legati a Coccimiglio da rapporti di parentela e lavoro) invece, in qualità di proprietari dei terreni sui quali parte degli scarichi sono avvenuti, avrebbero acconsentito allo smaltimento illecito dei rifiuti. Il disastro ambientale ipotizzato a carico di Coccimiglio avrebbe determinato un eccesso statisticamente significativo di mortalità per tumori maligni del colon retto, del fegato, della tiroide, degli organi genitourinari, della mammella, e particolari patologie non tumorali nell’area del Distretto Sanitario di Amantea (in prossimità dei siti contaminati) tra il 1992 e il 2001.
«Le aree contaminate ricadono, secondo l’accusa, in zone adiacenti o comunque nelle disponibilità delle proprietà di Cesare Coccimiglio. Dell’imprenditore è stata più volte accertata la presenza sugli stessi terreni in cui, per hobby, come ha sottolineato il PM Cerchiara, venivano ripetutamente scavate delle buche. Aiello Calabro, Amantea, San Pietro in Amantea e Serra d’Aiello i Comuni in cui sono stati consumati i fatti in particolare nelle contrade: Foresta, Giani, Carbonara, Briglia e fondovalle Oliva […]. In questi terreni sarebbero stati scaricati ripetutamente fanghi, rifiuti edili ed urbani contaminati da metalli pesanti e altri inquinanti. Un’attività che avrebbe portato alla realizzazione di un’unica vasta discarica di alcuni chilometri quadrati nell’alveo del fiume Oliva e aree limitrofe».
La sentenza di assoluzione
Uno scenario raccapricciante, dunque, nel quale attori inconsapevoli sono, come sempre, i cittadini ignari, danneggiati da attività illecite che raramente vengono sviscerate e fatte emergere.
Così come è sempre più raro giungere all’ottenimento di una verità spesso condizionata da poteri occulti: e infatti il 6 marzo 2017 viene pronunciata la sentenza di assoluzione. È come una pugnalata, soprattutto per i numerosi cittadini danneggiati. Nel giudizio si erano costituiti come parti civili numerosi enti, quali i comuni della zona interessata, le organizzazioni ambientaliste e sindacali, e il Comitato Civico “Natale De Grazia” di Amantea. In sede dibattimentale l’avvocato Nicola Carratelli, difensore di Cesare Coccimiglio, avrebbe dimostrato come l’accumulo del materiale inquinante sarebbe dovuto al fatto che per diversi anni quell’area era stata adibita a discarica da parte di alcune amministrazioni comunali. Per la Corte di Assise di Cosenza, dunque, questo basta per stabilire che il reato non è stato commesso e così il giudice Giovanni Garofalo assolve il Coccimiglio e gli altri quattro co-imputati, proprietari dei terreni avvelenati: Vincenzo Launi, Giuseppina Marinaro, Antonio Sicoli e Arcangelo Guzzo. «Per non aver commesso il fatto».
E allora chi è stato?
«I proprietari terrieri in sede processuale hanno negato di aver mai visto dei camion sversare rifiuti sui propri terreni. A essere danneggiate da tutto questo sono le persone che hanno contratto patologie tumorali grazie a chi ha venduto/fittato i propri terreni, consentendo che si consumasse un disastro ambientale purtroppo impunito». Questo il laconico, amaro commento sulla sentenza da parte della giornalista Impronta.
Il caso dell’inquinamento del fiume Oliva arriva al Parlamento Europeo. Chiesta istituzione di un fondo speciale
L’istituzione di un fondo europeo a cui accedere per riparare i disastri ambientali quando non è possibile individuarne i responsabili. È questa la richiesta avanzata dal comitato Natale De Grazia all’Unione Europea, nel corso del workshop sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale (direttiva europea 2004/35/CE), tenutosi il 15 marzo 2017 a Bruxelles.
Il rappresentante del comitato De Grazia, Danilo Amendola, ha presentato un documento sul disastro ambientale del fiume Oliva dove risultano ancora interrati da 120 a 160 mila metri cubi di rifiuti di varia natura, anche industriali, per i quali non si conoscono ancora tempi e modi di messa in sicurezza o bonifica. Al momento è, quindi, in capo alla collettività l’onere di sostenere le spese per il risanamento della valle.
«La vicenda dell’inquinamento della valle Oliva», scrive nella propria relazione il comitato, «rappresenta un esempio di come, nei casi di inquinamento appurati, sia necessario trovare gli strumenti più efficaci per ottenere in tempi rapidi la bonifica dei luoghi. A tal proposito da parte delle istituzioni europee è indispensabile migliorare la direttiva sulla responsabilità ambientale al fine di garantire il ripristino dei luoghi inquinati tempestivamente».
La direttiva 2004/35/CE — oltre a contemplare l’obbligo per le autorità ambientali nazionali a procedere alla messa in sicurezza dal punto di vista igienico-sanitario e ambientale, nonché alla bonifica dei siti inquinati nel rispetto del principio di precauzione, di cui all’articolo 191 del Trattato dell’Unione Europea; e il rispetto della Convezione sull’accesso alle informazioni, la partecipazione dei cittadini ai processi decisionali e l’accesso alla giustizia in materia ambientale (Convenzione di Aarhus) — dovrebbe altresì prevedere, ed è questa la proposta più interessante del comitato, l’istituzione di un fondo europeo, attraverso l’imposizione di un tributo sul volume di affari delle attività industriali con produzioni a elevato rischio di inquinamento. A tale fondo, le istituzioni dei Paesi membri (Ministero, Regioni, Comuni) dovrebbero poter accedere per il ripristino dei territori inquinati nel momento in cui non sia possibile applicare il principio “chi inquina paga”.
L’obiettivo dovrebbe essere quello di alimentare il fondo in modo premiale per gli operatori economici che dimostrino di essere all’avanguardia nelle attività.
Starshit, diario del capitano - Martedi, 17 aprile 2018
Il fiume ucciso
In determinate aree del fiume Oliva, per almeno vent’anni, «senza ombra di dubbio» sono stati gettati rifiuti di ogni sorta. Da scarichi industriali a scarti di edilizia, fanghi sconosciuti dai colori innaturali (giallo, verde, azzurro), e presumibilmente sostanze radioattive di natura artificiale. Un totale di 162mila metri cubi di materiale. In poche parole, quel piccolo fiumiciattolo che attraversa le colline di Aiello e Serra d’Aiello per poi sfociare nei dintorni di Amantea, a discapito della sua oggettiva bellezza naturale, è una gigantesca discarica sotterranea. È stato più volte ribadito negli anni delle inchieste sulle navi dei veleni, sul traffico illecito di rifiuti della zona e a dicembre 2017 certificato anche nelle motivazioni dei giudici della Corte d’Assise di Cosenza.
Sono sette i siti analizzati nel corso degli anni, ognuno con le sue “peculiarità”. Da sotto terra sono spuntate quantità elevatissime di metalli pesanti, a partire dal mercurio, che quasi certamente è entrato in circolo danneggiando in primis la fauna ittica. I pesci, dunque, sono stati letteralmente intossicati. E considerata l’estrema vicinanza con il mare si presume che tutto questo sia arrivato fino alla costa, allargando sensibilmente l’area di inquinamento.
In mezzo c’è il radionuclide artificiale Cesio 137, generalmente uno scarto delle centrali nucleari a fissione, che secondo diverse analisi è presente a quantità molto alte nella zona della briglia in cemento costruita per frenare il percorso dell’acqua.
L’Ispra nel 2011 aveva attribuito quella presenza al caso Chernobyl, ma nel 2015, durante il processo, un esperto dell’agenzia per l’ambiente lombarda e alcuni esperti avevano rimarcato la possibile natura artificiale di quelle emissioni. Lì sotto è stato anche ritrovato un sarcofago di cemento, strapieno di fanghi industriali. Scarti di un qualcosa ancora oggi difficilmente identificabile.
Per molti si tratterebbe della prova dei bidoni della Jolly Rosso, fatti sparire probabilmente in una vecchia cava nei giorni successivi allo spiaggiamento della nave nel 1990 a Formiciche di Amantea. E ancora: cobalto, arsenico, cromo, freon, cadmio e idrocarburi. Tutte sostanze altamente cancerogene e venefiche, concentrate e assorbite a profondità notevoli. Così tanto da aver persino toccato una falda acquifera sotterranea. Acqua che viene utilizzata per l’agricoltura (quasi tutta la zona è a vocazione agricola) e fino a qualche anno fa anche spillata da una fontana pubblica, poi chiusa.
Starshit, diario del capitano - Martedi, 14 maggio 2019
Fiume Oliva, i magistrati di Catanzaro vogliono approfondire le indagini
Nel fiume Oliva «bisogna approfondire le indagini». È quanto ha deciso la Corte d’Assise d’appello di Catanzaro nell’udienza del 13 maggio 2019. La Corte ha accolto la richiesta del Pubblico Ministero — a cui si sono associate le parte civili tra cui il Comitato De Grazia —, di procedere alla verifica dei rifiuti prodotti dalla ditta Coccimiglio Cesare & C. snc dall’anno 2001 all’anno 2011 e la quantità effettivamente smaltita in impianti autorizzati.
In pratica, i consulenti nominati dalla Corte dovranno esaminare la documentazione e verificare se tutti i rifiuti prodotti dalla ditta Coccimiglio siano stati regolarmente smaltiti.
A tale richiesta si era opposta nell’udienza del 5 marzo scorso la difesa di Cesare Coccimiglio, unico imputato nel processo di appello. L’avvocato Nicola Carratelli aveva argomentato sostenendo che già nel processo di primo grado sarebbe stato accertato che i rifiuti rinvenuti nell’Oliva non fossero stati prodotti in zona e che sul ciclo di produzione dell’azienda aveva già ampiamente indagato la Procura di Paola. Nell’ultima udienza i giudici della Corte hanno sciolto la riserva accordando la richiesta del PM e nominando i consulenti che dovranno occuparsi degli ulteriori accertamenti.
Quindi ci vorrà ancora tempo per mettere la parola fine alla vicenda del fiume Oliva dove, secondo la Corte d’Assise di Cosenza, si è consumato un vero e proprio disastro ambientale che fino a oggi non ha un responsabile.
Intanto nella vallata dell’Oliva continuano a rimanere interrati gli oltre 160mila metri cubi di rifiuti industriali che secondo l’analisi del rischio redatta da Ispra e Arpacal dovrebbero essere rimossi. I lavori di messa in sicurezza, al momento, spetterebbero alla Regione Calabria: che tuttavia non ha avviato alcuna procedura né stanziato i fondi necessari. Se dal processo di Appello di Catanzaro dovesse uscire un responsabile, il risanamento del territorio, per il principio “chi inquina paga”, spetterebbe a quest’ultimo.
Starshit, diario del capitano - Mercoledi, 28 aprile 2021
Da non credersi: pure gli Americani hanno i veleni in fondo al mare
Alcuni scienziati marini dell’Università di San Diego, in California, hanno trovato sul fondale del mare tra Los Angeles e l’isola di Santa Catalina oltre 27 mila barili che sembrerebbero contenere DDT, una sostanza nota per essere stata il primo insetticida moderno, prima che si scoprisse che poteva essere un potenziale pericolo anche per gli altri esseri viventi. Gli scienziati hanno col tempo riscontrato alti livelli di DDT nei mammiferi d’acqua tra cui delfini e leoni marini, sovente causa dell’insorgere di forme tumorali. Un’inchiesta del Los Angeles Times ha scoperto che i registri di spedizione di una compagnia di smaltimento legata a Montrose Chemical, società produttrice di DDT, mostrano che 2.000 barili di fanghi legati al DDT potrebbero essere stati riversati ogni mese, dal 1947 al 1961, in una precisa area designata e destinata a discarica. Oltre a Montrose, i registri di altre entità riportano che molte aziende industriali della California meridionale abbiano utilizzato questo bacino come discarica fino al 1972, quando è stato emanato il Marine Protection, Research and Sanctuaries Act, noto anche come Ocean Dumping Act, ovvero la legge che disciplina il collocamento e il trattamento di rifiuti nelle acque marine.
Non è ancora del tutto certo che i barili contengano DDT, ma questa sostanza era già stata trovata in precedenza nella stessa area. Le immagini dei barili sono state ottenute dai ricercatori della Scripps Institution of Oceanography, uno dei più importanti centri di ricerca per la protezione del pianeta al mondo, che fa parte dell’università di San Diego.
Un’area del fondale di quasi 1.500 chilometri quadrati è stata mappata attraverso sonar, cioè dispositivi che utilizzano la propagazione del suono sott’acqua per individuare la presenza di oggetti, e sono stati trovati anche più di 100mila detriti di una sostanza che potrebbe essere riconducibile al DDT. La spedizione, che si è svolta dal 10 al 24 marzo 2021, è stata condotta anche attraverso l’impiego di veicoli subacquei autonomi (AUV), ovvero droni sottomarini pensati appunto per mappare il fondo dei mari. Ci sono diversi tracciati distinti nell’area esaminata, che suggeriscono come lo scarico dei rifiuti sia stato ripetutamente effettuato da una piattaforma in movimento, come una nave o una chiatta. Alcune di queste linee sono lunghe oltre 17 chilometri.
Chissà se anche lì hanno qualcosa di simile a un pentito di ’Ndrangheta, che rivela affondamenti risalenti a Nixon o Reagan e coordinati da una CIA deviata… (E chissà che non ci possano prestare questi droni per esplorare il basso Tirreno e lo Jonio…)
Starshit, diario del capitano - Martedi, 18 maggio 2021
Il sud dei fuochi
Ecco cosa succede — altrove — quando viene certificato il matrimonio fra rifiuti e mafie — due schifezze di pari natura ed effetti di devastazione.
Tumori alla mammella, asma, leucemie, malformazioni congenite: finora è sempre stata solo un’ipotesi, seppur corroborata da alcune evidenze processuali, ma ora è arrivata la conferma dell’Istituto Superiore di Sanità. Nella cosiddetta Terra dei fuochi c’è una “relazione causale o di concausa tra la presenza di siti di rifiuti incontrollati” e l’insorgenza di malattie che per decenni hanno distrutto vite e causato vittime.
È l’esito del lungo lavoro di ricerca avviato nel 2016 dagli esperti dell’ISS insieme alla procura di Napoli Nord. Un documento che può riscrivere la storia di queste terre tra le province di Napoli e Caserta, martoriate dallo smaltimento di rifiuti illeciti e pericolosi a cui, sostiene la procura di Napoli, “le istituzioni hanno assistito con inerzia” per anni.
Una vicenda portata alla luce negli anni Novanta grazie al lavoro del poliziotto Roberto Mancini e alle rivelazioni del pentito Carmine Schiavone e che a livello giudiziario si è diramata in mille rivoli. Solo poche settimane fa la Cassazione ha confermato la condanna a 18 anni di carcere per Cipriano Chianese, accusato di associazione camorristica e avvelenamento di acque e ritenuto tra gli ideatori (per conto dei Casalesi) del sistema delle ecomafie e dello smaltimento dei rifiuti gestito dal boss Francesco Bidognetti.
Le patologie accertate
Nel frattempo il lavoro di procura e ISS è andato avanti, grazie al costante scambio di dati e di informazioni derivanti dalla sorveglianza epidemiologica della popolazione residente nel circondario di Napoli Nord. Dal rapporto è emerso che “la mortalità e l’incidenza per tumore della mammella è significativamente maggiore tra le donne dei comuni inclusi nella terza e quarta classe dell’indicatore di esposizione a rifiuti (livello di rischio da rifiuti maggiore) rispetto ai comuni della prima classe, meno impattati dai rifiuti”. Inoltre “l’ospedalizzazione per asma nella popolazione generale è significativamente più elevata, sia negli uomini che nelle donne, nei comuni maggiormente impattati dai rifiuti”. La prevalenza dei nati prematuri “è significativamente più elevata nei comuni della seconda, terza e quarta classe dell’indicatore rispetto alla prima”. E ancora, “la prevalenza di malformazioni congenite nel loro complesso è significativamente più elevata nei comuni della classe 4”, dove “è maggiore anche la prevalenza delle malformazioni congenite dell’apparato urinario”.
Dati incontrovertibili, che certificano anche le malattie che in questi anni hanno colpito i giovani tra 0 e 19 anni: in questa classe d’età, si legge, “l’incidenza di leucemie e i ricoverati per asma aumentano significativamente passando dai comuni della Classe 1 a quelli delle Classi successive di Irc, con il rischio maggiore nei comuni della Classe 4 (la più impattata dai rifiuti)”.
Coinvolti 38 comuni della Campania
L’indagine è stata realizzata nei comuni di competenza della Procura di Napoli Nord. Un’area di 426 chilometri quadrati in cui negli anni sono stati accertati 2.767 siti di “smaltimento abusivo di rifiuti, anche pericolosi”. In 653 hanno anche avuto luogo “combustioni illegali”. La conseguenza è che il 37% della popolazione presente nell’area, oltre 354mila cittadini, si è ritrovata a vivere a meno di 100 metri “da almeno un sito o più di uno”, esponendosi a una “elevatissima densità di sorgenti di emissioni e rilasci di composti chimici pericolosi per la salute umana”.
E in Puglia non va meglio
Devono rispondere di traffico di rifiuti e riciclaggio le 13 persone arrestate oggi in una operazione dei Carabinieri del NOE di Lecce e della Guardia di Finanza di Taranto, nata da un sequestro nel Torinese. L’organizzazione fra novembre 2018 e novembre 2019 ha messo in piedi un sistema di smaltimento di rifiuti anche pericolosi prodotti nel Centro Italia e, per un blocco dell’import-export verso la Cina, dirottatati verso il Mezzogiorno in modo che l’immondizia venisse bruciata o interrata nelle campagne.
La scelta del Sud Italia, secondo gli inquirenti, è stata dettata sia dai legami che i capi di questa associazione per delinquere avrebbero avuto con Camorra e ’Ndrangheta, sia da una logistica favorevole, cioè la non eccessiva distanza da percorrere con i tir per smaltire il carico, che garantiva minori probabilità di controlli su strada. Sotto la lente, anche le cave di Surbo, nel Salento, di Crispiano e San Giorgio, nel Tarantino. Finanza e carabinieri hanno eseguito sequestri per diverse centinaia di migliaia di euro.
Dove c’è merda tossica, c’è sempre la ’Ndrangheta. L’identificazione è totale.
Starshit, diario del capitano - Venerdi, 1 ottobre 2021
Quei rapporti spariti dei servizi segreti
Per quasi vent’anni, dal 1995 al 2014, un rapporto del SISDE (servizio segreto civile che non esiste più dal 2007) che riguardava rifiuti tossici sepolti in una zona della Calabria è stato tenuto riservato: è rimasto classificato come segreto di Stato, visto che riguardava una questione ritenuta estremamente rilevante per la sicurezza e coinvolgeva pentiti della ’Ndrangheta. Nel documento, il 588/3, veniva rivelato che nella provincia di Vibo Valentia, e in particolare nell’area delle Serre vibonesi, la ’Ndrangheta aveva nascosto, interrandoli, fusti di rifiuti pericolosi. Da quando venne decisa la desecretazione del rapporto furono effettuate alcune ricerche: i carabinieri fecero delle analisi e dissero di non avere trovato nulla, ma non venne mai fuori una copia scritta di quei risultati.
Si parlò della possibilità di fare altri studi, ma non partirono più. Il Rapporto Istisan-Studio epidemiologico dei siti contaminati della Calabria del 2016 certificò una maggiore mortalità nella zona rispetto alla media regionale. Tuttavia venne anche specificato che non esisteva alcuna ipotesi sulle cause. In sostanza, i rifiuti tossici non vennero mai trovati, ma forse non furono cercati abbastanza.
Il primo documento del SISDE a essere desecretato risaliva al 3 ottobre 1994. Vi era scritto che «informatori di settore» che non avevano avuto contatti reciproci avevano dato «incoraggianti riscontri info-operativi» sul «presunto traffico internazionale di scorie tossico-radioattive gestito dalla ’Ndrangheta». Il rapporto aggiungeva poi che le testimonianze raccolte sostenevano che «le discariche presenti in Calabria sarebbero parecchie» e localizzate «oltre che in zone aspromontane, nella cosiddetta zona delle Serre (Serra San Bruno, Mongiana, etc.) nonché nel Vibonese».
Il 20 febbraio 1995 venne redatto un altro documento. Il SISDE affermava che «esiste un grosso traffico a livello nazionale riguardante lo smaltimento di sostanze tossico-radioattive gestito dalla ’Ndrangheta. Tra la Calabria e il Nord Italia vi sono decine di discariche abusive, parte già individuate, che custodiscono circa settemila fusti di sostanze tossiche». Nel rapporto venivano citate Serra San Bruno e Fabrizia. In un altro passaggio si aggiungeva che oltre alle sostanze tossiche il traffico includeva anche «il contrabbando di uranio».
Nonostante la dichiarata solidità delle fonti — presumibilmente diversi collaboratori del SISDE — e la rilevanza delle informazioni, per 20 anni la relazione rimase segreto di Stato.
Cosa accadde dopo che i documenti vennero desecretati lo ricostruisce Argentino Serraino, un giornalista di Vibo Valentia che, sul quotidiano online zoom24, si è occupato della vicenda cercando anche risposte, non arrivate, dai candidati dei partiti alle elezioni regionali calabresi, nonché dai candidati presidenti: «La prefettura di Vibo Valentia annunciò la creazione di una task force per andare a fondo della questione. Ma ci si fermò all’annuncio. Nacque anche un comitato, Pro Serre, ora sciolto, che però non riuscì a ottenere risposte».
Venne decisa un’indagine da effettuare ricorrendo al Miapi, e cioè il Monitoraggio e individuazione delle aree potenzialmente inquinate, programma finanziato con fondi europei. A occuparsi del monitoraggio fu il reparto NOE (Nucleo operativo ecologico) dei carabinieri di Reggio Calabria appoggiato dall’Arpacal, l’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente della Calabria. Fu realizzato tramite magnetometro e spettrometro a raggi gamma. Il primo serve a individuare variazioni della suscettibilità magnetica, generalmente per la presenza di elementi metallici nel terreno; il secondo misura le radiazioni di uno o più elementi.
I risultati di quel monitoraggio non furono mai pubblicati. Ai sindaci dei comuni interessati i carabinieri assicurarono che le indagini avevano dato esisto negativo: non era stato trovato nulla. Il sindaco di Fabrizia, Francesco Fazio, spiega che all’epoca non era nemmeno assessore, ma comunque ricorda che erano state date forti rassicurazioni sul fatto che non fosse stata trovata traccia di rifiuti tossici.
Le rilevazioni del progetto Miapi avevano però due limiti: l’esclusione di alcune aree, come i centri abitati superiori ai 2 km quadrati, e soprattutto il fatto che non potessero essere esaminati terreni con inclinazioni superiori ai 15°, elementi specificati nella presentazione del progetto:
«La superficie terrestre non deve presentare inclinazione superiore ai 15°, soglia limite per mantenere una velocità che garantisca la stabilità del magnetometro durante le fasi di volo. Questo criterio ha di fatto escluso dalle aree da rilevare quelle zone con pendenza superiore ai 15°».
Fonti dell’Arpacal hanno spiegato al Post che l’Agenzia aiutò i Carabinieri che fecero le analisi: «Fornimmo il reticolo informativo e collaborammo per tutto ciò che ci venne chiesto, ma le verifiche vennero effettuate dall’Arma dei Carabinieri». L’Arpacal propose poi di effettuare verifiche a terra, ma non ci fu seguito.
Nel 2016 vene resa nota la pubblicazione Studio epidemiologico dei siti contaminati della Calabria, che aveva preso in considerazione quattro aree della regione, tra cui le Serre vibonesi e in particolare i comuni di Fabrizia, Mongiana e Serra San Bruno (le altre aree esaminate furono Crotone, Cassano-Cerchiara, Lamezia Terme, Davoli e Valle dell’Oliva).
«Quello che emerse» dice al Post Massimiliano Pitimada, uno dei curatori della pubblicazione,
fu un eccesso di mortalità per tumori totali e in particolare tumori gastrici, e per diverse patologie cronico-degenerative. La nostra era una pubblicazione che non voleva allarmare ma informare, faceva emergere alcuni dati, non era un rapporto di fine lavoro. Serviva e servono ulteriori studi epidemiologici. Oltretutto quell’eccessiva mortalità non può essere collegata a una causa precisa. Noi non sappiamo se effettivamente in quella zona ci sono rifiuti tossici né sappiamo, nel caso ci fossero, il profilo tossicologico degli inquinanti eventualmente presenti.
Servivano “ulteriori approfondimenti” che però “non sono stati fatti”: dove abbiamo già sentito le strofe di questa canzone?
Sul tema dei rifiuti tossici in Calabria sono intervenuti due dei candidati alla presidenza della Regione. Luigi de Magistris ha detto: «La Calabria è terra profanata dai rifiuti tossici. Una questione scomoda che ha spinto la politica a nascondere la polvere sotto il tappeto. Se sarò eletto presidente nei primi cento giorni, darò vita all’Agenzia regionale per la protezione del territorio». La candidata del centrosinistra Amalia Bruni ha parlato del rapporto Istisan: «Bisogna capire quali sono e quanti sono i siti dannosi nella regione e verificare la loro incidenza sui tumori. Bisogna chiarire innanzitutto che il rapporto non è nato con l’idea di essere contro o di allarmare qualcuno ma dall’esigenza di informare. E uno studio realizzato per invitare a riflettere e trovare soluzioni valide per un problema che riguarda tutti noi».
Nel 2017 ci fu un’interrogazione parlamentare del Movimento 5 Stelle. Un’altra interrogazione è del 2020. Argentino Serraino dice che nel 2016 «un laboratorio accreditato dal Ministero dell’Ambiente si era proposto per fare le analisi di acque, vegetazione e prodotti agricoli. Dopo una prima riunione operativa, anche in quel caso, non si fece poi nulla».
Franco Saragò, presidente del circolo di Legambiente di Ricadi (Vibo Valentia), spiega che «molti pentiti hanno parlato di interramento di rifiuti tossici nell’area del vibonese e le ricerche sono state fatte». Non è mai riuscito a vedere la relativa documentazione: «Non è stato trovato nulla però una certificazione non la abbiamo mai avuta». Il problema, secondo Saragò, riguarda molte zone della Calabria, come la galleria Limina, sulla statale 682 che collega lo Jonio e il Tirreno. Nel 2011 la Stampa pubblicò la testimonianza anonima di un geometra che disse che durante la costruzione del tunnel la ’Ndragheta aveva fatto mischiare, per smaltirli, rifiuti tossici al cemento.
«Anche nelle discariche non sappiamo cosa è stato sversato» dice Saragò. «Secondo la legge italiana andrebbero bonificate ma questo è stato fatto solo in parte. Ci sono poi tutti quei siti dove probabilmente negli anni la ’Ndrangheta ha fatto confluire rifiuti tossici. Ma sono “si dice”, non ci sono riscontri e comunque delle prove non sono mai state trovate. Il rischio è quello di abbaiare alla luna, di essere presi per degli allarmisti e anzi di creare una reazione avversa, e cioè che di queste cose non si voglia più parlare».
La Calabria è una discarica tossica: lo sanno tutti (da decenni), eppure non si può dire. Né si fanno ricerche approfondite.
Note bibliografiche e documentazione
Complotto sotto il mare, in L’Espresso.
Relitto di Cetraro, Tecnici ministero da Procuratore Paola, in Nuova Cosenza.
Dal plutonio alle polveri di marmo il "cimitero" delle navi radioattive, in Repubblica.it.
Se c'è una nave dei veleni al largo di Melito Porto Salvo qualcuno sa già tutto, in Strill.it.
Il documento segreto del 2006. "Al largo di Cetraro le navi sono tre", in Repubblica.it.
William Domenichini, Poeti avvelenati: storia di una delle più provinciali province italiane, in Informazionesostenibile.info.
Scorie radioattive la procura di Paola chiede bonifica, in Nuova Cosenza.
Si cerca una seconda nave dei veleni, in Nuova Cosenza.
Trovata la nave dei rifiuti radioattivi. L'hanno inabissata al largo della Calabria, in Repubblica.it.
Nave dei veleni un vaso di Pandora, in Nuova Cosenza.
Nave dei veleni, WWF chiede perizia sul video, in Nuova Cosenza.
Grasso: "Nessuna nave dei veleni" Ma restano dubbi e perplessità, in Repubblica.it.
Una nave e mille misteri, in L'Espresso.
«Le stive della nave erano piene di fusti» di Pablo Petrasso, p7 Calabria Ora del 6 novembre 2009
Il porto di Alang e il "giallo" della Cunsky (JPG), in Gazzetta del Sud.
Nave dei veleni, impegni del governo, in Nuova Cosenza.
Nave dei veleni. ferrovia bloccata a Cetraro, in Nuova Cosenza.
Nave dei veleni, l'allarme all'Ue. "Il pericolo va oltre la Calabria", in Repubblica.it.
Summit delle Regioni sulle navi dei veleni: “Il Governo bonifichi tutti i relitti nel Mediterraneo”. Ass. Greco “basta con i silenzi”, in Nuova Cosenza.
Nave dei veleni il 20 incontro con il Commissario della UE per l'ambiente, in Nuova Cosenza.
No alle scorie in Calabria, in Nuova Cosenza.
Navi dei veleni: spunta un altro pentito, in Antimafia Duemila.
Navi dei veleni, c'è un nuovo pentito "Parlò degli affondamenti già nel 2004", in Repubblica.it.
Navi a perdere - Il mare dei veleni, in Raitre.
VENERDI' 4 GIUGNO ALLE 21.10 ILARIA D'AMICO SU LA7 CON “EXIT FILES” E “LA SCORIA INFINITA”, in La7.it
Il mistero delle navi radioattive affondate, in video.mediaset.it.
Navi a perdere. Il mare dei veleni. Blu notte Puntata del 09/10/2009, su blunotte.rai.it.
- Carlo Lucarelli, Navi a perdere, NeroVerde, 2009, p136, ISBN 978-88-89014-84-4.
- Francesco Fonti, Io Francesco Fonti pentito di 'Ndrangheta e la mia nave dei veleni, Falco, 2009, p160, ISBN 978-88-89848-93-7.
- Massimo Clausi, Le navi dei veleni, Rubbettino, 2009, p160, ISBN 978-88-498-2553-4.
- Riccardo Bocca, Le navi della vergogna, BUR, 2010, p291, ISBN 88-17-04001-0.
- Andrea Palladino, Bandiera nera. Le navi dei veleni, manifestolibri, 2010, p128, ISBN 978-88-7285-604-8.
- Giuseppe Baldessarro, Manuela Iatì, Avvelenati, città del Sole edizioni, 2010, p328, ISBN 978-88-7351-345-2.
Links sul web
- Progetto in.fondo.al.mar, su infondoalmar.info.
- Comitato Civico Natale De Grazia... Per la verità sulla motonave Jolly Rosso, su comitatodegrazia.org.