Un partito come un altro

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Migliaia di navigator assunti per trovare lavoro a se stessi, esperti del Mississippi che viaggiano solo in prima classe, consulenti degli staff ministeriali raddoppiati o triplicati rispetto agli esecrati predecessori, famigerate auto blu che seguono i ministri in carovane degne di un sultano: chi l’avrebbe mai detto, i costi dell’antipolitica hanno superato quelli della politica.
L’unica “crescita” è stata la famelica attitudine alla ricerca di posti di sottogoverno, si guardi alle nomine negli enti pubblici o alla lottizzazione in RAI. Piuttosto, il Movimento 5 Stelle si è involuto lungo un percorso di potere, per quanto breve, non esitando, pur di mantenerlo, di passare da Salvini a Zingaretti, in una versione cinica dell’«uno vale uno» da declinarsi con un più veritiero «uno vale l’altro»: tutt’altro che un’evoluzione.

Ecco un ritratto fedelissimo dei “Grillini” realizzato con la tecnica del patchwork: una serie di ficcanti e impietosi articoli di giornale usciti negli ultimi tempi. Aiuta a capire bene che cosa sono diventati.

“ERANO BEI TEMPI”

(Mattia Feltri, La Stampa, 18 settembre 2020)

Ho fatto una cosa di cui mi vergogno molto: sono andato sul sito della Presidenza del Consiglio, alla voce voli di Stato. Volevo controllare. Ero come un grillino, forse avevo anche gli occhi iniettati di sangue. E compulsavo tutti questi voli di Stato di Luigi Di Maio («Dopo trent’anni vedremo cancellati i voli di Stato, anche così si è rivoluzionari», egli medesimo, 19 maggio 2018), a Bruxelles, a Istanbul, al Cairo, a Tunisi, a Berlino, a Belgrado, a Riad, a Sofia, a Parigi eccetera, e pensavo a quanto caspita ci costa questo benemerito alfiere della casta.
Poi sono andato su Google, ho scritto Di Maio e auto blu («Le auto blu sono il male assoluto, se mi vedete in auto blu linciatemi», egli medesimo, 21 marzo 2013), e c’era il blu dipinto di blu, Di Maio vestito di blu nell’auto blu, e dentro di me tambureggiava un urlo: onestà onestà.
E la sapete una bella? Di Maio ha uno staff personale, al ministero degli Esteri, da 710 mila euro l’anno (fra i suoi predecessori, Moavero 200mila, Gentiloni 468mila, Bonino 320mila).
Ero in preda all’istinto di aprire Di Maio come una scatoletta di tonno, ma poi, santo cielo, sono rinsavito. Mi sono detto: e come diavolo deve andare un povero ministro degli Esteri a Riad e Parigi? Coi low cost? Deve essere veloce, sicuro, agile negli spostamenti. E mi sono detto: e come diavolo si muove, se non con l’auto blu? Lo lasciamo alle grinfie del primo matto che passa? Quanto allo staff, che diamine, la politica costa! Così si fa, come ai bei tempi del pentapartito! A proposito: com’è quella che ripete ogni giorno, ministro? «Chi vota No sceglie la vecchia politica»? Coraggio, ancora un ultimo sforzo.

MINACCIA A CINQUE STELLE

(Christian Rocca, Linkiesta, 19 Dicembre 2019 – incipit)

I Cinquestelle sono una minaccia per l’Italia, un pericolo grave. Non contenti di aver fermato l’Ilva, salutando il dieci per cento del prodotto interno lordo del Sud, di aver ostacolato il collegamento ad alta velocità con l’Europa nord occidentale, di aver smantellato lo Sviluppo Economico inseguendo la decrescita felice, di aver promosso la nullafacenza di Stato a colpi di navigator e associati, di aver provato a consegnare le infrastrutture strategiche ai cinesi in cambio di una spremuta di arance rosse di Sicilia, di aver pensato di trasformare l’ENI in una start up a idrogeno, di aver picconato il sistema bancario e di altre decine di fesserie da analfabeti della crescita economica, ora i grillini si stanno concentrando su una delle poche cose, oltre a Milano — dove però vengono rimbalzati —, che funzionano molto bene: stanno provando a indebolire il commercio estero, un giocattolo che fa da solo un terzo del Prodotto Interno Lordo italiano.
Un partito che avrebbe dovuto aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno (sono scarsi pure nelle similitudini) ma che dopo un quarto d’ora ha indossato la grisaglia, si è fatto la messa in piega ed è finito a lottizzare lo Stato e la RAI e le società partecipate con amici, mezze figure e compagni di scuola, senza peraltro avere alcuna capacità o competenza o, per usare una parola che a loro piace molto, dignità nel fare le nomine e nel governare.

LA STORIA M5S SCRITTA DA UNA GRILLINA: Elena Fattori, vice presidente Commissione Agricoltura Senato.

(Testo integrale, corredato di opportune correzioni qua e là per ottimizzare una scrittura sintatticamente barcollante — Ndr)

Penso sarà l’ultima volta che scrivo sulle vicende interne del Movimento 5 Stelle. Non perché non mi interessi capire le logiche e gli orientamenti di un partito al governo, ma semplicemente perché il Movimento 5 Stelle, nel quale ho militato per 10 anni, sul programma del quale ho chiesto per varie volte la fiducia dei cittadini, non esiste più. O forse il Movimento 5 Stelle non è mai esistito ed è stato tutto un enorme inganno, uno dei più grandi e fulminei inganni della storia politica italiana.

Nato nel 2009 come aggregazione di istanze territoriali, con la carta di Firenze, e con il presunto obiettivo di incentivare il senso civico italiano con lo slogan “diventa sindaco del tuo metro quadro” in un periodo di profonda crisi economica e insoddisfazione ha effettivamente convogliato il senso di frustrazione degli italiani in obiettivi nobili (acqua, ambiente, trasporti, connettività e sviluppo), conditi da una profonda aspirazione a una politica nobile, di partecipazione e diffusa. Nel 2012 il movimento si rifonda ed entra in un Parlamento che si propone di aprire come una scatola di tonno e illuminare tutto quello che vi accade per portarlo all’attenzione dei cittadini. Cittadini che, a loro volta, devono diventare attori protagonisti della politica del loro Paese. Infine nel 2017 diventa, con un nuovo statuto verticistico, un partito di governo con una “classe dirigente” autoproclamata senza nessun tipo di riconoscimento o legittimazione dal basso. Anzi, a ben vedere, la classe dirigente attuale del movimento, quella che occupa le poltrone di governo, probabilmente parzialmente sottesa a tutte le epoche dal 2009 in poi, ha una caratteristica: non ha mai avuto legittimazione territoriale od elettorale e proviene da zone dove i 5 Stelle non sono mai decollati. Una scalata interna tutta di potere e conoscenze che ha selettivamente escluso tutti coloro che reti territoriali ne avevano (da Pizzarotti a Fucci, sindaci apprezzatissimi dalla cittadinanza). Una classe dirigente, insomma, priva di ideali, programmi e visione, nonché di legami con la base. Base che, volente o nolente, a parte nei momenti elettorali, è fastidiosa nel chiedere interventi concreti sul territorio che magari cozzano con le logiche di potere. Una non-struttura ove si è venuta a selezionare in maniera darwiniana un’oligarchia feroce e stalinista che non esita a epurare chiunque, singolo o gruppo, tenti di legarla a degli impegni precisi. Una dote trasformistica che spesso sento, dagli stessi oligarchi, chiamare “resilienza”, ma che in realtà ricorda molto un racconto della serie del commissario Montalbano intitolato “La forma dell’acqua”.
Si passa così dallo streaming con Bersani agli stati generali con i grandi imprenditori e le élite europee, a porte chiuse, a Villa Pamphili. Dalla raccolta firme per l’acqua pubblica del 2012 e dai proclami di lotta all’evasione fiscale nonché dalla donazione degli stipendi parlamentari al fondo di garanzia per le piccole e medie imprese, al Piano Colao che propone i beni pubblici a garanzia di prestiti bancari per le grandi imprese, l’ulteriore privatizzazione dell’acqua, e il condono per i grandi capitali non dichiarati in contanti.

Nato da un comico e da un imprenditore e da vari ideologi scaricati poi nel corso degli anni a seconda della convenienza del momento, evidentemente aveva come nucleo centrale della faccenda l’apparenza e la “recita” convincente per un obiettivo: il potere per il potere. D’altronde negli anni, dal bilancio per i gruppi parlamentari si sono investite cifre enormi per il gruppo comunicazione, spesso uguali o maggiori di quelle assegnate al gruppo legislativo, e la comunicazione ha avuto sempre un ruolo centrale nel costruire personaggi e vestire e limare contenuti con l’obiettivo di tenere insieme anime diverse. Tutto questo al grido del mantra motivazionale «rimaniamo uniti, il nemico è fuori». O le raccomandazioni del capo comunicazione di turno di dire alle brutte, se non si hanno risposte, «noi siamo onesti», che comunicativamente spacca.
Il movimento, alle elezioni del parlamento nel 2018, ha ottenuto un credito di fiducia enorme, proveniente da ogni settore ideologico, dall’estrema sinistra all’estrema destra, con una capacità di marketing politico eccezionale. Se devo indicare un vincitore delle elezioni politiche del 2018 non posso che pensare a Rocco Casalino. So che molti storceranno il naso, ma la comunicazione è un’arma potentissima.
Detto questo, una volta raggiunto il potere, conquistata la capacità di fare nomine nei luoghi che contano, decidere nella legge di stabilità dove convogliare i flussi di denaro, piazzare gli ex-compagni di scuola in ogni dove nei vari ministeri, è ovvio che un’oligarchia non abbia intenzione di mettersi in discussione. Men che meno per motivi “ideali” — visto che al suo interno ne albergano di ogni genere e non resta che scegliere quello più consono alla scalata del momento.

E veniamo alle battaglie nel Movimento per la cosiddetta leadership. A parte [il fatto] che il termine leadership era una bestemmia per un movimento che proponeva la democrazia dal basso, va da sé che in un sistema darwiniano la leadership si ottenga semplicemente facendo morti e feriti con tatticismi ad hoc. Messa nel cassetto la pretesa ideale, da “giorno della marmotta”, come dice Beppe [Grillo] rivolto ad Alessandro Di Battista, di essere stati un gruppo politico e non il cast di uno spettacolo ove gli attori cambiano copione e travestimento a seconda dei gusti del pubblico a cui devono vendere i biglietti, è chiaro che le varie “anime” messe insieme per raccattare consensi da ogni ambito di insoddisfazione si dividano. C’è tutta la parte complottista che girava attorno a vari blogger di tendenza (uno è stato pure responsabile dell’ufficio comunicazione Senato) alla quale era stata data una grande sponda in termini di idee no-vax, complotti mondiali di vario genere, scie chimiche, Soros, Bilderberg. Questa parte si è raccolta attorno al movimento R2020 capeggiato da Barillari (candidato presidente della regione Lazio nel 2013, mica uno qualunque) e Sara Cunial, esclusa e poi ripescata nelle liste venete per la Camera dei Deputati. C’è una parte che afferiva agli ideali identitari e sovranisti antieuropeisti che afferisce a Alessandro Di Battista e Paragone. C’è un gruppo proveniente dalla sinistra dei beni comuni, dell’universalismo e dei diritti civili. Infine ci sono le associazioni che si sono avvicinate al movimento per temi territoriali specifici (No Tav, No Muos, No Ilva, Acqua pubblica) che sono quelli immediatamente bastonati e sacrificati sull’altare della governabilità “per il bene degli italiani”. Che poi non si capisce quale sia questo bene, visto che siamo tutti italiani e abbiamo idee di “bene” diverse.
Ora, è vero che l’uscita di Dibba, che chiede gli Stati Generali di un movimento che non esiste più, è fuori dal tempo. Un movimento che non doveva avere capi politici che si trova con un capo politico pro-tempore, già scaduto da mesi secondo statuto che tuttavia, essendo anche sottosegretario e anche membro del comitato di appello, si è prorogato da solo impegnandosi a espellere chi pensa possa mettere in pericolo il governo di cui fa parte e rifiuta i ricorsi di chi contesta l’espulsione, in veste di decisore del comitato d’appello. Un concentrato di disonestà intellettuale, abusivismo politico e interferenza tra poteri dello Stato che poco ha a che far con la democrazia rappresentativa, figuriamoci con la democrazia diretta.
Non ha nessuna speranza chiunque voglia aspirare a cariche in una oligarchia di governo: può solo prendersi sonore sberle e sberleffi, come è successo ad Alessandro Di Battista.
L’oligarchia non ha interesse a presidi territoriali né a consensi diffusi. Poco aspira, se non come immagine, a impelagarsi nelle questioni regionali, anche perché non ha, tra i fedelissimi, persone adatte ad amministrare. Non esiste una classe dirigente degna di questo nome. Basta quel 10-14% di consensi nazionali ottenuti sulla scia di campagne pubblicitarie efficaci di marketing politico, che consentano di volta in volta di fare, come dicono loro, «l’ago della bilancia del governo». O, come dico io, i “Casini” (nel senso di Pierferdinando) della situazione rimanendo immarcescibili infilati in ogni luogo di potere — adattandosi, come l’acqua, alla forma del recipiente che li conterrà nei luoghi che contano.

“DAL MES AI VITALIZI, LA TRAGEDIA CIVILE E MORALE DEL GOVERNO CONTE”

(Christian Rocca, Linkiesta, 29 Giugno 2020)

Quando gli fecero notare che il Parlamento era pieno di cretini, Winston Churchill rispose «meno male, questa è la prova che siamo una democrazia rappresentativa». Non so se la citazione sia esatta o solo una boutade che amava ripetere Francesco Cossiga, ma se Churchill avesse visto come sono ridotti i Parlamenti nostrani difficilmente avrebbe trovato il modo di fare una battuta di spirito, tanto più che a leggere i giornali e le bacheche social di questa epoca siamo a un passo dal considerarlo un indegno farabutto, lui che è stato l’eroe della resistenza al nazifascismo, e addirittura vicinissimi all’erigere statue equestri al Professor Avvocato Giuseppe Conte di Volturara Appula.
La patetica manfrina sui soldi del Meccanismo Europeo di Stabilità, ovvero l’insensato rifiuto di usare trentasei miliardi europei a costo quasi zero per ricostruire il sistema sanitario nazionale, è un esempio del tempo in cui viviamo.
Il premier Conte preferisce un prestito dai mercati finanziari a un tasso elevato, facendoci spendere molti più soldi da far pagare alle prossime generazioni, e predilige avere come creditore non un meccanismo europeo di cui l’Italia è il terzo investitore ma i fondi speculativi internazionali. In un Paese normale, dotato di un sistema informativo non supino, tutto questo sarebbe materia di procedura di impeachment, se non di infermità mentale, anche perché la scelta di Conte è motivata dal non voler infastidire nientedimeno che Vito Crimi e Alessandro Di Battista e dal non voler cedere la bandiera populista all’opposizione di Matteo Salvini e Giorgia Meloni.
Tutto questo mentre l’Economist, nella sua ultima copertina, avverte gli Stati, i governi e le organizzazioni internazionali a non farsi trovare impreparati di fronte alle prossime catastrofi virali. I soldi del MES servono esattamente a questo, a non farci trovare impreparati quando ci sarà un’altra emergenza sanitaria, ma Conte dice che deve ancora pensarci, rimanda a settembre e, nonostante le task force e gli stati generali, non ha ancora nessun piano d’azione che vada oltre l’aggiustarsi la pochette in favore di telecamera del TG della sera.
Poi c’è la questione dei vitalizi, altra scemenza senza eguali che monopolizza il dibattito pubblico italiano e sancisce l’egemonia culturale dei babbei a cinque stelle anche sul Partito Democratico.
I vitalizi sono stati aboliti nel 2012 dal governo Monti e di conseguenza, dalla legislatura del 2013, nessun parlamentare della Repubblica, una volta raggiunti i sessant’anni di età, riceverà l’assegno mensile che era stato istituito nel 1968.
I Cinquestelle, però, non si sono accontentati di questo successo dettato dal risentimento contro la politica e nel 2018, conquistata la Camera dei Deputati, con un colpo di mano sui regolamenti hanno imposto il ricalcolo retroattivo, punitivo e palesemente incostituzionale per gli ex parlamentari in pensione, ovvero per circa duemila e cinquecento persone, perlopiù ottantenni e novantenni o relativi congiunti rimasti vedovi, per un risparmio complessivo per le casse dello Stato di 80 milioni l’anno, ovvero meno dello 0,01 per cento della spesa pubblica italiana.
Se l’Italia accederà al MES e prenderà i 36 miliardi messi a disposizione del nostro Paese, nel 2030 dovrà restituire 36 miliardi e 500 milioni di euro. Se dovessimo invece chiedere quei soldi sul mercato, come sostengono Conte e i populisti di governo e di opposizione impegnati in questi giorni a togliere a duemila anziani un assegno vitalizio, dopo dieci anni dovremmo restituire 43 miliardi, oltre sei miliardi in più rispetto a quanto ci costerebbe il prestito del MES.
Ricapitoliamo: Conte non ha nessun piano per rendere efficiente il sistema sanitario e proteggere gli italiani da una nuova pandemia e se ce l’avesse vorrebbe farci spendere sei miliardi in più di interessi da far pagare tra dieci anni ai nostri figli, mentre la sua maggioranza si batte per far morire di fame duemila vecchietti, per risparmiare ottanta milioni l’anno e per alimentare il rancore contro le istituzioni. Eccola, la fotografia della tragedia civile e morale dell’Italia 2020.

LA SEMPLIFICAZIONE BIZANTINA

Il professor Sabino Cassese ha sbertucciato in più occasioni il “decreto semplificazioni” del Governo come un esercizio di centralismo regolatorio, frutto di un’idea tanto ignorante, quanto miracolistica dell’efficienza amministrativa.
L’illusione di sveltire pensieri e azioni della Pubblica Amministrazione concentrandoli in capo ad autorità onnipotenti sulla carta e impotenti nella pratica non è nuova e contraddice tutte le indicazioni che gli studiosi predicano inutilmente da decenni: delegificare, decentrare, disincentivare l’omissione “difensiva”, privilegiare i controlli ex post, evitare deroghe e logiche d’emergenza.
Nell’Italia populista invece “semplificare” non significa migliorare il sistema regolatorio e i processi amministrativi, ma inaugurare universi paralleli di decisioni discrezionali e di poteri eccezionali. E a poteri eccezionali devono corrispondere sempre opere eccezionali, cioè opere ordinarie passate burocraticamente di grado, per fuoriuscire dalla normalità e maturare un rango superiore e speciale.
Ci si balocca così con il “modello Genova”, come se la vicenda del Ponte Morandi fosse equivalente a qualunque altra e replicabile in qualunque contesto, anche per il rifacimento del tetto di una caserma e dei bagni di una scuola. Questa perenne rincorsa tra iper-regolamentazione e deroghe ad hoc, tra moltiplicazione di istanze e autorità di controllo e instaurazione di regimi e poteri super-discrezionali, è la manifestazione di una vera e propria dissociazione mentale tra il dovere di fare qualcosa e la retorica del non fare nulla, come prevenzione della “mangiatoia”.
La politica populista deve perennemente stare in bilico tra questo racconto e gli oneri della realtà, rimanendo tributaria della retorica anti-casta e nello stesso tempo fedele all’idea che la buona politica sia un prodotto di politici buoni e “onesti”, non di regole efficienti, di processi trasparenti e di istituzioni funzionanti.
Detto in altri termini, questo “decreto semplificazioni”, in cui proprio i Cinquestelle sono stati i propugnatori delle deroghe più forti e pericolose alla normativa sugli appalti, è un prodotto del “Di Battista pensiero”, per cui ogni opera pubblica è un furto – e quindi la Raggi è una santa perché ha portato Roma al degrado non facendo e non facendo fare nulla – tranne quelle controllate personalmente dai veri rappresentanti del popolo, cioè da quelli “onesti” come lui.
Eppure, l’ideologia parassitaria e poveraccista che sta dietro questo metodo ha già ricevuto una clamorosa smentita dal modo in cui l’Italia (non) ha gestito l’emergenza Covid. Proprio la struttura commissariale di Arcuri dimostra quanto sia vana l’illusione di migliorare tempi, qualità e risultati dell’azione amministrativa decretando la dittatura di un manager coi pieni poteri, i cui «provvedimenti possono essere adottati in deroga a ogni disposizione vigente», come recita stentoreamente la norma istitutiva della figura del super-commissario.
Il fallimento clamoroso di Arcuri, la cui inanità è stata pari solo all’arroganza, sta lì a dimostrarlo. A distanza di mesi dall’istituzione di quella struttura che può fare quello che vuole e come vuole, le armi per combattere il potenziale ritorno in grande stile della pandemia sono una app, Immuni, che non ha scaricato praticamente nessuno e un sistema di trattamento che non garantisce affatto a chi ha avuto contatti con persone positive di essere sottoposto al tampone in tempi ragionevoli e di non essere costretto a settimane di isolamento domiciliare. Per non parlare dei presidi medici essenziali, a partire dalle mascherine, che hanno iniziato a essere disponibili non durante, ma alla fine dell’emergenza di marzo-aprile 2020.
Non è dunque un caso, ma una coincidenza molto significativa che il Governo abbia varato il “decreto semplificazioni” nelle stesse ore in cui promuoveva Arcuri a super-commissario della scuola italiana e a onnipotente guardiano della salute di docenti e studenti.

Meno annunci e più provvedimenti attuativi, magari (9 Luglio 2020)

Dal decreto-hashtag #Iorestoacasa al Cura Italia fino al Decreto Rilancio, non si contano più i provvedimenti approvati da Palazzo Chigi prima per contenere l’emergenza sanitaria Covid-19 e poi per rilanciare l’economia del Paese. E a ogni conferenza in cui il premier Giuseppe Conte annunciava questo o quel decreto, i toni ovviamente diventavano altisonanti.
«Nessuno deve sentirsi abbandonato. È stato questo il nostro obiettivo fin dall’inizio e oggi questa approvazione del DL lo dimostra», diceva il 16 marzo presentando il Cura Italia. «Vi posso assicurare che ogni ora di lavoro pesava perché sapevamo di dover intervenire quanto prima», spiegava invece esattamente due mesi dopo (il 16 maggio) annunciando il Decreto Rilancio. Eppure quell’impegno a «intervenire quanto prima» è sfumato.
Non sono poche le norme contenute nei vari decreti legge rimaste lettera morta perché mancano i provvedimenti attuativi. Gran parte delle misure partorite dal governo, infatti, per entrare effettivamente in azione, ha bisogno di tali provvedimenti che rappresentano una sorta di “secondo tempo delle leggi”: quel momento dell’iter legislativo, cioè, in cui dal Parlamento l’attenzione si sposta ai ministeri che hanno l’onere di rendere esecutive le norme che, altrimenti, resterebbero valide solo su carta.
Esattamente come accaduto per le norme “anti-covid”: secondo quanto emerge dalla banca dati dell’Ufficio per il programma di governo (che, tra le altre cose, fa capo proprio a Palazzo Chigi), se si tiene conto dei vari DL emanati per il Coronavirus negli ultimi mesi, erano previsti un totale di 143 provvedimenti attuativi, ma ne mancano all’appello ancora 105.
Partiamo proprio dal Cura Italia: su 34 totali, risultano ancora da adottare 17 provvedimenti. C’è da capire, ad esempio, come verranno utilizzati i 50 milioni previsti per il «Fondo per le esigenze emergenziali del sistema dell’Università, delle istituzioni di alta formazione artistica musicale e coreutica e degli enti di ricerca»: mai adottati i criteri di riparto.
Esattamente come non risultano adottati i criteri – di cui deve occuparsi il ministero dell’Economia – per la concessione di garanzie di prima perdita ai portafogli delle banche che offrono finanziamenti alle imprese colpite dall’emergenza sanitaria. Forse, chissà, anche per la mancanza di questo provvedimento (che darebbe maggiori tutele agli istituti finanziari) le stesse imprese «sempre nei pensieri di questo governo» oggi soffrono.
In capo al MEF, però, c’è anche un altro provvedimento, quello che dovrebbe stabilire la forma della tanto blasonata “menzione” per i contribuenti che non si avvalgono della sospensione di tasse e tributi: nonostante se ne sia parlato a lungo nei mesi scorsi, anche qui è tutto fermo. E ferme risultano anche le modalità per assegnare fondi e agevolazioni speciali (come i mutui a tasso zero) al settore ittico, agrario o ancora a quello dell’aviazione.

E se il Cura Italia pare curare molto poco, non va meglio spostandoci sugli altri decreti. A cominciare dal DL Liquidità, pensato proprio per dare credito alle imprese in un momento di profonda difficoltà. Uno degli aiuti più poderosi a riguardo è la garanzia di Sace (la partecipata di Cassa Depositi e Prestiti che si occupa dell’ambito assicurativo) alle banche fino a 200 miliardi per «finanziamenti sotto qualsiasi forma concessi alle imprese con sede in Italia».
Dopo oltre un mese le «modalità per il rilascio» di tali garanzie ancora non risultano stabilite. C’è da sorprendersi? Probabilmente no: su 8 provvedimenti attuativi complessivi previsti, neanche uno risulta adottato. Stesso discorso anche sul fronte istruzione: il decreto annunciato in pompa magna da Conte insieme al ministro Lucia Azzolina il 6 giugno scorso «sulla regolare conclusione e ordinato avvio dell’anno scolastico e sullo svolgimento dell’esame di Stato» manca di 7 provvedimenti su 11 complessivi.
E così, per dire, anche questioni che sembrerebbero piuttosto banali restano per ora sospese, come ad esempio la «definizione delle modalità con cui la valutazione finale degli apprendimenti degli alunni delle classi della scuola primaria viene espressa attraverso un giudizio descrittivo». Vedremo cosa si inventeranno le docenti.
Il non plus ultra, però, arriva col Decreto Rilancio. Le tabelle di Palazzo Chigi a riguardo sono chiare: su 87 provvedimenti previsti, 73 sono da adottare ma nel frattempo per 20 di questi i termini sono già scaduti. E così, ad esempio, sembrerebbe sfumata la ripartizione del fondo per il ristoro parziale dei Comuni, «a fronte delle minori entrate derivanti dalla mancata riscossione dell’imposta di soggiorno o del contributo di sbarco»: la norma doveva essere adottata entro il 18 giugno.
Ergo: il fondo resterà fermo finché non interverrà un nuovo decreto per decidere come assegnare tali risorse. Con ulteriori perdite di tempo. Anche qui, però, non c’è da sorprendersi: lo stesso giorno è scaduto tra gli altri anche il termine per provvedere alle modalità di assegnazione di un altro fondo non secondario, quello «per la promozione del turismo».
Siccome poi non c’è fine al peggio, la iper-produzione di decreti dell’ultimo periodo ha fatto sì che la macchina amministrativa si sia ingolfata. E così, al fianco di quelli Covid, resta la mole di tutti gli altri provvedimenti previsti dalle leggi approvate nei mesi scorsi: solo il Conte II ha un deficit di ben 358 atti mancanti, che si sommano ai 186 del Conte I, ai 211 risalenti al governo Gentiloni, ai 119 di epoca renziana e agli 11 che ancora avanzano dall’era Letta. Totale: un fardello di 885 provvedimenti da adottare e che, verosimilmente, tutti non verranno mai approvati.
Quel che sembra, dunque, è che al di là degli annunci, più di qualcosa si sia perso per strada. E i fondi promossi e promessi, sono rimasti nel cassetto. Anche a Palazzo Chigi. Per quanto previsto dal decreto Cura Italia, proprio la presidenza del Consiglio avrebbe dovuto occuparsi dell’istituzione di un Fondo per il 2020 «per l’adozione di misure di solidarietà per i familiari del personale medico, infermieristico e socio-sanitario, che abbiano contratto, in conseguenza dell’attività di servizio prestata, una patologia alla quale sia conseguita la morte per Covid-19».
Un impegno nobile. Il cui provvedimento non è mai stato adottato. Gli “eroi” possono aspettare.

PARANOIA ANTITECNOLOGICA E ANTISCIENTIFICA

Roma, 9 Luglio 2020. Mentre si moltiplicano lungo la penisola sindaci e consiglieri comunali del Partito Democratico pronti a cavalcare anche l’ultima campagna populista, allarmista e antiscientifica (in una parola: grillina) contro le antenne del 5G, in parlamento scarseggiano gli esponenti del PD disposti a prendere posizione contro i lager libici e i loro organizzatori (per gli amici: guardia costiera libica) di cui due giorni fa il Senato ha votato compatto il rifinanziamento.
Solo tre i democratici che hanno votato contro: Vincenzo D’Arienzo, Valeria Valente e Francesco Verducci. E questo nonostante l’Assemblea nazionale del PD a febbraio avesse votato all’unanimità un ordine del giorno che impegnava il partito a fare l’esatto contrario, riscrivendo i termini dell’accordo Italia-Libia, svuotando i lager e troncando i rapporti con la cosiddetta guardia costiera. Per chi fosse interessato, il testo integrale è ancora leggibile sul sito del partito, sotto l’inequivoco titolo: «L’Assemblea nazionale PD approva all’unanimità l’odg sulla Libia».
In compenso, quando si tratta di battersi contro le scie elettromagnetiche dei telefonini, non mancano al PD gli amministratori pronti a sospendere l’installazione delle antenne «per tutelare la salute» di tutti perché, come ha detto il sindaco di Reggio Calabria, Giuseppe Falcomatà, «a oggi non esistono certezze rispetto agli effetti che questa nuova tecnologia ha sulle persone».
Né mancano, laddove all’opposizione, interi gruppi consiliari pronti a chiedere alla giunta di fare altrettanto, come avvenuto a La Spezia, con un’interpellanza motivata dai «numerosi esposti effettuati alle procure italiane che richiedono l’apertura di indagini sui pericoli per la salute provocati dalla rete 5G».

È una deriva che non lascia presagire nulla di buono per il futuro, ma fornisce un istruttivo contrappunto alle parole di Giuseppe Conte sui suoi grandiosi progetti di digitalizzazione dell’Italia, per non parlare dell’Alta velocità dalle Alpi alla Sicilia e di tutti gli immaginifici investimenti in infrastrutture con cui il suo governo spera di convincere l’Unione Europea, dimenticandosi di convincere prima i propri sindaci, parlamentari, consiglieri comunali e presidenti di regione.
La scelta del PD di ricandidare Michele Emiliano in Puglia, da questo punto di vista, appare più che una garanzia. Ma forse ancora più significativo è il comunicato in cui i consiglieri del PD di Ragusa, all’opposizione, dànno atto alla giunta (Fratelli d’Italia) di avere raccolto le loro sollecitazioni, bloccando le perfide antenne.
Dalla Liguria alla Sicilia, dall’ultimo comune della Toscana all’aula del Senato, che si tratti di lottare contro il 5G o di finanziare i lager libici, sembra delinearsi sempre più spesso una maggioranza larghissima, che va da Fratelli d’Italia al Partito Democratico, passando per Lega e Movimento 5 stelle.
Viene dunque da domandarsi se una simile mutazione sia ormai inarrestabile.
Se tra i principi condivisi della nostra classe dirigente dovremo abituarci a considerare l’uso politico della paranoia antitecnologica e antiscientifica, le campagne di odio e le pulsioni securitarie, in un micidiale miscuglio di fanatismo moralizzatore e relativismo etico capace d’indignarsi per i vitalizi degli ex parlamentari e al tempo stesso di esternalizzare il contenimento dell’immigrazione a miliziani, trafficanti e torturatori di ogni genere, senza che nessuna autorità politica o morale senta il bisogno di dire una parola (l’unico è stato Papa Francesco, che ha parlato delle violenze atroci che avvengono nei lager libici e delle quali a noi arriva solo una versione «distillata»).
O se in un futuro non troppo lontano – magari dopo le elezioni regionali di settembre, o dopo le elezioni americane di novembre – torneremo in noi stessi e guarderemo a tutto questo con lo stesso sgomento con cui oggi leggiamo i discorsi dei promotori della pace di Monaco.
Certo è che l’ora è buia davvero, e di Churchill in giro se ne vedono pochi.

“UNO VALE ZERO. LA VERA TRUFFA DEI PARTITI DIGITALI È LA LORO DEMOCRAZIA A LIBERTÀ LIMITATA”

(Paolo Gerbaudo, 11 Settembre 2020)

La democrazia online nei partiti digitali è fortemente controllata dall’alto e gli iscritti sono spesso relegati a un ruolo puramente reattivo.
Le forme di democrazia rappresentativa e plebiscitaria hanno un peso più rilevante rispetto alle forme partecipative. Le votazioni, che per loro natura implicano la scelta tra un numero limitato di opzioni, prevalgono quasi sempre rispetto alla discussione aperta che consente ai partecipanti di definire anche qualitativamente il contenuto delle proposte.
Se da un lato è vero che sono state sperimentate forme di deliberazione online, dall’altro è anche vero che queste pratiche sono incapaci di riequilibrare un processo decisamente sbilanciato in favore della leadership e dello staff di questi partiti, che rimangono responsabili della selezione e della formulazione dei contributi degli iscritti.
Le proposte inoltrate dalla base attraverso le funzioni Lex di Rousseau possono essere scartate dai vertici pentastellati qualora le ritengano non in linea con i valori o la strategia del movimento.
Per quanto concerne Podemos, l’esistenza di una procedura vincolante (l’Icp) per il vaglio delle proposte provenienti dagli iscritti di per sé non può nulla di fronte all’elevata soglia di sbarramento (il 10%) prevista per la loro approvazione.
I referendum online si sono dunque rilevati poco più di una ratifica di decisioni già prese dalla leadership. Nel caso del Movimento 5 Stelle solo in due occasioni ci sono state “ribellioni” da parte della base: la prima in coincidenza della consultazione sull’abrogazione del reato di immigrazione clandestina; la seconda circa un referendum indetto per decidere se una delegazione del Movimento avrebbe dovuto incontrare Matteo Renzi durante le consultazioni per la formazione del suo esecutivo.
In entrambe le circostanze i membri si sono espressi contro la posizione esplicitamente sostenuta da Grillo e da Casaleggio, con una maggioranza del 63% nella prima votazione e del 50,5% nella seconda. Si tratta, però, di occasioni più uniche che rare, a conferma di come, in linea generale, i referendum online tendono a confermare la volontà della leadership.
Secondo Davide Bono, ex consigliere regionale piemontese del Movimento 5 Stelle nonché collaboratore del team impegnato nella gestione della piattaforma Rousseau, gli iscritti si allineano spesso alle decisioni prese dalla leadership in quanto «il movimento ha una forte identità collettiva».

Tuttavia, è evidente che questa situazione è anche il risultato dell’influenza esercitata dalla leadership sulla membership mediante diversi mezzi, come la scelta del momento in cui tenere le consultazioni, a volte annunciate a sorpresa e con un breve lasso di tempo a disposizione degli iscritti per votare; il modo in cui sono formulati i quesiti, al fine di influenzare il voto; e le campagne di opinione promosse dai vertici prima dell’apertura delle votazioni.
Simili accuse di chiusura e controllo sul processo si sono viste in altri partiti digitali, in occasione di vari appuntamenti elettorali, ad esempio nella polemica sull’uso di liste chiuse da parte di Podemos.
Questi risultati evidenziano che, sebbene i partiti digitali abbiano costantemente sbandierato l’introduzione di nuove forme di democrazia diretta e una maggiore sensibilità nei confronti dei membri, la pratica è alquanto contraddittoria.
La democrazia digitale di questi partiti è decisamente controllata dall’alto. Le votazioni hanno avuto la meglio sul dibattito e la leadership ha continuato a mantenere una salda presa sulla gestione delle consultazioni, mentre la base raramente ha dimostrato di godere di autonomia decisionale.
Questa situazione porta Davros David Puente a essere molto pessimista rispetto a una forma di democrazia in cui «si esprime un voto su qualcosa che è già stato deciso da altri». Siamo di fronte così non a una democrazia diretta, ma a quella che Nadia Urbinati [2013, 18] ha definito «democrazia rappresentativa diretta».
In questo contesto la democrazia salta tutte le mediazioni «ma senza alcun controllo sulle forme di questo raccordo, senza alcuna certezza procedurale che esso sia realizzato secondo regole che danno ai cittadini un potere censorio non aleatorio o invece secondo il ruolo preminente degli animatori in rete o, come nel caso del M5S, dei proprietari privati del blog» [ibidem].
Di fronte a quello che appare come un tradimento della promessa di democratizzazione avanzata inizialmente da questi partiti, non dovrebbe sorprendere che vi sia stato un calo significativo della partecipazione alle consultazioni online in diversi partiti qui analizzati. Nel caso del Movimento 5 Stelle, ad esempio, mentre nel 2012 l’affluenza media alle consultazioni online è stata del 60%, nel 2017 è scesa al 14% [Mosca 2018].
Sebbene Podemos non abbia registrato un calo così significativo, la partecipazione alle votazioni online è apparsa spesso deludente e non in linea con la crescita costante degli iscritti al partito.

Le leadership di queste formazioni politiche dovrebbero riflettere su questa tendenza alla scarsa partecipazione. E, soprattutto, dovrebbero farlo perché uno dei modi in cui la base esprime il suo scontento è «disperdendosi o rimanendo passiva di fronte a talune iniziative» [Gramsci 1975, vol. III, 1630].
È ovvio che se i membri si rendono conto che il loro voto non conta perché le decisioni sono già state prese a porte chiuse allora smetteranno di partecipare. In tale fase di delusione è urgente ripensare in modo più realistico che cosa possa essere effettivamente ottenuto con la democrazia digitale ed elaborare meccanismi chiari e trasparenti di controllo dei membri sul processo decisionale per evitare interferenze che distorcano i risultati delle votazioni.

“LA RIFORMA A CASACCIO
Il referendum è il punto di arrivo di una vecchia e balorda campagna anti casta arrivata agli sgoccioli”

(Francesco Cundari, Linkiesta, 16 Settembre 2020)

La storia della riforma costituzionale – chiamiamola così, per pigrizia e per brevità – su cui saremo chiamati a pronunciarci il 20 settembre con referendum confermativo è quanto di più incredibile la politica italiana abbia prodotto negli ultimi anni. Un taglio a casaccio del numero dei parlamentari portato avanti dal Movimento 5 Stelle per ragioni di propaganda, votato inizialmente anche dalla Lega per accontentare l’allora alleato di governo, poi pure dal PD per la stessa ragione, e da tutti gli altri per non farsi scavalcare sul terreno dell’antiparlamentarismo (non per niente Fratelli d’Italia, che su questo terreno può vantare solide radici storiche, ha rivendicato di averlo votato tutte e quattro le volte, pur stando sempre all’opposizione).
Si dice che tutti i tentativi di riforma precedenti abbiano sempre contemplato un taglio dei parlamentari, ed è un classico caso in cui una mezza verità equivale a una bugia e mezza. Il nostro problema, com’è stranoto, non è che abbiamo troppi parlamentari, ma che abbiamo troppi parlamentari che fanno le stesse cose, o peggio, che fanno, disfano e rifanno le stesse leggi, nell’interminabile viavai tra la Camera e il Senato. Ed è proprio questo, infatti, il problema su cui tutti i precedenti tentativi di riforma costituzionale si erano concentrati: il bicameralismo perfetto, paritario o ripetitivo che dir si voglia. Perché è questo che rallenta, complica, rende più opaco e permeabile il processo legislativo.
Un problema che, con ogni evidenza, non è neppure sfiorato dal puro e semplice taglio lineare di un certo numero di parlamentari. Anzi, è ragionevole pensare che tra gli altri effetti negativi – indebolimento di tutti i meccanismi posti a difesa della divisione dei poteri, squilibrio della rappresentanza territoriale, disfunzionalità operativa di entrambe le Camere – il taglio avrà anche quello di consolidare, aggravandolo, quell’antichissimo problema. […] Le concrete conseguenze della riforma non hanno niente a che vedere con il motivo per cui è stata promossa da chi l’ha promossa né con le ragioni per cui è apprezzata dai molti che la apprezzano […] è semplicemente il desiderio di dare uno schiaffo alla politica e al Parlamento. O davvero credete che se il taglio riguardasse 300 deputati anziché 230, e 200 senatori anziché 115, qualcuno dei suoi sostenitori direbbe che no, così non funziona più, allora non va bene? È evidente che 200, 220 o 340 fa lo stesso.
Per i sostenitori del Sì il numero dei parlamentari è come quello degli sbarchi per i sostenitori di Matteo Salvini: è troppo alto per definizione, a prescindere, qualunque esso sia. E l’unica ragione per cui i sostenitori del taglio possono eventualmente annoiarsi a leggere quanti sono attualmente i parlamentari in Italia, in quale proporzione rispetto alla popolazione e come stiano le cose altrove, è esclusivamente per avere un argomento a difesa della propria tesi. Argomento che per inciso non troverebbero, essendo l’Italia, per parlamentari in rapporto alla popolazione, al ventiduesimo posto su ventisette paesi UE, ventitreesimo su ventotto contando ancora la Gran Bretagna, come mostra la tabella gentilmente fornita dal Dipartimento riforme istituzionali di Palazzo Chigi giusto nella pagina in cui illustra le ragioni della riforma (consultabile all’indirizzo www.riformeistituzionali.gov.it).

Ma non è questo il punto, ovviamente. O almeno non dovrebbe esserlo, se non avessimo perso del tutto il senso delle priorità (oltre che del decoro). Il punto è che dopo una vittoria del Sì – come ha candidamente riconosciuto lo stesso Goffredo Bettini in un’intervista a Repubblica del 1° agosto – l’intero equilibrio di pesi e contrappesi garantito dalla Costituzione, secondo cui sono necessarie maggioranze qualificate per eleggere il Presidente della Repubblica, i membri della Consulta, del CSM e delle Authority, nonché per modificare la stessa Costituzione, sarebbe a rischio.
Di fatto, dipenderebbe dalla legge elettorale. E basterebbe davvero poco perché la disproporzionalità prodotta dal sistema di voto, da un eventuale premio di maggioranza, dalla torsione maggioritaria implicita nella riduzione dei seggi – da una qualunque combinazione di questi fattori, appositamente ricercata dalla maggioranza di turno o anche frutto del caso – consegnasse al vincitore delle elezioni quei famosi “pieni poteri” da cui l’attuale governo avrebbe dovuto metterci al riparo.

Ecco quale dovrebbe essere l’oggetto del dibattito, se stessimo al merito della questione. Ma non ci stiamo, lo so. Perché il referendum di oggi [20/21 settembre 2020, ndr] è il punto di arrivo di una lunghissima campagna, che ha avuto il suo ultimo e più forte punto di condensazione nel 2007 attorno al libro di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, “La casta”, che poi era a sua volta la raccolta di una serie di articoli usciti sul Corriere della Sera.
La campagna è divenuta presto martellante. Sui giornali, in tv, in libreria, non si è più scritto e parlato d’altro. Ne sono nati veri e propri generi e sottogeneri letterari, format televisivi, un partito politico tutto intero. E adesso persino una riforma della Costituzione. Se passasse, Stella e Rizzo meriterebbero di essere citati tra i padri costituenti, perlomeno a pari titolo di Luigi Di Maio.
Non hanno soltanto regalato la parola d’ordine della lotta contro “la casta” ai Cinquestelle e a tutti i populisti del pianeta (anche in Francia, per dire, Marine Le Pen se ne è subito appropriata). Molto di più. È grazie a loro che l’espressione «costi della politica», fino a quel momento raramente utilizzata, è diventata il tema dominante del dibattito pubblico. Un’affermazione che è già una vittoria, evidentemente. Una volta stabilito che la politica, il Parlamento, la democrazia sono un “costo”, per non dire uno spreco, è chiaro quale sia il passo successivo.

E così abbiamo passato gli ultimi anni a leggere sui giornali del prezzo del pesce al ristorante del Senato o del taglio di capelli dal barbiere della Camera, e abbiamo discusso seriamente di come e quanto fosse giusto tagliare o chiudere l’uno e l’altro (sono stati chiusi entrambi, per la cronaca). Il problema è che dall’auto blu, il barbiere e la spigola, com’era prevedibile, siamo passati a tagliare direttamente i seggi. Ma con lo stesso criterio e per la stessa ragione: lo sfregio. Come se non fosse già sfregio sufficiente averli riempiti di statisti del calibro di Danilo Toninelli e Laura Castelli. E allora lasciamo perdere il merito tecnico della questione, di cui si è già detto l’essenziale, e cioè che è una riforma dannosa dal punto di vista pratico e pericolosa dal punto di vista democratico.
Tralasciamo pure, per pietà e perché non abbiamo tempo da perdere, la questione dei “correttivi” che il Partito Democratico aveva giustamente invocato come condizione per votare la riforma, e che non ha ottenuto, pur avendola votata (saranno finiti nello stesso cassetto delle modifiche ai Decreti Sicurezza, chi lo sa). Restiamo sul terreno su cui ci hanno voluto portare i sostenitori della riforma: i costi della politica. Mettiamoli pure tutti in fila, questi fondamentali risparmi. Facciamo anche finta di non vedere il trucco, quando mettono nel conto dei risparmi il totale degli stipendi dei parlamentari, dimenticando di sottrarre la non piccola quota che ritorna allo Stato in tasse (è da questi particolari che si giudica un imbroglione, e loro non sono dei fuoriclasse nemmeno in questo).

Ma mettiamo anche, nell’altra colonna, i costi dell’antipolitica. E questi ce li abbiamo proprio sotto gli occhi, ogni giorno. Non parlo del costo delle migliaia di navigator assunti per trovare lavoro a se stessi, degli esperti del Mississippi che viaggiano solo in prima classe, dei consulenti e degli staff ministeriali raddoppiati o triplicati rispetto agli esecrati predecessori, delle famigerate auto blu che seguono i ministri in carovane degne di un sultano. Parlo semplicemente di ciò che è diventata la politica italiana, dal merito delle scelte compiute al linguaggio, al modo di esprimersi, alla cultura media dei suoi protagonisti. Parlo soprattutto del trasformismo – tradizione antica in cui ci siamo sempre distinti – che ha ormai polverizzato ogni record precedente.
Al punto che lo stesso presidente del Consiglio, con tutto il suo partito, può allearsi con il principale partito dell’opposizione e formare con esso un nuovo governo, in nome della necessità di impedire l’ascesa al potere di quelli con cui governava fino a un minuto prima. Se ve lo avessero raccontato qualche anno o anche qualche decennio fa – in quei tempi disgraziati in cui i parlamentari si potevano ancora tagliare i capelli gratis e pagare due soldi una spigola, e i loro leader si chiamavano Enrico Berlinguer, Aldo Moro, Ugo La Malfa – ci avreste creduto?

No.


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