Back, with the USSR

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La libertà di Internet è messa sempre più in pericolo dagli strumenti e dalle tattiche dell’autoritarismo digitale che si sono diffusi rapidamente in tutto il mondo. I regimi repressivi, gli eletti in carica con ambizioni autoritarie e i dirigenti di partito senza scrupoli hanno sfruttato gli spazi non regolamentati delle piattaforme di social media per convertirli in strumenti di distorsione politica e di controllo della società. Mentre i social media a volte sono serviti come facilitatori della discussione civica, ora si stanno inclinando pericolosamente verso l’illiberalismo, esponendo i cittadini a una repressione senza precedenti delle loro libertà fondamentali. Inoltre, una sorprendente varietà di Stati sta usando su vasta scala sofisticati strumenti per identificare e monitorare gli utenti. Il risultato di queste tendenze è che nel 2019 la libertà globale di Internet è diminuita per il nono anno consecutivo.

INTERNET STA AVVELENANDO LA DEMOCRAZIA?

Questa domanda circola con insistenza ma la risposta è un secco No. La verità è che gli “avvelenatori” sono sempre di più i social media (con in testa Facebook e Twitter). I quali consentono alle persone comuni, ai gruppi civici e ai giornalisti di raggiungere un vasto pubblico a costi bassi o nulli, ma hanno anche fornito una piattaforma estremamente utile ed economica alle operazioni di influenza maligna da parte di agenti stranieri e interni. I leader politici hanno impiegato sia individui che “bot” per influenzare segretamente le opinioni online in 38 dei 65 Paesi trattati nell’ultimo “rapporto sulla libertà del web” di Freedom House: un nuovo record. In molti Paesi, l’ascesa del populismo e dell’estremismo di estrema destra coincide con la crescita di gruppi online iperpoliticizzati che includono sia utenti autentici sia account fraudolenti o automatizzati. Questi gruppi costruiscono un vasto pubblico intorno a interessi simili, allacciano i messaggi politici a contenuti falsi o provocatori e ne coordinano la diffusione su più piattaforme.

Sono un problema sempre più comune anche le operazioni di ingerenza fuori dai confini nazionali: dopo l’ampia attenzione suscitata dall’interferenza russa sulle elezioni presidenziali USA del 2016, nel 2019 anche Cina, Iran, Arabia Saudita e un elenco crescente di altri Paesi hanno aumentato i loro sforzi per manipolare il dibattito online e per influenzare i risultati politici stranieri.
Gli agenti del caos sono senza dubbio incoraggiati dall’incapacità degli Stati democratici di aggiornare le regole sulla trasparenza e sul finanziamento, regole vitali per elezioni libere ed eque, e dall’incapacità di applicarle efficacemente alla sfera online.
Ma c’è anche e soprattutto un disegno comune preciso messo a punto in posti precisi da persone precise. Che sfrutta abilmente e scientificamente gli spazi non regolamentati delle piattaforme social.
La Russia di Vladimir Putin. La destra religiosa degli Stati Uniti.

LO SPAURACCHIO DEGLI HACKER

Partiamo con la prima. Come mai la Russia può contare sulla superiorità schiacciante di un esercito apparente sterminato di programmatori di codice ed esperti di software — i famigerati “hacker russi” —, a un livello che nemmeno gli americani possono vantare? Tanto da poter influenzare tutte le società del mondo, anche le più avanzate, usando l’informatica al posto delle vecchie testate nucleari?
Non si tratta solo della gigantesca macchina della disinformazione e delle fake-news condotta da siti come Sputnik o RussiaToday: da quando esiste Internet ci sono loro, i russi, dietro al 90% delle azioni in ogni campo del “fraud”, dallo spam all’hackeraggio al dark web. Sono i numeri uno indiscussi. Perché?

Squatting Russians

Quantomeno da un punto di vista sociologico o antropologico, alla base potrebbe esserci un fenomeno “giovanile”.
In effetti, guardiamo a come crescono e maturano i ragazzi occidentali da mezzo secolo a questa parte. Quando sei un teenager in Occidente, anche se i problemi non mancano neanche a te (violenza, droga, lo spettro di un futuro di disoccupazione, etc.), comunque la tua è una vita invidiabile: organizzi feste, compri musica, vestiti e cosmetici, vivi negli agi del consumismo, hai tutta la libertà di espressione che desideri, fai qualche lavoretto pagato, stai sempre in giro con gli amici, fai sesso, viaggi molto, vai all’università in un’altra città, fai l’Erasmus. Le città offrono mille occasioni: musei, cinema, attrazioni, biblioteche, concerti, manifestazioni, negozi, ristoranti, pub, eventi, sport…
Quando invece sei un teenager russo, passi dalla padella della devastazione del regime sovietico alla brace del post-URSS con una società di stampo fascista dominata dalle mafie e dagli oligarchi. Una San Pietroburgo o una Ekaterinburg o una Novosibirsk o una Vladivostok non sono neanche lontanamente paragonabili a una Londra, a una Parigi, a Roma, Berlino, Los Angeles, Seattle, Boston, Milano, Madrid… In tale cupezza del vivere quotidiano, senza prospettive, chiuso in casa da perfetto hikikomori, non ti resta che tuffarti nella “libertà” che ti offre il cyberspazio. E a quel punto, alla lunga, o ti suicidi o diventi un genio del software.

FLIRTARE COI RUSSI: MA CON QUALI SOLDI?

Spingere la Russia a investire sul debito pubblico italiano era uno degli scopi della missione 2018 di Giuseppe Conte in Russia. E durante il suo famigerato viaggio a Mosca il capo della Lega e ministro degli Interni (figura che fin da Minniti va più in giro del titolare degli Esteri), Matteo Salvini, era stato ancora più esplicito: «Se voi russi avete titoli da comprare, noi abbiamo bisogno di vendere qualche miliardo di euro di BTP alle prossime aste, così lo spread si abbassa e siamo più tranquilli».

La Russia è sì un Paese geograficamente molto grande — è la nazione più estesa del mondo — e con capacità militari di primo piano: ma è un nano dal punto di vista economico.
Il suo PIL è più o meno pari a quello italiano, nonostante una popolazione quasi tripla, al livello di Spagna e Corea del Sud, e inferiore a quello di Francia, Germania e Brasile. La Russia è appena uscita da una recessione che ha messo a dura prova la tenuta dei suoi conti pubblici e che ha costretto Putin a una riforma delle pensioni con cui ha portato l’età di pensionamento per gli uomini a pochi anni dall’aspettativa di vita media (65 anni la prima, 67 la seconda: significa che un cittadino russo può aspettarsi di trascorrere in pensione in media appena due anni).

La peculiarità della sua economia è che è in gran parte basata sull’estrazione e la vendita all’estero di gas e petrolio, due attività in buona parte in mano a società pubbliche. Soprattutto quando il prezzo di queste materie prime è alto, il governo riesce ad accumulare grandi riserve di liquidità in valuta estera con le quali può fare investimenti strategici o, se dovesse servire, aiutare Paesi alleati in difficoltà.

Il problema, però, è che l’Italia non è una piccola repubblica del Caucaso o dell’Asia centrale, dove la macchina pubblica costa poche centinaia di milioni di euro l’anno e basta un piccolo contributo per cambiare le cose; l’Italia ha una delle economie più grandi del mondo ed è uno dei Paesi più indebitati del pianeta.

Putin ha detto che il suo “fondo sovrano” cresce di 7 miliardi di euro al mese; ma anche se fosse, sono comunque quantità molto modeste se messe a confronto con la massa del debito pubblico italiano: oltre 2.300 miliardi di euro nel 2019, contro una dotazione totale del fondo sovrano russo di appena 67. Se la Russia si impegnasse a sostenere completamente il debito italiano, potrebbe finanziarci per appena un paio di mesi prima di esaurirlo completamente (il nostro ministero dell’Economia mette all’asta una trentina di miliardi di euro al mese).

Sempre nel 2018 Paolo Savona sostenne che in realtà non serve che la Russia acquisti i nostri titoli: basterebbe che fornisse ai mercati la garanzia di essere pronta a farlo in caso di emergenza (che in sostanza significa ripagarlo al posto nostro se dovesse essercene la necessità). Ma anche questa pare una fesseria. Perché il governo russo dovrebbe esporsi al punto da mettere una garanzia sul debito pubblico italiano, che è pari a circa il 150% del PIL annuale russo?

La Russia si trova in una situazione radicalmente differente rispetto alla BCE: non può stampare euro a volontà per comprare titoli di Stato italiani in modo da abbassarne rendimenti e spread, come ha fatto Mario Draghi per anni con il Quantitative Easing. L’unica cosa che può fare è utilizzare le sue limitate riserve. In casi estremi, prosciugato il fondo sovrano, il governo potrebbe decidere di usare anche la riserva delle riserve, cioè i circa 400 miliardi di euro in valuta estera che la banca centrale russa ha accumulato come ultima linea di difesa per proteggere la moneta locale, il rublo, in caso di crisi. Perché il governo russo dovrebbe mettere a repentaglio questa sorta di rete di sicurezza per fare un favore a quello italiano?

È già accaduto che qualcun altro si illudesse dello stesso miraggio di far affidamento su Putin: la Grecia.
All’inizio del 2015 Tsipras, guidando un Paese in grandi difficoltà economiche, chiese alla Russia un aiuto finanziario per avere più tempo e margini di manovra nella sua trattativa con le autorità europee. La Grecia, che all’epoca era al culmine della sua crisi, aveva bisogno di molti meno soldi di quanti servirebbero oggi all’Italia: nell’ordine delle decine di miliardi, più che di centinaia. Putin inizialmente sembrò aperto alla possibilità, ma quando arrivò il momento fece un passo indietro. Secondo quanto ha raccontato l’allora ministro delle finanze greco Yanis Varoufakis, Putin disse a Tsipras non solo che la Russia non lo avrebbe aiutato, ma che per il bene del suo Paese sarebbe stato meglio che trovasse un accordo con la Germania.

La vocazione imperiale sta nei cromosomi di una nazione, della sua classe dirigente, e non è solo questione di forza, ma anche di astuzia. E di Storia. Questo Paese ha prodotto una delle grandi culture — tra letteratura, musica e arti — dell’umanità, e da molto tempo cerca di non essere inferiore a nessuno quanto ad armi e capacità strategica: ma ha sempre fatto vivere il suo popolo assai meno bene di quanto non si viva da tempo nelle terre bagnate da Reno, Senna, Po, Tamigi ed Ebro. Eppure questo Paese vorrebbe porsi come modello di una nuova èra, come un secolo fa si atteggiava a faro della rivoluzione mondiale.
A giugno 2019, intervistato dal Financial Times, Putin aveva decretato la fine del liberalismo (teoria storica con varie identità ma sempre basata su libertà individuali, consenso dei governati e uguaglianza di fronte alla legge) ormai «sopravvissuto a se stesso», che ha «esaurito i suoi scopi» e minato dalla crescente ostilità degli elettori verso l’immigrazione, il multiculturalismo e i valori laici a spese di quelli religiosi. Putin vede in atto quindi anche nel mondo occidentale «una trasmigrazione dal liberalismo al nazional-populismo». E insiste sulla conseguente «fine dell’ordine internazionale creato dall’Occidente dopo il 1945». È un punto fermo moscovita a partire dalla crisi finanziaria del 2008: “la prova che l’Occidente non funziona più”.
Il guaio per il nuovo zar ex-agente del KGB è però che, in economia e finanza, neppure l’oriente russo ha mai funzionato.

Per Mosca una crisi profonda e uno smantellamento dell’Unione Europea sarebbe il coronamento di una politica secolare che ha visto nell’Europa occidentale da sempre una minaccia dovuta prima di tutto ai successi economici di quelle piccole nazioni oggi militarmente insignificanti ma, rispetto alla Russia, terribilmente più produttive anche se “moralmente corrotte” (cosa che una certa cultura russa ripete da almeno 150 anni). Dagli zar a Lenin, a Stalin, a Putin, la “finlandizzazione” dell’Europa è stato un sogno, prima molto ardito nell’epoca d’oro dell’industrializzazione e del potere europeo (1830–1913), poi a portata di mano nel 1945 — non foss’altro per l’innaturale “ritorno” in Europa degli americani nel ’47, con la NATO, e, poco dopo, le istituzioni europee —. Finlandizzazione, per i Russi, vuol dire una cosa molto semplice: simbiosi fra industria europea e materie prime russe, e rispetto dalla Vistola alla Manica per la diplomazia ex-sovietica e i suoi missili.

Putin, insomma, si offre come soluzione.
Per chi volesse un trattato sul putinismo, un lungo articolo uscito nel febbraio 2019 sulla Nezavisimaya Gazeta e riassunto subito da alcuni giornali occidentali è un testo base. Lo ha scritto Vladislav Surkov, 55 anni, madre russa e padre ceceno, uomo d’affari e politico, già vicepremier e ideologo ufficioso della russia putiniana e dal 2013 consulente personale di Putin. Surkov è il padre della formula della managed democracy, affidata a «un capo capace di ascoltare capire e vedere», migliore di quella «illusione di poter scegliere» che la democrazia formale occidentale (la definivano così anche i bolscevichi) «promette e non mantiene».
Il putinismo è «l’ideologia del futuro», sostiene Surkov, e «l’algoritmo politico» di Putin ha capito le cause della volatilità e per questo è «sempre più seguito anche dai leader occidentali, spinti a offrire certezze e quindi nazionalismo». Il nazionalismo trionfante sarebbe la fine definitiva del sistema multilaterale americanocentrico e dell’Unione Europea, e una grande vittoria russa. La Russia vive con Putin, dice Surkov, la quarta delle sue stagioni di grandezza (!), dopo quelle di Ivan il Terribile, di Pietro il Grande e di Lenin, e sarà presto riconosciuta come «faro del mondo intero» (!). È ormai avviato «un secolo glorioso» per il sistema politico putiniano. Putin «gioca con i meccanismi mentali dell’Occidente», continua Surkov, «che non sanno come muoversi a fronte delle loro nuove prese di coscienza».

Le ambizioni putiniane non sono però supportate né da un accettabile funzionamento del sistema russo, che è una cleptocrazia dove lo stesso vertice ruba a man bassa, né da una sufficiente capacità produttiva. «Nonostante i suoi sogni di grandezza», dichiara Nina L. Khrushcheva, discendente del mitico Nikita Sergeevič Chruščëv (“Krusciov” era suo nonno), insegnante di relazioni internazionali alla New School di New York, «la Russia assomiglia a una piccola ex colonia dove ogni generale al potere vuole poter vantare un dottorato di ricerca solo per poter aumentare i suoi profitti». Non è una storia del tutto nuova. Piero Melograni, uno dei massimi storici italiani contemporanei, ricordava che l’Europa dell’Est, impero zarista incluso, era il 17% del prodotto mondiale nel 1913 e l’8% nel 1992 «dopo decenni di una disastrosa economia pianificata». Oggi il salario medio russo secondo Rosstat è di circa 580 euro e arriva nelle maggiori città a circa 1.200 (statistiche ufficiali ai quali non molti credono: le cifre realistiche sono inferiori di quasi la metà), e solo grazie a un’economia in nero stimata doppia rispetto a quella italiana ci si arrangia e si tira avanti.

L’economia è in stagnazione da cinque anni, il tasso di povertà è al 15%: il buon Vladimir da vent’anni riesce a mantenere il potere del Cremlino quasi solo grazie alla sua politica estera spregiudicata, irrispettosa delle regole internazionali, ma efficiente per il suo scopo. Pochi mezzi, massimo risultato, il perfetto bluff geopolitico. Il disimpegno degli USA di Trump in Medio Oriente e la politica estera timida e scoordinata dell’Unione Europea fanno il resto.
Ma quando Putin al suo quarto mandato non consecutivo lascerà il potere, che sia nel 2024 o tra dieci anni, senza il suo tatticismo la Russia dovrà reinventarsi.
Secondo l’ISPI, che cita dati del governo russo, il 60% del PIL del Paese deriva dalle attività collegate a petrolio, gas e altre risorse naturali: un problema, perché rende Mosca vulnerabile alle variazioni del prezzo globale — se scende il prezzo al barile crolla l’economia; se non sale in fretta, c’è la stagnazione —. Non a caso quando l’ex funzionario del KGB è diventato per la prima volta primo ministro nell’agosto del 1999 l’economia russa stava uscendo a fatica dal default dell’anno precedente causato dal crollo del prezzo del petrolio nel mercato asiatico: il governo non era riuscito a restituire 40 miliardi di debito pubblico ai creditori interni, l’inflazione era all’84%, il rublo valeva carta straccia e il baratto era l’unico modo per evitare la fame. Grazie all’aumento del prezzo del petrolio, alzatosi di quindici volte a cavallo degli anni Duemila, Putin è riuscito in parte a modernizzare la Russia e migliorare l’aspettativa di vita dei suoi cittadini (rimasta però, come detto, piuttosto scarsa). Ma la grande ripresa economica che ha aumentato il PIL del 94% è terminata con la crisi del 2008. Il crollo dei prezzi del petrolio nel 2014 e gli effetti economici delle sanzioni contro l’annessione illegale della Crimea hanno distrutto ogni residua speranza di grandeur.

DALLA RUSSIA CON AFRORE

Si sapeva perfettamente che Vladimir Putin fosse l’agente-in-capo del caos globale, e si può dedurre mettendo in fila i pezzi e raccontando i risultati delle inchieste americane, a cominciare da quelle del FBI e del Procuratore speciale Robert Mueller. Ma ora c’è anche il nome, grazie al New York Times: «Unità 29155». È la divisione dei servizi segreti russi che da dieci anni coordina la campagna globale del Cremlino per destabilizzare l’Occidente.
Il New York Times ha ricostruito un pezzo di storia di un’unità segreta russa responsabile di alcuni crimini commessi in Europa e che per molto tempo erano stati ritenuti episodi non collegati tra loro. Basandosi sulle informazioni ottenute da diverse fonti rimaste anonime, il giornalista Michael Schwirtz ha raccontato per la prima volta quello che si sa dell’Unità 29155, una parte dei servizi segreti militari russi, specializzata in sovversione, sabotaggi e omicidi mirati, con l’apparente obiettivo di turbare l’equilibrio dell’Europa e del suo ordine democratico e liberale.

Le quattro operazioni finora attribuite all’Unità 29155 sono state compiute negli ultimi anni in diversi Paesi europei: sono la destabilizzazione della Moldavia, con il forte appoggio a partiti antieuropei; l’avvelenamento di Emilian Gebrev, trafficante d’armi bulgaro; il tentato colpo di Stato in Montenegro, con l’uccisione del primo ministro e l’occupazione dell’edificio del Parlamento; il tentato omicidio di Sergei Skripal, ex spia russa avvelenata con il novichok.

Secondo la ricostruzione del New York Times, l’Unità 29155 opera all’interno della struttura dell’intelligence militare russa, più nota in Occidente con sigla GRU, responsabile tra le altre cose delle interferenze nelle elezioni statunitensi del 2016 e dell’annessione della Crimea alla Russia, nel 2014. Rispetto alle unità incaricate di operare negli Stati Uniti, la 29155 è dedicata espressamente all’Europa: è formata da alcuni militari che negli ultimi quarant’anni hanno partecipato ai conflitti più violenti combattuti dalla Russia, tra cui le guerre in Afghanistan, Cecenia e Ucraina.

Nonostante l’unità sia stata identificata per la prima volta dopo il tentato colpo di Stato in Montenegro, nel 2016, l’intelligence europea cominciò a legarla a diversi crimini commessi in Europa solo dopo l’avvelenamento di Sergei Skripal e della figlia, avvenuto a Salisbury, in Inghilterra, nel marzo 2018. Da indagini successive, gli investigatori scoprirono infatti che un anno prima dell’avvelenamento tre operativi dell’unità viaggiarono nel Regno Unito, forse per raccogliere informazioni. Due di loro, identificati con gli alias Sergei Pavlov e Sergei Fedotov, erano stati parte del gruppo che nel 2015 aveva tentato di uccidere per due volte il trafficante di armi bulgaro Emilian Gebrev: una a Sofia, la capitale della Bulgaria, l’altra un mese dopo nella sua casa sul Mar Nero.

ANCHE QUESTI SENZA SOLDI

A dimostrazione della citata scarsità di mezzi finanziari russi, nonostante sia una forza di élite, l’Unità 29155 ha a disposizione un budget piuttosto limitato.
Per esempio il suo attuale comandante, il generale Andrei Averyanov — veterano delle due guerre cecene e premiato con la medaglia di Eroe della Russia (il più alto titolo onorifico del Paese) —, vive in un edificio in rovina dell’era sovietica che si trova a pochi isolati dal quartier generale dell’unità. Averyanov guida una VAZ 21053 del 1996, una vecchia berlina a quattro porte fabbricata in Russia. Gli agenti della 29155, inoltre, sostengono spese molto limitate anche quando sono in viaggio, condividendo spesso alloggi economici per risparmiare qualcosa: sembra per esempio che gli uomini sospettati dell’avvelenamento di Skripal abbiano dormito in un hotel molto economico a Bow, un quartiere povero dell’est di Londra.

Il New York Times ha scritto che i funzionari europei sono abbastanza perplessi per l’apparente trascuratezza delle operazioni dell’Unità 29155 in Europa, che finora si sono risolte praticamente sempre con fallimenti: Skripal e Gebrev sono sopravvissuti ai rispettivi avvelenamenti e il tentato colpo di stato in Montenegro è fallito, e lo scorso anno il Paese è entrato nella NATO. L’esito delle operazioni, comunque, potrebbe non essere così importante per il governo russo. Eerik-Niiles Kross, ex capo dell’intelligence in Estonia, ha detto che queste operazioni di intelligence sono diventate parte della cosiddetta “guerra psicologica”, dove più che l’esito conta il fatto di essere continuamente “sentiti”, di esercitare continua pressione: «Fa parte del gioco», ha detto Kross.

QUANTI RUSSIAGATE CI SONO?

Questo “gioco” ha causato una serie di imbarazzi in Occidente. Li chiamano tutti Russiagate, sono più d’uno. Quello italiano è gigantesco e oggetto di indagini per una volta (finalmente!) molto ben occultate da parte delle procure nostrane. Gianluca Savoini, ex-portavoce di Salvini, intrallazzò con pezzi grossi dell’entourage di Vladimir Putin. Come anche i sassi ormai sanno il negoziato, condotto all’hotel Metropol di Mosca, riguardava la compravendita di una maxi partita di gasolio da acquistare con il 4% di sconto (avrebbe generato 65 milioni in nero) e destinata a foraggiare la campagna elettorale della Lega dell’allora ministro dell’Interno e vicepremier Matteo Salvini alle ultime elezioni europee. Come si dirà anche più avanti, i russi presenti erano tre, tra questi c’erano il manager Ilya Andreevic Yakunin, molto vicino all’avvocato Pligin (incontrato da Salvini in segreto la sera prima), e Andrey Kharchenko, in stretti rapporti con il filosofo dell’estrema destra russa Aleksandr Dugin (cfr. più avanti). Il carburante destinato a finanziare la Lega, nel piano stabilito al Metropol, sarebbe stato venduto dal colosso petrolifero Rosneft; la banca londinese Euro-IB avrebbe fatto da intermediario; ENI, la società di stato italiana, avrebbe acquisito il gasolio a prezzo pieno.
Ci piacerebbe tanto che si indagasse pure — e senza perdere tempo, vista la nostra situazione di allarmante risveglio di pulsioni fascistoidi — sui rapporti Lega-Mosca non solo per la vicenda Metropol ma soprattutto per l’accordo politico firmato dalla Lega col partito (se non unico, diciamo raro) di Putin, con conseguenti selfie nella Piazza Rossa di Mosca. Senza dimenticare che perfino nello scandalo Cambridge Analytica, ovvero l’imbroglio globale che mette insieme Russi e Trump, Brexit e violazioni dei diritti digitali, c’è sempre quel non meglio precisato partito italiano che negli ultimi anni aveva perso vigore e che improvvisamente è tornato protagonista della vita politica, cui la società di web marketing inglese vicina ai russi e all’Alt-Right mondiale ha quasi certamente fornito i suoi formidabili servizi illegali.
E visto che ci siamo sarebbe interessante anche conoscere qualche dettaglio sui rapporti politici del Movimento Cinquestelle con gli apparati putiniani, abbracciati idealmente dal programma delle elezioni del 2018 e poi fatti sparire di notte, con tanti saluti al voto su Rousseau, poco prima della firma del “contratto di governo giallorosso”. (Come si è appena scoperto, la Casaleggio & Associati ha sottratto i dati personali di utenti Facebook tre anni prima di Cambridge Analytica. La società inglese aveva sottratto 87 milioni di profili che finirono per essere impiegati per aiutare Trump e Brexit, ma il sistema era già stato testato nel 2013 in Italia con un’app scaricabile dal blog di Beppe Grillo. Qui su Linkiesta la denuncia di Marco Canestrari, l’ex braccio destro del cofondatore del Movimento 5 Stelle.)

Per quasi tutto Novembre 2019 l’attenzione dei media è stata catalizzata dal fatto che il premier Giuseppe Conte avrebbe mandato i vertici dei servizi italiani a rispondere alle sollecitazioni degli americani su un’improbabile origine italiana di un complotto delle sinistre mondiali per destabilizzare Trump. Conte, hanno spiegato fonti vicine al premier, voleva soltanto capire se i governi che lo hanno preceduto, quello Gentiloni e quello Renzi, avessero davvero tramato con Barack Obama attraverso il misterioso professor Mifsud della Link University (vd. più avanti).
La ricostruzione trumpiana fa acqua da tutte le parti ed è una bufala mediatica per confondere le acque in relazione all’impeachment di Trump a Washington. Ma al (doppio) Presidente del Consiglio italiano, impegnato anche a rispondere formalmente al Copasir dove l’ex-socio Salvini ha piazzato un suo presidente (ma che bella idea), viene da chiedere per quale motivo, avendo avuto sentore di manovre sospette intorno alla Link University (ci arriviamo fra poco) non si sia fermato un attimo per dire al suo capo politico, Luigi Di Maio, che forse non era il caso di usare l’ateneo romano come serbatoio di cervelli del M5s (anche a questo ci arriviamo) e del governo che poi è andato a presiedere.

COSA C’ENTRA CONTE CON TRUMP E LA RUSSIA?

Giuseppe Conte autorizzò due incontri ritenuti molto irrituali tra i capi dei servizi segreti italiani e William Barr, il procuratore generale statunitense — più o meno l’equivalente del nostro ministro della Giustizia — inviato dal presidente Donald Trump a cercare le prove di un fantasioso complotto ai suoi danni. Nel frattempo è venuto fuori che episodi simili si sarebbero verificati in Australia e nel Regno Unito, con il risultato di mettere in imbarazzo i governi e i servizi di intelligence di quei Paesi.

La vicenda è legata al famoso caso delle email sottratte con un attacco informatico al Partito Democratico statunitense e alla sua candidata alle elezioni presidenziali del 2016, Hillary Clinton. Mentre gli investigatori statunitensi, guidati dal procuratore Robert Mueller, hanno scoperto imbarazzanti collegamenti tra i membri del comitato elettorale di Trump e il governo russo, che notoriamente ordinò l’attacco informatico e il furto delle email, Trump e i suoi sostenitori da tempo sostengono una teoria opposta e per il momento priva di riscontri: l’intera faccenda delle email rubate non sarebbe altro che una trappola.

Secondo questa teoria, i Democratici americani si sarebbero rubati le email da soli, le avrebbero consegnate ai russi e poi avrebbero fatto arrivare l’informazione allo staff di Trump così che, in caso di vittoria di Trump alle elezioni presidenziali, avrebbero potuto accusarlo di essere in combutta con i russi e rimuoverlo dalla presidenza. Barr, hanno scritto i giornali, sarebbe stato inviato in Italia proprio per trovare una conferma di questa teoria, nell’ambito di un più generale impegno dell’amministrazione e dello stesso Trump nella ricerca di sostegno e aiuti politici da parte dei governi stranieri, come accaduto con l’Ucraina.

Proprio il premier Conte avrebbe ricevuto questa richiesta di chiarimenti dagli americani (apparentemente negli stessi giorni in cui, col suo governo in bilico, Trump annunciò su Twitter che lo avrebbe sostenuto, chiamandolo «Giuseppi» in un famoso tweet rimasto online per 24 ore e poi corretto). Conte avrebbe girato questa richiesta al capo del Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza (DIS), l’organo che controlla i due principali servizi di intelligence italiani: Gennaro Vecchione, generale della Guardia di Finanza e amico di Conte, che lo aveva scelto personalmente per l’incarico. Il 15 agosto Vecchione e Barr si sono quindi incontrati segretamente nella sede del DIS in piazza Dante, a Roma. Conte non avvertì dell’incontro nemmeno i partiti che all’epoca lo sostenevano, Lega e Movimento 5 Stelle.

Joseph Mifsud

La riunione e il suo contenuto sono rimasti segreti fino all’inizio di ottobre, quando sono stati rivelati da una serie di articoli di giornale. Anche se ufficialmente non si sa cosa si siano detti Barr e Vecchione, i giornali sono concordi nel dire che la discussione si concentrò su Joseph Mifsud, un misterioso professore universitario maltese finito in mezzo allo scandalo Russiagate (quello originale, statunitense).

IL MISTERIOSO JOSEPH MIFSUD

Mifsud ha 59 anni e, prima di far perdere le sue tracce nel 2017, era un professore dell’università privata italiana Link Campus (molto frequentata e utilizzata dai servizi di intelligence, dai diplomatici e dai membri delle forze di sicurezza italiane). Mifsud aveva anche molte altre amicizie, dalla Fondazione Clinton al ministero degli esteri russo, passando per frequentazioni con persone legate ai servizi di sicurezza e all’esercito russo.

Grazie a questa vasta rete di conoscenze, nella primavera del 2016 Mifsud entrò in contatto con un giovane consulente della campagna elettorale di Trump, George Papadopoulos, e immediatamente iniziò a stringere rapporti con lui. Gli prospettò la possibilità di aprire canali privilegiati di comunicazione tra lo staff di Trump e il governo di Vladimir Putin e lo introdusse a diverse personalità della comunità russa a Londra (tutta la vicenda, raccontata agli investigatori dagli stessi protagonisti, ha toni spesso farseschi: a un certo punto, per esempio, Mifsud spacciò una sua giovane amica russa per la nipote di Putin).

Nell’incontro più importante tra i due, che avvenne il 25 aprile 2016, Mifsud avrebbe detto a Papadopoulos che i russi erano in possesso di migliaia di email compromettenti su Hillary Clinton, in anticipo di due mesi rispetto a quando la notizia divenne di dominio pubblico. Pochi giorni dopo Papadopoulos riferì la rivelazione a un diplomatico australiano, che ne parlò al suo governo il quale a sua volta fece arrivare la notizia all’intelligence statunitense. Questa catena di rivelazioni è uno degli elementi più importanti tra quelli che hanno fatto iniziare il Russiagate, facendo venire alla luce gli sforzi del governo russo nel favorire Trump e danneggiare Clinton, e che hanno portato all’inchiesta del procuratore speciale Robert Mueller.

Quando nel corso del 2017 queste rivelazioni divennero mano a mano pubbliche (anche in seguito agli interrogatori e poi alla condanna di Papadopoulos), Mifsud scomparve. Dall’ottobre del 2017 ha smesso di rispondere al telefono e alle email. Ha abbandonato affetti e amicizie, compresa la sua compagna ucraina all’epoca incinta, mentre il suo avvocato dice di non sentirlo più da mesi. Luciano Capone, il giornalista del Foglio che da due anni segue il caso Mifsud, ha scoperto che almeno fino al maggio del 2018 il professore continuò a vivere a Roma, in un appartamento affittato da una società collegata alla Link Campus University. Capone ha anche scoperto l’ultima foto di Mifsud: un bizzarro scatto realizzato nello studio del suo avvocato a Zurigo, in cui il professore tiene bene in vista un giornale con la data del 21 maggio 2018.

Numerosi sostenitori di Trump, negli Stati Uniti e in Italia, non credono però alla storia delle spie improvvisate e pasticcione, dei mezzi millantatori travolti dalle tempeste da loro stessi scatenate e così, per difendere il presidente statunitense, hanno elaborato la citata teoria del complotto, particolarmente contorta. Secondo questa versione, Mifsud sarebbe stato un agente al soldo dei servizi segreti italiani, i quali, su richiesta della CIA (a sua volta mossa dall’allora presidente Barack Obama) avrebbero organizzato una trappola per incastrare Trump: Mifsud avrebbe parlato delle email di Hillary al comitato di Trump, così da generare un interessamento che i Democratici avrebbero potuto usare per accusare Trump di aver cercato l’aiuto dei russi e, in caso di una sua vittoria alle elezioni, metterlo in stato di accusa (per questa ragione i complottisti definiscono questa teoria quella della “polizza assicurativa”).

Per quanto la teoria sia zoppiccante e strampalata, secondo tutte le ricostruzioni Barr sarebbe venuto in Italia proprio per cercare di confermarla e per farsi dire dai servizi segreti italiani se davvero Mifsud era un loro burattino, parte di un complotto nel quale erano stati coinvolti dalla CIA di Obama. Secondo i critici di Conte, invece di liquidare la richiesta seccamente, il Presidente del Consiglio avrebbe cercato di accontentare l’amministrazione Trump, mettendo a disposizione degli obiettivi politici del presidente statunitense i vertici dei servizi segreti italiani. Così il ministro della Giustizia Barr avrebbe incontrato Vecchione il 15 agosto 2019 e, per la stessa ragione, sarebbe tornato una seconda volta il 27 settembre 2019.
Questo secondo incontro, rivelato per la prima volta all’inizio di ottobre, è quello più controverso e imbarazzante per il governo Conte. A quanto pare, infatti, sarebbe avvenuto nell’ambasciata statunitense di Roma e vi avrebbero preso parte non solo Vecchione, ma anche i vertici dei due principali servizi di intelligence, Luciano Carta dell’AISE e Mario Parente dell’AISI, i quali non avrebbero gradito affatto la convocazione e le modalità dell’incontro.
Su cosa sia avvenuto in questa seconda riunione le versioni sono però discordanti. Fiorenza Sarzanini, una delle giornaliste più informate sull’intelligence italiana, non si è sbilanciata e si è limitata a notare che la maggior parte delle domande di Barr avevano al centro la Link Campus University e lo scomparso professor Mifsud. Il Messaggero scrisse invece che il colloquio fu soltanto «di cortesia» e che gli italiani liquidarono sbrigativamente Barr dicendogli che se voleva informazioni più precise avrebbe dovuto presentare una richiesta formale tramite i canali appropriati.
Secondo il sito americano Daily Beast, invece, gli italiani avrebbero fatto molto di più. Nel corso dell’incontro all’ambasciata statunitense avrebbero fatto ascoltare a Barr un nastro su cui era registrata la deposizione rilasciata da Mifsud dopo che, in seguito alla sua sparizione, chiese protezione alla polizia italiana. Altri giornali ancora, infine, hanno scritto che l’intelligence italiana avviò addirittura un’indagine interna pur di accontentare Barr.

Il report composto dalla divisione dell’AISI (Agenzia informazioni e sicurezza interna) che si occupa di controspionaggio è datato 2016 e viene aperto, sulla base del racconto di una fonte del Servizio, poco prima del capolavoro diplomatico di Mifsud, l’accordo tra la Link e l’università moscovita Lomonosov. La data è importante perché è grazie a quell’accordo che la Link si avvicina al mondo putiniano e a una serie di personaggi di nazionalità russa molto importanti. A partire da Ivan Timofeev, figura chiave del Russiagate: secondo l’inchiesta Mueller, proprio a lui Mifsud si rivolge per creare il contatto con l’entourage di Trump come promesso a Papadopoulos, responsabile per la campagna presidenziale dei contatti con l’estero. La Link diventa così oggetto di investigazione della divisione più delicata dell’AISI, quella che indaga sui tentativi di spionaggio all’interno dei confini nazionali.

Agli 007 basta davvero poco per rendersi conto che la Link viene frequentata da parlamentari del PD e del Movimento Cinquestelle, e dagli stessi capi dei servizi. Sono gli anni in cui il partito italiano filo-Putin mette radici ed è trasversale. Sono gli anni delle visite di folte delegazioni a Mosca del M5S e della Lega. Ma anche di Renzi che prima promette a Putin di impegnarsi per la fine delle sanzioni e poi rompe con Mosca dopo una burrascosa telefonata in cui accusa Putin di invadere con le sue TV satellitari il sistema media italiano intossicandolo di fake-news.

Nel corso degli anni alla Link mettono piede i vertici degli apparati, dal capo del DIS Vecchione, voluto fortissimamente da Conte pur senza alcuna esperienza di intelligence, a Bruno Valensise, oggi numero due del DIS ed ex-direttore dell’Ufficio centrale per la segretezza, tra i più delicati dell’AISI perché rilascia i nullaosta di sicurezza, sorta di patenti che attestano il grado di affidabilità per aziende e singoli cittadini oltre che ovviamente per esponenti di governo e ufficiali delle forze dell’ordine. Ma è la scomparsa di Mifsud a rendere caldissimo il file. Possibile che di fronte alla sparizione di uno degli uomini chiave del Russiagate nessuno indaghi? Non lo fa la Procura di Roma, non lo fanno i servizi? In realtà sì, qualcuno continua a indagare…

LA VERA STORIA DI MIFSUD, FALSO PROF DEL RUSSIAGATE

C’è un solo luogo in Occidente dove Joseph Mifsud, l’uomo chiave del Russiagate cui è appeso il destino di Donald Trump, e, in misura minore, quello di Giuseppe Conte, non è chiamato “professore”: l’isola di Malta. Casa sua, dove è nato nel 1960. «Il professor Joseph Mifsud?», chiedono con sorriso sarcastico al rettorato dell’università di Malta, «qui non c’è mai stato un professore Joseph Mifsud. Conosciamo e abbiamo avuto un Joseph Mifsud, certo, ma professore non lo è mai stato né ha mai provato a diventarlo. Deve essere una delle sue storie da “zatat”. Nell’isola lo sanno tutti che è un tipo così». “Zatat”, in lingua maltese, potrebbe essere tradotto come fanfarone, millantatore. Ma in verità, nel termine, c’è una punta di più greve e sincero disprezzo. Perché quando se ne chiede la traduzione in lingua inglese, ne esce un “professional bullshitter” (cazzaro professionista).

Diciamo pure che non è un buon inizio per l’uomo che si vuole, alternativamente: a) agente di Mosca, accreditato alla corte di Trump, con il compito di consegnare nel 2016 il kompromat raccolto nelle email rubate alla candidata democratica Hillary Clinton; b) agente provocatore a libro paga dei governi inglese e italiano per far deragliare la campagna repubblicana delle presidenziali USA 2016 avvelenandola con materiale raccolto da Mosca. E, tuttavia, è un inizio fecondo e non necessariamente contraddittorio con il profilo di uomo nella manica di qualche intelligence. Perché è qui, a Malta, che Joseph Mifsud ha cominciato a lavorare alla sua maschera, a indossarla con sempre maggior disinvoltura fin quasi a convincersi di essere davvero quello che non era mai stato.

Se si fa qualche altra domanda al Rettorato sul conto dello “zatat”, ne esce fuori la fotografia di un’alba gonfia di speranze. Metà degli anni ’90, il primo Rinascimento di Malta. Una generazione di giovani isolani che torna a casa per scrivere un futuro diverso da quello dei loro padri. Joseph Mifsud rientra da Belfast, dove è arrivato dopo un periodo all’università di Padova. In Irlanda del Nord ha ottenuto alla Queens University — che i pettegoli dicono ateneo in odore di massoneria internazionale — un PhD in “Managing Educational Reforms”. Il ragazzo, allora poco più che trentenne, è un “eloquent speaker”, “forward looking”, un affabulatore capace di intuire il futuro. Trova così un posto da “senior lecturer”, qualcosa di meno di un ricercatore, all’università di Malta, dove comincia a occuparsi di relazioni internazionali. È il primo equivoco. Perché quella definizione non indica alcuna competenza o mansione geopolitica o in affari diplomatici (l’uomo, del resto, ha studiato formazione). Al contrario, un banale ruolo di ambasciatore dell’università presso altri atenei occidentali. Il Professore (che tale non è) conosce in questo periodo anche la donna che oggi porta in silenzio, e con grande compostezza, la mortificazione di un cognome, Mifsud, che ha avuto da sposata e ora alla berlina internazionale. Si chiama Janet. E lei è davvero un’accademica. Insegna biochimica all’università di Malta, e con Joseph mette al mondo una figlia, Giulia, oggi maggiorenne.

I due — sono i primi anni 2000 — trasmettono l’immagine di una giovane coppia di accademici dalla vita modesta, come i loro salari. Vivono a Swieqi, borgo incastrato tra Saint Julian e il promontorio di Penbroke, in una piccola “terrace house”, un condominio. In cui il Professore non metterà più piede quando annuserà la high life dei salotti londinesi, della Roma monumentale, della Mosca di Putin. E dove Janet continuerà a vivere da sola, come un’appendice non più utile alla causa. Oggi la professoressa — lei sì — fa sapere di non avere la più pallida idea di che fine abbia fatto l’uomo da cui è separata da tempo. E di cui, con tutta evidenza, da tempo non vuole più sapere nulla. Quantomeno da quando cominciò a farsi vedere con una giovane fidanzata ucraina di 26 anni, Anna. Ma anche lei, come chiunque altro sull’isola, esclude che Joseph possa anche solo immaginare di nascondersi da qualche parte sull’isola: troppo piccola per passare inosservato. Troppo affollata di spie occidentali e agenti della CIA che qui hanno il loro più importante occhio e orecchio nel Mediterraneo.

Sempre nei primi anni 2000 lo “zatat” cova ambizioni in silenzio, protetto dal lassismo che in quel tempo regna sovrano all’università di Malta. Non è mai al dipartimento. Non si sa che diavolo faccia. A che titolo, dunque, prenda i quattro soldi che pure intasca a fine mese. Deve arrivare un nuovo rettore, Juanito Camilleri, professore di informatica dall’intelligenza vivacissima, per dare un taglio a quella storia. Camilleri scopre, grazie anche al lavoro di revisione contabile di PWC (PricewaterhouseCoopers, network internazionale, operativo in 158 Paesi, che fornisce servizi di consulenza di direzione e strategica, revisione di bilancio e consulenza legale e fiscale) che, nelle pieghe dell’autonomia finanziaria riconosciuta all’ufficio di relazioni internazionali dell’università, Mifsud si è ritagliato un fondo che usa come fosse un conto spese personale. Non più di diecimila euro, in realtà: e tuttavia quei soldi sono il battesimo di un format che il Professore replicherà nei dieci anni a seguire.

L’università avvia la procedura di licenziamento, composta da Mifsud con una lettera di dimissioni irrevocabili dalla sua mansione di “senior lecturer”. Del resto, ha già trovato dove andare. Perché il caso — o forse no — gli ha portato in dote nuove amicizie. L’università di Malta ha siglato un accordo con la Link Campus University di Roma, dell’ex ministro Vincenzo Scotti. È un ateneo ancora poco noto che, nelle intenzioni della partnership deve funzionare come succursale a Roma dell’università di Malta. I progetti della Link, in realtà, come quelli di Mifsud, che di questa unione è il facilitatore, sono tuttavia altri. La Link apre in Italia corsi che l’università di Malta non tiene — di intelligence e security —, in materie e con professori su cui non è possibile esercitare alcun controllo di qualità. E infatti il matrimonio si scioglie presto. Amichevolmente, ma presto. Nel 2008, quando ritroviamo Joseph nel gabinetto dell’allora ministro degli Esteri del partito nazionalista, Michael Frendo.

Frendo, che di mestiere è avvocato, è uomo colto e mite. Mifsud riesce a farlo fesso per qualche mese. Nel gabinetto del ministro, dove è planato grazie alla assidua frequentazione delle cene che Frendo ha organizzato nella sua campagna elettorale, gli viene affidato l’incarico di sovrintendere agli impiegati delle segreterie. Si è venduto la storiella di essersi occupato a Malta di gestione dei fondi europei (cosa che non ha mai fatto). E, appena messo piede al ministero, comincia a fregiarsi di un titolo, “capo di gabinetto”, che non ha nulla a che vedere con ciò che fa. Perché il vero capo di gabinetto si chiama Cecilia Attard Pirotta (oggi ambasciatrice maltese in Israele). È lei che nel giro di poco tempo scopre di che grana è fatto quel tipo. «He did not deliver. He cannot deliver», dice a Frendo. «Non è grado di portare a termine nulla di ciò che gli viene affidato». In compenso, squaglia il cellulare di servizio con bollette che convincono il ministro ad allontanarlo.

Ma lui ha ottenuto ciò di cui aveva bisogno: un’altra riga, tutto sommato non troppo farlocca, nel suo curriculum, che gli apre le porte della Sicilia. Dove in poco tempo, prima che lo caccino, riesce a distrarre fondi per i quali la Corte dei Conti italiana ancora lo insegue. Viaggi in Russia, Malta, Stati Uniti, Inghilterra, ma anche in Libia e Libano. Spesso in compagnia di sconosciute giovani donne dell’Est. E poi telefoni comprati e spariti nel nulla, con bollette telefoniche stratosferiche, anche da 4mila euro al mese. Spese che ammonterebbero a oltre 100mila euro, tutte a carico del Consorzio Universitario di Agrigento, presieduto per tre anni (2009/2012).

Il capolavoro del Professore è del resto a un passo. Per ragioni di cui ancora oggi nessuno all’università di Malta si capacita, e che nessuno nei Balcani è in grado di spiegare, diventa presidente della nuova “University of the Eastern Mediterranean”, la Emuni, la punta di diamante di un nuovo progetto di alta istruzione che i Paesi dell’UE si sono contesi. E che è stato, alla fine, assegnato alla piccola Slovenia, nella città costiera di Pirano. È il 2008-2009, nessuno sa o è in grado di spiegare per quale diavolo di motivo, tra tanti premi Nobel e accademici di vaglia in giro per l’Europa, venga scelto questo carneade maltese. Forse, azzarda qualcuno, perché in quella metà degli anni 2000 Mifsud si è agganciato a un uomo che pesa molto nei Paesi dell’ex Jugoslavia: Miomir Zuzul, già ambasciatore croato negli Stati Uniti dal ’96 al 2000 (vive tuttora a Georgetown), cattolico praticante. Ma, soprattutto, cavaliere dell’Ordine di Malta. (Massoneria e ordini cavallereschi — e loro relative strampalate teorie sapienziali — sono una presenza ineffabile, inodore incolore e insapore come l’acqua, che aleggia costantemente in tutta questa matassa ingarbugliata, e come l’acqua adattandosi perfettamente a qualsiasi forma possa assumere una vicenda, dissetandone — leggi: finanziandone — i protagonisti.)

È un fatto che a Pirano Mifsud cominci a farsi chiamare da tutti Professore. Professore di un’università, la Emuni, che nelle intenzioni dovrebbe raccogliere studenti provenienti dai Paesi del Nord Africa e del Levante ma che, in quegli anni, non ha né studenti né una sola facoltà, se si eccettua una summer school frequentata da venti tunisini. Anche qui il gioco dura finché i pazienti ma disciplinati sloveni non scoprono che lo “zatat” si è fumato 39.332 euro in pranzi, cene e bollette telefoniche.

È il 2013: il Professore si dà nuovamente alla macchia per riapparire d’incanto a Londra dove lo attende qualche buon amico e una nuova vita. La terza, verrebbe da dire. In realtà, come la storia dimostra, la prima, la più importante. Quella che lo porta dritto a Mosca.

LINK CAMPUS UNIVERSITY, LA FACOLTÀ CHE SEMBRA USCITA DA UN FILM

Gli analisti dell’AISI iniziano a scavare alle origini dell’università retta da Vincenzo Scotti, ex-ministro DC.
Come nasce e prospera la Link? Quali sono le sue fonti di finanziamento? Fino al 2015 la Link occupava in affitto da un ente religioso una parte di una palazzina in Via Nomentana 335 a Roma. Dal 2016 però tutto cambia e avviene il trasferimento in una sede, quella attuale, molto prestigiosa, il Casale S. Pio V ai margini di Villa Pamphili. Una svolta improvvisa e rimasta misteriosa. Di certo c’è che fino al 2015 molti insegnanti della Link si lamentavano di non essere mai stati pagati, tant’è che proprio il Movimento 5 Stelle presenta una durissima interrogazione parlamentare avanzando dubbi sulla gestione finanziaria e didattica dell’ateneo privato. C’è anche chi ricorda che l’affitto all’ente religioso per la vecchia sede non venne mai del tutto saldato.
Nel 2016 quindi avviene il grande salto: una sede prestigiosa e assai costosa e lo sbarco in Link di soci come Mifsud e Roh, avvocato svizzero. Mifsud ha un ruolo centrale nell’accordo con l’università moscovita Lomonosov, fucina del regime russo. L’accordo viene firmato alla fine del 2016, presente Mifsud, e poche settimane dopo nella nuova sede della Link un ampio locale viene messo a disposizione della Lomonosov.
Nel locale era sempre presente una ragazza russa che faceva funzioni di segretaria di Mifsud e Roh, e si trovava spesso anche un avvocato, ex-ufficiale dell’esercito russo in Sud America (Bolivia, Argentina, Colombia e Brasile) che il primo dicembre 2016 tenne alla Link una conferenza presentata da Mifsud e alla presenza di Scotti e Roh. In quell’occasione l’intervento di Aleksey Aleksandrovich Klishin, ospite della Link, fu un classico dell’ideologia putiniana contro la UE e gli Stati Uniti «dominatori dell’ordine unipolare». Tutto davanti agli occhi di Scotti. (Il quale, fra le altre cose, ha formato personalmente anche Luigi Di Maio.)

Enzo Scotti, 85 anni, 7 volte ministro DC nella Prima Repubblica

Rimane però il mistero dei soldi che con ogni evidenza hanno trasformato la Link da piccola realtà accademica a centro di elaborazione politica che fornisce personale e know how a ben due governi italiani apparentemente di segno opposto.
Né l’arrivo di Roh né tantomeno la partnership con la Lomonosov possono aver consentito questa trasformazione. Gli analisti ipotizzano perciò un finanziatore occulto.
Il fascicolo sulla Link rimane a galleggiare fino a che nel 2018 una delle insegnanti che incarna la liaison tra la Link e l’università preferita dal regime di Putin, Elisabetta Trenta, diventa Ministro della Difesa. Mentre altre due candidate dal Movimento Cinquestelle provenienti dalla Link, Elisabetta Del Re e Paola Giannetakis, pur candidate agli Esteri e al Viminale in campagna elettorale, non riescono nel grande salto.
Nel master che la Trenta avrebbe dovuto tenere a Mosca in seguito all’accordo tra Link e Lomonosov ci sono pezzi da novanta della propaganda putiniana: il già citato Ivan Timofeev, e con lui Yury Sayamov, diplomatico e consigliere del Cremlino; poi il filosofo Alexander Chumakov, che ha elaborato la visione della globalizzazione adottata dal nuovo zar. E c’è Olga Zinovieva, vedova di Alexander Zinoviev, uno degli ideologi dell’era putiniana.

La Link è “l’università delle spie”, come dichiara George Papadopoulos, anche lui coinvolto nel Russiagate, finito in carcere per aver mentito al FBI ed ex-membro di spicco dell’organizzazione pro-Trump? Oppure è la fucina di una nuova classe dirigente, come si è sempre vantato il dominus della Link, Enzo Scotti?
Intanto Mifsud scompare alla fine del 2017. L’inchiesta di Mueller su Trump lo disegna come uno dei testimoni più importanti del Russiagate. La Link e la Lomonosov cancellano non solo la loro partnership ma anche ogni traccia dai rispettivi siti.
Il premier Conte è perfettamente a conoscenza di questo dossier. Rivelarne il contenuto, magari per accontentare le richieste dell’amministrazione americana, potrebbe essere un’arma a doppio taglio: in fondo il governo Conte 1 è operazione che nasce con molti esponenti della Link. Ma anche il Conte 2.

ANCHE “GIUSEPPI” INVISCHIATO

Ci sono due tipologie di personaggi pubblici: i primi hanno lo “stile Cuccia”, più sono potenti meno amano apparire. Poi ci sono i “wannabe” (contrazione di want to be, “voler essere”), quelli che hanno una tendenza compulsiva ad apparire, i forzati del selfie e delle foto-opportunity: e solitamente questa pulsione è inversamente proporzionale al potere, e al talento. Non c’è alcun dubbio che Guido Alpa, maestro e mentore del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, vada inserito nella prima categoria. Ma non solo. Perché nella geografia del potere attuale c’è un partito trasversale nel quale in molti tempo fa hanno deciso di salire, quello della Link University. E in questo “partito” Alpa è perfettamente inserito.
Il nome del giurista che in molti definiscono il ghostwriter politico di Conte compare nel cuore della macchina messa in piedi dall’ex ministro democristiano Enzo Scotti. Alpa infatti è un membro del consiglio editoriale di Eurilink, la casa editrice dell’università balzata agli onori della cronaca mondiale per il caso Mifsud.

Che Alpa sia un “fan” della Link è un tassello, rimasto sconosciuto ai più, nella ricostruzione dell’attuale sistema di potere che appoggia il Conte-bis. Beninteso, avere rapporti con la Link è legittimo: ma la rete di relazioni che si intravedono salire sul palcoscenico della Link aiuta ad inquadrare le strategie politiche, nazionali e non solo. Link appare come il luogo perfetto per un remake de La Grande Bellezza ma in chiave politica: una “terrazza” dove si incontrano politici e amministratori pubblici, professori senza alcuna pubblicazione che concionano di cybersecurity insieme ai vertici dei servizi di sicurezza.
Si allarga quindi il numero di persone legate a Conte e ai suoi due governi che hanno rapporti con l’università al centro dello scandalo italiano sul Russiagate. Alpa però non è un insegnante alla Link, come qualche ex-ministro del Conte 1 o sottosegretario o consigliere: l’uomo che sussurra a Conte è intraneo a quel mondo. È presidente del comitato scientifico della collana “Studi e Dialoghi Giuridici — Ambito Privatistico” e membro del comitato editoriale della casa editrice che, tra le altre cose, ha pubblicato anche un testo prefato da Mifsud. Alpa ha anche firmato un volume collettaneo uscito nel 2018 sul ventennale della Link.
Il rapporto Conte-Alpa, già vibrante (esisteva un legame di interessi economici e professionali fra Conte e il professor Alpa: l’intero caso è descritto bene qui su Lettera43), si arricchisce così di una nuova puntata. Ed è un file che ha creato qualche grattacapo all’inquilino di Palazzo Chigi. Nel 2018, quando Conte fu accusato per la prima volta di essere stato “aiutato” dal mentore nell’esame per ottenere la cattedra universitaria, il PD gridò allo scandalo e si rifugiò su Twitter con l’hashtag #concorsopoli; la Lega fece spallucce. Oggi invece è proprio Matteo Salvini ad andare a caccia dei particolari di quella vecchia storia.

DUGIN, IL POPE NERO

L’Europa ha molti nemici, più di quanti non si voglia credere. Proprio questo è emerso con chiarezza negli ultimi anni. Talvolta è bene conoscerli, anche per capire meglio i pericoli che incombono su tutto ciò che fino a ieri sembrava fosse certo, ovvio, condiviso: Europa, democrazia, unione dei popoli.

Quando in Germania, all’inizio del 2016, è stato pubblicato “Mein Kampf” di Adolf Hitler, che fino allora era inaccessibile perché sotto censura, molti ritennero che l’opinione pubblica fosse ormai immunizzata contro quel veleno. Tuttavia, mentre il nazismo ora sembra diventato un’emergenza, c’è da chiedersi se quelle difese non siano state sopravvalutate. Il che non vuol dire in nessun modo ricorrere alla censura. Forse è tempo, però, di non minimizzare i rischi e di sondare quell’ideologia della nuova destra che un pregiudizio frettoloso, e forse in questo momento controproducente, vorrebbe ridurre a non-pensiero. Tanto più che il suo influsso è devastante.

Chi è allora il singolare personaggio — lunga barba semincolta e sguardo misticheggiante — invitato sia a convegni leghisti sia a conferenze organizzate da neofascisti, e immortalato davanti al Metropol di Mosca accanto a Gianluca Savoini? È Aleksandr Gel’evic Dugin, il “filosofo dei sovranisti”, il “Rasputin del Cremlino”, lo strenuo ammiratore di Matteo Salvini, che considera il politico del futuro. Se il suo nome è venuto alla ribalta della cronaca italiana per la vicenda dei fondi russi alla Lega, di lui si parla da tempo in Francia per i suoi legami con il Fronte Nazionale dell’adorata amica di Salvini, Marine Le Pen, e in Germania, dove è ritenuto uno degli ispiratori del partito di estrema destra Alternative für Deutschland.

Definirlo “filosofo” sarebbe però un insulto alla Filosofia, quella con la maiuscola. Alcuni preferiscono perciò chiamarlo ideologo. Claudio Gatti lo annovera tra i «demoni» di Salvini. C’è qualcosa di mefistofelico e minaccioso nella sua figura. Dugin non uccide, come il suprematista Breivik; piuttosto invita a uccidere. È avvenuto nel 2014, durante l’annessione russa della Crimea, quando lanciò un appello sanguinario al «genocidio»; l’effetto fu un violento scontro a Odessa tra manifestanti pro-ucraini e pro-russi che provocò quaranta morti. Anche per Mosca fu troppo.

Dopo una raccolta di firme degli studenti, nell’imbarazzo delle autorità, non gli fu prolungato il contratto all’Università Lomonosov (sì, quella associata alla Link di Enzo Scotti), dove dal 2009 aveva insegnato Sociologia delle relazioni internazionali. Non si deve però credere che sia stato relegato in un angolo e che il suo influsso sia stato sminuito. Al contrario.
Dugin continua a sguazzare nella zona grigia della propaganda mantenendo il suo ruolo non solo come leader della nuova destra, ma anche come accorto tessitore di una rete geopolitica che ha al centro la Russia. Fa parte di quest’incessante attività il sostegno ai partiti e ai movimenti populisti in ogni parte d’Europa. È lui a intrecciare i legami politico-ideologici di quella paradossale alleanza dei sovranisti sugellata a Milano nel 2016.

Se prima le idee di Dugin potevano essere ritenute la… dottrina esoterica di una frangia folkloristica, oggi anche oltreoceano gli occhi sono puntati sul suo “euroasiatismo” che la storica Marlène Laurelle ha definito una «sintesi restaurativa di motivi antioccidentali e politiche autoritarie».

Per il compito che Dugin assegna alla Germania vivo è l’interesse dei media tedeschi che si interrogano in particolare sul suo nesso con Putin. In un’intervista pubblicata sullo Spiegel il 14 luglio 2014, pur negando ogni influsso, Dugin ha lasciato in forse la sua funzione, senza nascondere però il suo giudizio. «C’è un Putin lunare e un Putin solare (…). È il Putin solare quello che mi piace. Il Putin lunare è quello degli accordi, della cooperazione, delle forniture di gas». E ancora: «Putin è tutto, Putin è insostituibile». Senza sopravvalutarne l’importanza, sembra indubbio, come ha sottolineato in un libro edito da Suhrkamp il politologo tedesco Claus Leggewie, che Dugin abbia fornito al Cremlino l’indispensabile terreno ideologico alla cui fraseologia attingere, per poi prendere opportunisticamente le distanze. Lo confermano gli espliciti riferimenti alle parole d’ordine dell’ideologo — come “Novorossia!” (Nuova Russia) — anche in popolari show televisivi. D’altronde il nuovo corso proclamato da Putin nel 2012 guarda a una Russia, bastione dell’Europa cristiana, “contro la decadenza occidentale e l’egemonia americana”.

Si sa che la Russia è stata sempre combattuta tra la tentazione di avvicinarsi al modello occidentale, di cui fu protagonista Pietro il Grande, e il desiderio di volgersi invece a oriente rimarcando, con una ostinata slavofilia, testimoniata nell’opera di Dostoevskij, lo scarto insormontabile tra la democrazia liberale e il popolo russo. Se durante la Rivoluzione d’Ottobre, per via dell’internazionalismo, prevalse l’apertura, già Stalin cambiò rotta. Ma la fine dell’impero sovietico segnò il vero punto di svolta. In quella situazione caotica andò emergendo la corrente nazionalistica che aveva covato sotto la cenere.

In quegli anni ha inizio l’oscura carriera di Dugin che, dopo essere stato membro del movimento neonazista Ordine Nero delle SS, aderisce al gruppo antisemita Pamyat. Nel 1993 fonda il Partito Nazional-bolscevico, il cui simbolo è una bandiera nazista con una falce e martello al posto della svastica. Qualche anno più tardi, nel 2002, tenta ancora, dando vita al Partito Euroasiatico. Si tratta di insuccessi, ma solo in apparenza. Vestendo l’abito del professore per rendersi presentabile, Dugin ha modo di introdursi nel sottobosco della politica e di avvicinarsi alla sfera del potere diventando consigliere di Gennadiy Seleznyov, presidente della Duma. Soprattutto riesce a cogliere lo spirito del tempo delineando il progetto neoimperiale “Eurasia”.

Il pensiero di fondo è sganciare l’Europa dall’Occidente politico-culturale, sottraendola all’egemonia americana. La visione è quella di un territorio che si estende da Lisbona a Vladivostok e di un complesso di popoli organizzati nella forma di un impero. In un mondo globalizzato, liquido e multilaterale, Dugin vede nei “poli” la salvezza. L’Eurasia rappresenterebbe un polo alternativo e forse in futuro dominante. Accanto alla Nuova Russia, e sotto le sue ali protettive, riemergerebbe un’Europa europea, dove la Germania, libera e indipendente, non più «ridotta», come oggi, «a un grande lager americano», potrebbe riprendere il ruolo di guida. Non è difficile scorgere in questo auspicato patto russo-tedesco una ripresa del nazional-bolscevismo di Weimar. (È incredibile, spiazzante, terrorizzante pensare che non si sta parlando di un romanzo distopico o della riuscita rielaborazione TV “L’uomo nell’alto castello” del romanzo “La svastica sul sole” di Philip K. Dick, ma che questa sia realtà, roba che accade sul serio.)

Dugin ha per così dire l’abilità di attingere alle dottrine della “rivoluzione conservatrice”, da Ernst Jünger a Martin Heidegger, a Julius Evola (di quest’ultimo si sente quasi un diretto erede), coniugandole con quelle della nuova destra, in particolare di Alain De Benoist, per tradurle nell’attualità. Da Carl Schmitt riprende l’idea di un conflitto insanabile tra le “potenze di mare” (USA e Gran Bretagna) e quelle “di terra” (Germania e Russia), conflitto che non si è ancora risolto e che, anzi, esploderà nel futuro. L’enorme risentimento verso l’Occidente trova sfogo in una concezione complottista che cerca il burattinaio, che sia Soros, lo spirito ebraico o il sionista di turno. Con destrezza, imitata anche altrove, evita di passare per razzista sostituendo “razza” con “cultura”, “purezza” con “autenticità”. Le commistioni non sono auspicabili. Inutile poi sottolineare la supremazia dei bianchi — è implicita.

Ma il successo è legato alla “Quarta teoria politica”, un libro tradotto in molte lingue, che contiene — come l’autore suggerisce — una “metafisica del populismo”. Né di destra, né di sinistra. Fascismo e comunismo si sono estinti; delle tre teorie scaturite dalla modernità solo il liberalismo si è conservato degenerando tuttavia nella società del mercato globale. L’alternativa è quella “vicinanza al popolo” che deve aggirare ogni scoglio della democrazia burocratica. (Se qualcuno in tali concetti crede di ascoltare echi italiani, grillini e leghisti, sappia che non si sta sbagliando… solo che sono quelli italiani, gli echi di un originale russo, non il contrario.)

Non sorprende che Dugin sia ormai visto come l’eminenza grigia che ispira la politica russa e trova consenso non solo in patria, ma anche all’estero, dove non si può sottovalutare il suo ruolo nel sostegno ai partiti sovranisti.

IL POPE NERO IN ITALIA

Ma il moscovita filosofo militante, attivista politico e studioso poliglotta Alexandr Dugin, 57 anni, non si è mai limitato all’elaborazione teorica. Fondatore del partito nazional-bolscevico con lo scrittore-intellettuale-rockstar dalla vita romanzesca e spericolata Eduard Limonov (quello mirabilmente dipinto da Emmanuel Carrère), ha ormai superato il compagno di strada in notorietà tanto da potersi permettere una tournée italiana nel mese di giugno 2019 fra imprenditori nel mirino della giustizia, massoni eretici, goliardi sovranisti, neofascisti con il pedigree, sofisti con sussidio pubblico. Tutti impegnati a dimostrare che destra e sinistra sono dimensioni ideologiche superate e che bisogna abbandonare il Satana anglosassone per realizzare l’unione eurasiatica, la sola capace di salvare valori e tradizioni.

Da Michail Bakunin ad Antonio Gramsci, da papa Francesco al patriarca degli ortodossi, il profeta del trasversalismo vive della sua abilità di conferenziere in ottimo italiano e della cambiale, non si sa se scaduta e da quanto, di una sua prossimità con lo zar di tutte le Russie, Vladimir Putin.

La situazione è grave, forse gravissima, ma non seria. Il riferimento a Ennio Flaiano è scontato ma si rende necessario di fronte al tour picaresco dell’intellettuale russo che a fine primavera ha tenuto nove conferenze in tutta Italia. A dimostrare che il presunto trasversalismo è molto più bruno che rosso, in Lombardia lo hanno accolto l’amico Gianluca Savoini, presidente di Lombardia-Russia e indagato per la trattativa petrolio-fondi neri del Metropol, insieme ai quadri giovanili della Lega, Davide Quadri e Alessandro Viviani.
Hanno partecipato agli incontri anche Rainaldo Graziani, figlio di Clemente, il neofascista fondatore del Movimento politico Ordine Nuovo, Maurizio Murelli, condannato per l’omicidio del poliziotto Antonio Marino a Milano il 12 aprile 1973 e oggi riabilitato come fondatore di Aga Editrice, Andrea Scarabelli della Fondazione Julius Evola e Adolfo Durazzini di REuropa.

Non gli va tutto liscio, nel roadshow in Italia. Il suo incontro romano, annunciato nella redazione di AdnKronos per il 14 giugno con la partecipazione di Gennaro Sangiuliano, direttore del Tg2 e Giampaolo Rossi, consigliere di amministrazione della RAI (peraltro entrambi già sperticati adulatori di un altro sovranista molto potente, Steve Bannon), non si tiene dov’era stato programmato e non vede la presenza né di Sangiuliano né di Rossi. Non è l’unico incidente di percorso. Per quanto attiri folle piuttosto sparute, Dugin incontra ancora resistenze in chi vede in lui un paravento di squadristi e razzisti. Lo confessa lui stesso con una punta di civetteria: «Dopo la mia polemica con Francis Fukuyama e Zbigniew Brzezinski, sono stato definito il filosofo più pericoloso del mondo». Parole pronunciate l’11 giugno 2019 a Gioia Tauro, una zona dove i soggetti pericolosi, anche al di fuori della filosofia, non scarseggiano.

FUGA A GIOIA TAURO

È possibile che Dugin non abbia un’idea precisa di chi lo accompagna. Ma contro il beneficio del dubbio, paradossalmente, giocano la sua cultura e la sua intelligenza. Se nel sito geopolitika.ru (sottotitolo: Delenda Carthago) e nel profilo personale su vk.com (il facebook russo che ospita i fascisti italiani transfughi dal bando di Zuckerberg), Dugin si professa antirazzista e non fascista, la sua conoscenza dell’italiano gli dovrebbe mostrare che qualcosa di bizzarro accade attorno a lui.
La conferenza dell’11 giugno a Messina, per esempio, è stata organizzata da alcune associazioni locali (gli universitari di Morgana, Vento dello Stretto, Città plurale) che hanno in comune la militanza sovranista e ottimi rapporti con l’area tra Fratelli d’Italia e l’ultradestra.
Quando l’ateneo messinese nega l’ospitalità, anche per le proteste delle associazioni di partigiani, si pensa di tenere l’incontro sulla sponda continentale, a Reggio, nella sala del consiglio regionale intitolata a Giuditta Levato, martire delle lotte contadine contro i latifondisti nell’immediato dopoguerra. Anche qui, contrordine: Dugin viene caricato in macchina e portato 50 chilometri a nord, in un locale di Gioia Tauro, la Commanderie. Lì viene presentato a un pubblico rado come una settimana prima a Benevento, dall’avvocato Francesco Maria Toscano, autore di “Dittatura finanziaria, il piano segreto delle élite”, un pamphlet rivolto contro la “sinistra sorosiana”. «Dopo il no dell’università di Messina», racconta Toscano seduto su un prato accanto all’ideologo della quarta teoria politica, «ho contattato Roberto Occhiuto (vicepresidente del gruppo Forza Italia alla Camera, ndr) che conosco da tempo e che mi ha indirizzato al consigliere regionale Francesco Cannizzaro per ottenere la sala. Poi ho ricevuto una telefonata e la sala non era più disponibile».
All’incontro di giugno a Gioia Tauro con Dugin c’è anche il proprietario della Commanderie Nunzio Foti, costruttore di 42 anni con base a Roma (Italia costruzioni, Consoter, Magistri) che ha già una lunga esperienza di lavori pubblici in tutta Italia e qualche procedimento giudiziario. All’inizio del 2019, a seguito dell’inchiesta sul fallimento del Jolly Hotel a Messina (“operazione default”), è stato inibito per un anno dalle attività professionali. A ottobre del 2013 è stato arrestato insieme al padre Rocco per irregolarità nei lavori commissionati dalle FS a Valenza, in Piemonte.

La Commanderie di Gioia Tauro è già stata usata per eventi politici locali-globali. A febbraio ha accolto il candidato sindaco Diego Fusaro, giovane filosofo caro a Dugin nato a Torino e tuttavia sostenuto alle urne dalla formazione Risorgimento Meridionale. Con lui c’erano il direttore del canale filorusso Pandora Tv Giulietto Chiesa e l’ex ambasciatore Alberto Bradanini, presidente del centro studi sulla Cina contemporanea. L’avventura di Fusaro alle comunali di Gioia Tauro si è conclusa con un quinto posto su cinque candidati (2,8%, pari a 281 voti). Era andata meglio a Toscano qualche anno fa (2015) quando era riuscito a entrare da assessore nella giunta guidata dal sindaco Giuseppe Pedà, durata solo due anni. È stato un curioso esperimento politico perché Pedà e Toscano facevano riferimento, oltre che al centrodestra, al Movimento Roosevelt, aggregazione di massoni dissidenti presieduta da Gioele Magaldi, fuoriuscito dal Grande Oriente per fondare la sua obbedienza. Si chiama Grande Oriente Democratico o GOD, che in inglese suona autorevole. GOD accomuna impegno civico e misticismo come nell’evento del 9 novembre 2019 «incentrato», si legge nel sito, «sul tema degli angeli e su alcune previsioni politico-astrologiche riguardanti il governo Conte bis» (!). Previsioni giocoforza infauste visto che il Movimento Roosevelt ha appoggiato “Umbria civica” alle ultime regionali e dunque la vincitrice di centrodestra Donatella Tesei. Fusaro e Toscano, invece, hanno continuato insieme fondando il partito Vox Italia.

Raduno di Nazbol, i “nazibolsci”

I FASCIO-BOLSCEVICHI

Se al Sud è stato uno spettacolo per pochi intimi, non è andata molto meglio al nord. Nel varesotto, a Gavirate e Castiglione Olona, Dugin giocava in casa potendo godere della compagnia e dell’introduzione dell’amico Savoini, che lo stesso Limonov, a volte polemico persino con Duginle fiabe di Alexander non se le beve più nessuno e Putin non lo ha mai incontrato»), è intervenuto a difendere in un’intervista a Repubblica dichiarando il Russiagate della Lega «un fake di pessima qualità».

Ma è davvero difficile dire fino a che punto Dugin racconti fiabe a una platea marginale e dove scatti l’allarme sociale per una resurrezione di nomi e movimenti legati a un passato luttuoso.
Per esempio, alla serata al Corte dei Brut di Gavirate, in un locale molto amato dall’ultradestra lombarda, era presente anche Daniele Bertello, socio della cooperativa Arnia che gestisce il locale e responsabile di REuropa (come riferisce La Stampa). In Arnia c’è anche il figlio di Clemente Graziani che, dopo la rinascita di Avanguardia Nazionale, ha pensato bene di riproporre il Centro studi Ordine Nuovo (CSON), fondato da Pino Rauti negli anni Cinquanta dello scorso secolo e ribattezzato Movimento politico Ordine Nuovo a fine anni Sessanta, quando Rauti rientrò nella legalità del MSI di Giorgio Almirante.
Da questo punto di vista, la scarsità di pubblico presente alla tournée duginiana non è rassicurante in se stessa, soprattutto quando entra in fase con un blocco elettorale in forte espansione com’è quello, a dar retta ai sondaggi, con guida leghista. Alla fine, è l’abc del bolscevismo: un’avanguardia rivoluzionaria alla guida delle masse. In questi termini, la cialtroneria italiana diventa quasi una speranza di salvezza. Dugin deve saperlo. Infatti insiste sui paragoni bakuniniani che vantano «l’orgoglio degli slavi di essere uomini liberi contro tutti gli ostacoli».

Nello stesso modo in cui, ancora ai tempi di Umberto Bossi, i padani avevano tentato di sfondare oltre il confine elvetico, senza grande successo, anche Dugin ha avuto diritto alla sua escursione in Canton Ticino.
La puntata di Lugano, il 10 giugno, dedicata al nuovo mondo multipolare (“Quali scenari per la Svizzera?”) si tiene nella sala dell’hotel Pestalozzi, a due passi dal casinò. Dugin ha un seguito di pochi intimi ma gode di un accompagnatore di prestigio. Si tratta dello hedge funder-leghista-no euro Alberto Micalizzi, detto “il Madoff della Bocconi”, arrestato nel 2014 e condannato in primo grado a sei anni per una truffa milionaria perpetrata soprattutto ai danni di banche russe.

Quanto meno per la chiusura del tour, il 15 giugno al Castello di Udine, era giusto aspettarsi fuochi d’artificio intellettuali, se non le adunate oceaniche poco adatte alla filosofia.
A nulla sono servite le proteste dell’ANPI e dell’ex sindaco di centrosinistra della città friulana, Furio Honsell. L’assessore alla cultura in carica, Fabrizio Cigolot, ha replicato di non avere ben chiaro chi fosse Dugin e che comunque l’ospite non avrebbe preso un soldo, a parte la copertura delle spese dell’iniziativa, cena ufficiale inclusa, pari a poche migliaia di euro.
Il titolo dell’appuntamento, finanziato dalla giunta di centrodestra del sindaco leghista Pietro Fontanini, recitava “Identitas, uguali ma diversi” e prevedeva la partecipazione, oltre che della star moscovita, del collega filosofo Fusaro, dell’attore Edoardo Sylos Labini, già genero di Paolo Berlusconi, ex responsabile della cultura di Forza Italia e fondatore del movimento sovranista CulturaIdentità, che pubblica un mensile allegato al Giornale. Ma la spalla che minacciava di oscurare il protagonismo di Dugin era né più né meno che Noam Chomsky, padre della linguistica moderna, professor emeritus al MIT di Cambridge, Massachusetts, e figura di punta della sinistra radicale negli Stati Uniti.
L’intellettuale di Philadelphia, 90 anni, avrebbe dato «la sua entusiastica adesione al progetto», secondo le anticipazioni di CulturaIdentità. È finita come a Roma. Chomsky, che avrebbe promesso di presenziare attraverso un intervento registrato in video, non ha mandato nemmeno un messaggio vocale su WhatsApp. Non per questo si è scoraggiato l’organizzatore dell’evento, Emanuele Franz, che si dichiara editore per i tipi di Audax, scrittore e, inevitabilmente, filosofo contro il sistema. La sua casa editrice organizza un premio di poesia che all’articolo 1 del regolamento impone: «Il requisito fondamentale che deve avere il candidato è che esso (il candidato, ndr) non abbia nessun titolo di studio accademico superiore». In un’intervista dell’anno scorso Franz ha rivelato che il premio Audax gli ha procurato gli auguri della regina Elisabetta, che Chomsky ha speso belle parole per il suo saggio “Le basi esoteriche della microbiologia” (!), che il direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio ha definito il premio un’idea meritoria e geniale e che infine Matteo Renzi e Matteo Salvini seguono con attenzione le sue attività. «Salvini», ha concluso Franz, «l’ho visto con in mano una copia del mio lavoro “La storia come organismo vivente”. Si può dire che di me ci si accorga più facilmente lontano dalla nostra regione».

Nemo propheta in patria. Può ben dirlo anche Dugin.

DA NEOCON A TEOCON

Ma se la Russia non è un Paese ricco, e se i suoi “agenti del caos” che stanno riempiendo l’Europa di pensiero fascio-nazista sono una simile corte dei miracoli, com’è possibile che così tanti partitini e personaggi sovranisti e populisti continuino a insistere con l’attrazione fatale russa?
La risposta è: non c’è dietro la sola Russia. C’è un potere ben peggiore, oscuro. E straricco.
Qualcuno che il mondo ha già visto all’opera vent’anni fa, al comando degli USA sotto i Bush.

Si tratta dei NeoCon, ala politica delle nefande e pericolosissime idee partorite nella cosiddetta Bible belt statunitense. Su tutte, quella dello “Scontro di civiltà” e della necessità di un biblico Armageddon finale per ripulire il mondo (si vedano le folli teorie di Samuel Huntington e dei suoi sodali). A partire magari dall’attuale pontefice.

LA FURIA SOVRANISTA CONTRO PAPA FRANCESCO

C’è una rete internazionale cattolica di estrema destra, dall’Italia agli USA passando per il Brasile, che ha come obiettivo quello di fermare a tutti i costi Bergoglio.
Parlano i luoghi. Sfarzosi, discreti, con il costante richiamo all’Europa delle armi e dei cavalieri. Eleganti palazzine, conventi medioevali e castelli incastonati nella provincia profonda francese, dove respiri l’aria della guerra di Vandea. Il mondo della fronda anti Bergoglio ci tiene a quell’apparenza da Ancien régime. Un fronte dove la ricchezza diventa forza di propaganda, con donazioni — riservate — pronte a essere investite in oro e immobili. Hanno cardinali di riferimento, come Raymond Leo Burke, statunitense arrivato dalla provincia profonda, da sempre in prima fila nel mondo teocon vicino a Donald Trump.

I luoghi, dunque. C’è un triangolo geopolitico da cui partire per capire la guerra che il mondo reazionario e sovranista sta conducendo contro la Chiesa di Papa Francesco. Un vertice è l’Italia, con Roma come evidente epicentro. Non solo la Città del Vaticano, ma una serie di fondazioni, associazioni, gruppi sconosciuti ai più — ma in grado di mobilitare nomi che contano — sparsi tra l’Aventino e i palazzi liberty del quartiere Trieste. Ci sono gli Stati Uniti, dove Trump in fondo è l’ultimo arrivato in quella strana alleanza che La Civiltà Cattolica, la rivista della Compagnia di Gesù, ha definito «ecumenismo dell’odio». Network di TV, radio, scuole esclusive, siti internet di successo, dove il verbo del cattolicesimo integralista si unisce e si fonde con l’infinita serie di chiese evangeliche. Qui conta, prima di tutto, la ricchezza, il successo personale, in pieno american way of life. Sei quello che guadagni. E, infine, il terzo vertice, il Brasile di Jair Bolsonaro, oggi al centro dell’attenzione. Il Sinodo pan-amazzonico (6-23 ottobre) come luogo dello scontro finale. Apparentemente per alcuni passaggi contenuti nel documento preparatorio, “Instrumentum laboris”, che richiamavano alcune tesi sostenute dalla parte progressista della conferenza episcopale tedesca (la possibilità di ordinare sacerdoti anziani con famiglia, riconosciuti dalle comunità indigene locali e una maggiore apertura alle donne). Ma il nocciolo, la questione chiave è ben altra. Riguarda la protezione integrale dell’ambiente — che nella visione sinodale si unisce allo sviluppo umano —, la lotta per la democrazia, la guerra alla corruzione. E l’opzione preferenziale per i poveri. Una visione “progressista” (evangelica in realtà) che diventa insopportabile e pericolosa per il fronte iperliberista mondiale. Tra Europa, USA e America Latina.

TRADIZIONE, FAMIGLIA E PROPRIETÀ

«Il cardinal Burke in questa sede è stato non so quante volte, ha celebrato messa qui, non so se ha visto l’altare lì dietro…». Julio Loredo mostra la piccola cappella nascosta dietro due porte scorrevoli nella sede dell’associazione Luci sull’Est, nel cuore di Roma. Nato in Perù, cittadino spagnolo, arrivato in Italia nel 1994, Loredo è il presidente della sezione italiana della potente e antica fondazione Tradizione, Famiglia e Proprietà, Tfp. Fondata nel 1960 in Brasile da Plinio Corrêa de Oliveira, Tfp è stata la principale lobby a ispirare il golpe militare a Brasilia e Rio, nel 1964. Ha una vera ossessione: la difesa dei grandi latifondi e la lotta senza tregua alle riforme agrarie. Quelli di Tfp amano definirsi il più grande network anticomunista e antisocialista del mondo. Roba seria e tosta. Quando nel 1987 la costituente brasiliana, eletta dopo il ventennio di dittatura militare, stava elaborando la carta fondamentale attualmente in vigore, Tradizione, Famiglia e Proprietà riuscì, con un profondo lavoro di pressione, a bloccare il principio della ridistribuzione delle terre.

Il legame con il cardinal Burke è antico, assicura Loredo: «Lo conosciamo da quando era vescovo di La Crosse, con lui siamo amici da sempre». Strettamente legato all’associazione è anche il vescovo di Astana Athanasius Schneider, che con Burke ha firmato la lettera contro il Sinodo panamazzonico pubblicata il 24 settembre 2019, dove accusano l’attuale pontificato di “confusione dottrinale”: «Anche lui lo conosciamo da quando era seminarista, lo abbiamo visto formarsi».

ORO E CASTELLI. CON IL ROSARIO IN MANO

Tradizione, Famiglia e Proprietà dal Brasile ha allargato il campo di influenza e di reclutamento — soprattutto di giovanissimi — in ventotto Paesi. Non punta ad avere un alto numero di seguaci, ma a creare reti di influenza nei confronti dei governi sui temi tipici dell’internazionale sovranista. Famiglia tradizionale, lotta contro gender e aborto, certo. Ma anche un programma politico chiaro: «Le nostre battaglie sono state contro la linea a favore dei diritti umani del presidente Carter, contro la teologia della liberazione, contro l’ambientalismo e il pacifismo», si legge sul sito statunitense. E a Washington oggi la Tfp ha sessanta dipendenti, settantacinque volontari a tempo pieno e 14 milioni di dollari di donazioni, quasi raddoppiate negli ultimi cinque anni. Soldi che in parte investe in acquisto di oro, come si legge nei bilanci degli ultimi anni. E in una quantità industriale di rosari da mostrare, in stile Salvini, nelle manifestazioni pubbliche: una partita da un milione di dollari è arrivata da Giussano, in provincia di Monza e Brianza.

In Europa possono contare su un tesoro accumulato grazie a donazioni discrete e riservate. Nella zona della Mosella, in Francia, nella piccola città di Creutzwald, c’è la lussuosa villa La Clarière, che ha ospitato le conferenze del cardinal Walter Brandmüller, altro punto di riferimento del fronte che si oppone a papa Francesco. Acquistata nel 2003 e completamente restaurata, è stata inaugurata nel 2006 dal cardinale Jorge Arturo Estévez Medina, conosciuto come il “Cardinal Pinochet”, per la sua vicinanza con il dittatore cileno («prego per lui tutti i giorni», aveva dichiarato alla fine degli anni Novanta). Qui ha sede la Federazione per la civilizzazione cristiana, think-tank fondato nel 2010 che per alcuni anni ha agito come lobby a Bruxelles, centro di una fitta ragnatela di associazioni, dall’Italia alla Polonia, dalla Germania al Belgio.

L’INFLUENZA RUSSA NEL NOME DEL CONGRESSO DI VIENNA

In Italia un ruolo importante di quest’area è ricoperto da Roberto de Mattei, storico del Cristianesimo che ha legami antichi con il mondo di Tradizione, Famiglia e Proprietà. Antievoluzionista, antigay, convinto che «le catastrofi naturali talora sono esigenza della giustizia di Dio», è uno dei protagonisti della guerra contro Bergoglio, in prima linea nel fronte anti-Sinodo. Il 28 settembre 2019 ha organizzato un flash mob a Castel Sant’Angelo, chiamato “Acies ordinata”, proponendo una preghiera contro «gli spiriti maligni dell’Amazzonia». È a capo della Fondazione Lepanto, con sede a Roma, nel complesso medioevale di Santa Balbina, di proprietà del noto ospizio Ipab Santa Margherita. Ma ha anche un indirizzo a Washington, segno del legame stretto con i teocon: «Più che una sede abbiamo molti amici negli Stati Uniti». Dunque fede atlantica, certo. Ma nel maggio del 2014 De Mattei viene anche invitato a Vienna per un incontro, destinato a rimanere segreto, organizzato dall’oligarca russo Konstantin Malofeev. C’erano, tra gli altri, Marion Maréchal-Le Pen, l’allora leader del Partito delle libertà austriaco Heinz-Christian Strache e l’immancabile filosofo Aleksandr Dugin, il più amato dai sovranisti: «C’erano anche dei parlamentari italiani, ma era un incontro riservato e non vorrei violare la loro privacy», racconta. Era stato invitato come storico, il tema era il bicentenario del Congresso di Vienna: «Però io mi sono subito trovato a disagio, le mie idee sono antitetiche a quelle di Dugin». Per De Mattei quell’incontro aveva un obiettivo chiaro: «A mio parere c’è una manovra da parte della Russia di infiltrazione del mondo conservatore e tradizionale europeo. Nei confronti di alcuni partiti politici, a partire dalla Lega, e dei movimenti pro-life. Mi sembra che la Russia stia un po’ svolgendo il ruolo che ha avuto la CIA nei decenni passati». E l’influenza atlantica oggi? «In America sono i movimenti pro-life a condizionare la politica, mentre in Russia è l’inverso, è la politica che condiziona». L’antica cortina di ferro è diventata fluida. Ma l’obiettivo è lo stesso: fermare la spinta riformatrice di papa Francesco.

L’INCHIESTA DI REPORT

Per allacciare un po’ di fili di questa intricatissima matassa torna utile ripassare le scoperte di una fenomenale indagine della trasmissione Report, recente inchiesta TV diventata già semi-leggendaria per bravura e portata.
Magari assaporando un mojito. Lo stesso che è stato consumato in una giornata di mezza estate in una discoteca nei giorni successivi alla pubblicazione di alcune registrazioni. Quelle che proverebbero l’esistenza di un patto segreto tra italiani e russi, una trattativa che si sarebbe svolta nell’hotel Metropol a Mosca il 18 ottobre del 2018. Qualcuno, rimasto fino a oggi segreto, ha registrato questa trattativa finalizzata a portare, attraverso la compravendita di gasolio, soldi freschi nelle casse sofferenti della Lega dopo lo scandalo dei 49 milioni delle truffe dei rimborsi elettorali.
Ad anticipare alcuni contenuti di queste registrazioni sono stati i giornalisti de L’Espresso. Poi il sito americano Buzzfeed ha pubblicato i nastri, le registrazioni integrali. Dalle voci emerge che c’è Gianluca Savoini, ex portavoce di Salvini, Gianluca Meranda, che è un avvocato con affari a Malta (toh!, ancora l’isola…) ed è un funzionario della banca londinese Euro-Ib, poi c’è un suo collaboratore, Francesco Vannucci, che è anche un ex funzionario del Monte di Paschi di Siena. Ci sono anche tre russi. Uno è rimasto fino a oggi nell’ombra. Poi c’è Andrey Kharchenko, un funzionario dell’ambasciata russa in Italia, dirigente del movimento politico che fa riferimento al sovranista Dugin. Poi c’è Yakunin, legato a un potente avvocato d’affari, politico, amico di Putin.
Il giorno dopo lo scandalo, sia il premier Conte che l’opposizione parlamentare dicono: «Salvini, vieni a spiegarci». Invece lui al Parlamento preferisce la spiaggia. È qui al Papeete, sulla famosa spiaggia di Milano Marittima, che quest’estate Matteo Salvini ha cercato rifugio subito dopo essere stato trascinato nello scandalo “Metropol” dal suo ex portavoce, Gianluca Savoini.

Nella formazione politica di Savoini e nel suo stretto rapporto con la Russia c’è una figura chiave degli anni di piombo: Maurizio Murelli, fin dagli anni ’80 punto di riferimento del neofascismo milanese. Murelli ha scontato undici anni di carcere per il concorso nel già citato omicidio dell’agente di polizia Antonio Marino, ucciso da una bomba a mano durante una manifestazione di piazza nel ’73. Dopo essere uscito di prigione, Murelli fonda Orion, un centro culturale che mescola idee neonaziste e filosovietiche, e lavora per la nascita di un continente euroasiatico sotto l’egemonia della Russia. Tra gli adepti di Orion c’è anche Gianluca Savoini.
In comune tra Murelli e Savoini c’è anche la Lega. All’inizio degli anni ’90 Murelli decide di far iscrivere al partito di Bossi i suoi uomini migliori del gruppo Orion per perseguire una precisa strategia politica. Il cui obiettivo è di estrapolare l’essenza del fascismo (e soprattutto del nazismo) per poi riuscire a rivitalizzarlo.
A un certo punto cominciano a vedersi i primi segni della nascita delle varie leghe in Lombardia, in Piemonte e in Veneto. Lui capisce che quelle possono essere il nuovo corpo a cui dare un’anima. «Io sono tra quelli che ha intuito la potenzialità di sviluppo della Lega. Quell’ambiente lì era culturalmente più debole ma con diverse, con notevoli potenzialità di sviluppo», dichiara Murelli ai giornalisti di Report. «Si buttano semi al vento, alcuni cadono sul terreno fertile e germogliano e altri no». E uno dei semi che germoglia è proprio quello di Savoini, che a partire dal 2013 diventa il consigliere più stretto di Salvini. È in quel momento che Salvini avvia la metamorfosi della Lega: da movimento secessionista e antimeridionale, diventa partito sovranista, con posizioni radicali che conquistano i neofascisti italiani.
Una prova importante si trova in un comizio del 2015 che Salvini fa a Roma con il leader di Casapound, l’organizzazione di neofascisti che Maurizio Murelli ha definito pubblicamente “suoi figli”. E qualche seme evidentemente deve essere germogliato anche in Russia. È infatti grazie a Maurizio Murelli che Gianluca Savoini conosce Alksandr Dugin, che nella trattativa del Metropol potrebbe avere avuto un ruolo.
Con l’arrivo di Salvini al governo, il rapporto di Dugin con Savoini e Murelli torna a essere particolarmente intenso. In una foto scattata nel locale gestito da Rainaldo Graziani, figlio di Clemente, fondatore del movimento neofascista Ordine Nuovo, Murelli e Savoini sono seduti allo stesso tavolo, poco distanti da Dugin, che quella sera viene omaggiato della “lampada di Yule” (immagine a destra), un manufatto della simbologia celtica, che il capo delle SS Himmler introdusse nelle cerimonie naziste.

È proprio Murelli che come già detto mette in contatto Savoini con Dugin in una cena del 2018 a Milano. Ma perché Murelli infiltra la Lega? Perché la ritiene quella culturalmente più debole, la cultura come argine. E Salvini? Salvini quando viene accusato di essersi avvicinato troppo a posizioni nazifasciste respinge le accuse al mittente. Ma Report ha trovato un sondaggio commissionato proprio dalla Lega nel 2017 e rimasto segreto. Salvini ha tastato il polso del suo elettorato sul nazifascismo. Ed emerge che una fetta, dal 45% al 71%, pensa che non vadano represse le idee sul nazifascismo, e che esso non sia un problema (!), e non se ne teme un ritorno. Ma è possibile ritenere un giudizio ancora “aperto”, questo dell’orrore che ha provocato la morte di dieci milioni tra ebrei, rom, ucraini, polacchi, sinti, omosessuali, quello che ha provocato le camere a gas, le fucilazioni e le stragi di Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema, Fosse Ardeatine? Questo orrore è da relegare a un sondaggio? E infatti da Via Bellerio hanno ritenuto conveniente non pubblicarlo.

Salvini sul “balcone di Mussolini”

Tuttavia quei risultati hanno dato forza a Salvini, tanto che il leader — ormai ministro — si è perfino andato ad affacciare a quello stesso balcone, a Forlì, dove si era affacciato Mussolini e, sia pur ministro di una repubblica espressamente “antifascista” come quella italiana, ha portato la sua solidarietà a quei balneari che a Chioggia gestivano una spiaggia ostentando simboli fascisti e nazisti. Ma questo perché Salvini ha nostalgia del nazifascismo? No. È solo opportunismo elettorale. Sa di poter contare su quei voti, sa di poter contare su quei germogli seminati da Murelli e che gli hanno consentito poi di presentarsi alla corte di quegli oligarchi russi  controversi che forse hanno avuto un ruolo nella trattativa del Metropol.

Savoini, a sinistra, con Dugin, terzo da sx, davanti al Metropol, 18 ottobre 2018

Ma c’è un’altra foto ancor più significativa. Quella in cui si vedono Dugin e Savoini davanti al Metropol la mattina del 18 ottobre del 2018, il giorno in cui si tiene la trattativa per la mega tangente. Un coinvolgimento del filosofo russo non è mai stato dimostrato, ma, stando alle rivelazioni del sito Buzzfeed, a negoziare con Savoini al tavolo del Metropol ci sarebbe stato anche Andrey Karashenko, che alcuni organi di informazione ufficiale russi indicano come dipendente del movimento politico di Aleksandr Dugin.
Dugin come detto è diventato uno dei principali ideologi del sovranismo europeo. Il filosofo russo auspica la fine della democrazia liberale e, stando alle sue parole, l’avvento di un populismo integrale e di una rivoluzione illiberale. Se in Russia il riferimento politico di Dugin è Putin, in Europa occidentale è Matteo Salvini.

«L’Italia è sempre stata serva dell’Unione Europea, di Bruxelles. Ha fatto politica sotto dettatura di qualcun altro. Anche perché alcuni temi etici al di là degli obbiettivi economici, la visione della famiglia, l’importanza della religione, della tradizione, delle lingue, mi sembra che stiano tornando anche grazie a molti giovani che se ne interessano». Salvini dice queste parole in un’intervista del 2016 a Tsargrad tv, all’epoca diretta da Dugin. Si tratta un canale di informazione militante, ultraconservatore e ultra tradizionalista. Il suo proprietario è Konstantin Malofeev, nostalgico dello zarismo e sostenitore di Putin. Possiede Marshall Capital, un fondo di investimento da 1 miliardo di dollari. Malofeev è uno degli oligarchi russi più ricchi e potenti. Sebbene si definisca un filantropo, nel 2014 è stato inserito dall’Unione Europea nella lista nera delle persone non desiderate. Da allora gli è vietato l’ingresso nell’area Schengen, gli sono stati congelati tutti i conti presso le banche europee e sono state introdotte pesanti sanzioni per chi fa affari con lui. Tutto ciò non ha impedito a Salvini negli ultimi anni di volare più volte a Mosca e incontrare l’oligarca filantropo.
Nel 2013, quando Salvini fu eletto segretario della Lega, tutti rimasero molto sorpresi nel vedere intervenire dal palco un russo, un certo Alexey Komov, che nessuno conosceva o aveva sentito nominare. Sarebbe interessante scoprire come mai i rapporti tra il mondo salviniano e quello di Malofeev si siano così velocemente intensificati dopo la sua elezione a segretario della Lega. Appena qualche mese dopo il congresso il suo portavoce Gianluca Savoini fonda infatti l’associazione Lombardia-Russia (esiste anche un’associazione culturaleLiguria-Russia”, nel cui consiglio direttivo siede Savoini: nell’agosto 2017 organizza a Vagli la cerimonia per l’erezione di una statua dedicata al militare russo Aleksandr Prokhorenko morto a Palmira durante la guerra contro l’ISIS); e chi nomina come presidente? L’uomo di Malofeev, Alexey Komov.
Stando a quanto hanno scoperto i giornalisti Vergine e Tizian nel loro “Libro Nero della Lega”, prima del Metropol, Savoini avrebbe avviato una negoziazione per il petrolio anche con l’Avanguard Oil e Gas, una società che aveva sede nello stesso palazzo delle società di Malofeev. Report ha scoperto che la presenza dell’Avanguard nello stesso palazzo di Malofeev potrebbe essere molto più di una semplice coincidenza. Dai documenti acquisiti da Report risulta infatti che l’un per cento della società è direttamente intestato a Malofeev e l’altro 99% appartiene a una compagnia diretta da un suo dipendente.
Prima delle sanzioni, Malofeev si è dimostrato molto generoso con i partiti di destra europei: al neofascista Jean Marie Le Pen ha fatto ottenere tramite una società cipriota un prestito di due milioni di euro e, stando alle accuse mosse contro Malofeev in Francia, grazie al suo intervento il Fronte Nazionale di Marine Le Pen avrebbe ottenuto tramite una banca russa 9,4 milioni di euro.

Giorgio Mottola di Report ha soprattutto scoperto l’agenda segreta di Malofeev, quella dove ci sono gli appuntamenti tra l’oligarca russo e le potenti fondazioni americane, conservatrici di destra, ultracristiane, che hanno stretto una sorta di santa alleanza e dalle cui casse è partito un miliardo di dollari per finanziare movimenti e fondazioni con la finalità di far implodere l’Europa. Tanti soldi, al punto da far tirar fuori un rosario anche a chi non aveva dato prova fino a quel momento di essere un fervente cattolico.
Il suo è un progetto politico internazionale che si basa su una stretta collaborazione tra Russia e Stati Uniti: proprio per questo a Washington la Right Wing Watch, uno dei più importanti centro studi sull’estrema destra, sta monitorando Malofeev da anni. San Basilio il Grande è la più ricca e potente fondazione russa: Malofeev, l’«oligarca di Dio», la finanzia ogni anno con decine di milioni di euro. Usa la fondazione per attività benefiche, ma soprattutto per combattere i nemici della cristianità. A partire dalla fantomatica “lobby gay”.

«E io personalmente affido l’Italia, la mia e la vostra vita al cuore immacolato di Maria che sono sicuro ci porterà alla vittoria» (Matteo Salvini a Milano, 18/05/2019, manifestazione “prima l’Italia”).
Da dopo che si sono intensificati i suoi viaggi in Russia, il rapporto pubblico di Salvini con la religione è profondamente cambiato: post social sulla Madonna, ostentazione di simboli religiosi baciati in pubblico, fino ad arrivare al sostegno pubblico dato al Congresso Mondiale delle Famiglie a Verona.
Il World Congress of Families a cui Salvini annuncia il suo sostegno è un’organizzazione internazionale antiabortista e contraria alle unioni omosessuali. Il presidente è un americano, Brian Brown, il suo vice è la vecchia conoscenza Alexey Komov. L’organizzazione esiste da più di vent’anni ma è stato Konstantin Malofeev a darle una nuova vita nel 2013: è l’anno in cui l’«oligarca di Dio» in gran segreto vola negli Stati Uniti a incontrare i capi della destra religiosa, con l’aiuto di Alexey Komov. A Washington incontra deputati repubblicani come Chris Smith, rappresentanti del Family Research Council, una delle più importanti associazioni antiabortiste americane, Nation For Marriage di Brian Brown, presidente del World Congress of Families e rappresentanti dell’Heritage Foundation e del Leadership Institute, due delle più potenti fondazioni repubblicane. La “Santa Alleanza” del World Congress of Families si riunisce pochi mesi dopo nel 2014 a Mosca per il primo congresso internazionale ultra tradizionalista organizzato da Malofeev. Gli americani partecipano sebbene poche settimane prima ci sia stata l’invasione della Crimea e la Russia e l’«oligarca di Dio» siano stati colpiti dalle sanzioni di Stati Uniti ed Europa.

Scorrendo la lista degli invitati al Forum di Mosca del 2014, troviamo una nutrita rappresentanza italiana. La delegazione più folta è quella dell’associazione “Pro Vita”. L’associazione Pro Vita si è fatta conoscere negli ultimi anni per sue campagne shock contro l’aborto e contro le unioni omosessuali. Il suo portavoce è Alessandro Fiore, figlio di Roberto, leader di Forza Nuova. E fino a qualche anno fa a distribuire il Notiziario dell’associazione Pro Vita era Rapida Vis, una società intestata ai figli del leader di Forza Nuova. In una email del database dell’OCCRP (Organized Crime and Corruption Reporting Project, Progetto di investigazione sulla corruzione e il crimine organizzato, organizzazione giornalistica non-profit fondata nel 2006 come un consorzio di centri di giornalismo investigativo, media e giornalisti indipendenti che operano in Europa orientale, nel Caucaso, in Asia Centrale, America Latina e Africa), Alexey Komov, l’uomo di Malofeev, definisce Roberto Fiore «il nostro amico italiano filorusso». E proprio a Komov, Fiore chiede aiuto per trovare un avvocato a un leader neofascista in carcere in Grecia.

Ma dalla Russia, oltre al sostegno politico, negli ultimi anni è arrivata anche una valanga di soldi al mondo pro vita italiano. Da tre conti dell’Est Europa legati a società dell’Azerbaijan e della Russia sono partiti oltre 2 milioni di euro, destinati alla Fondazione Noave Terrae di Luca Volonté, ex parlamentare dell’UDC e membro del direttivo, insieme ad Alexey Komov, dell’Howard Center, la fondazione presieduta da Brian Brown che organizza il World Congress of Families. A partire dal 2015, nel direttivo di Novae Terrae figura anche il senatore della Lega, Simone Pillon, che si è distinto per un controverso e discusso disegno di legge sulla famiglia, per le sue dichiarazioni contro l’aborto e contro i diritti dei gay.
Tra il 2012 e il 2016 dalla Novae Terrae sono partiti bonifici verso decine di associazioni del mondo pro vita ultra tradizionalista come “Citizen Go”, specializzata in campagne contro le unioni gay; lo “Iona Istitute” famoso per le sue campagne antiabortiste; i Papaboys; la francese “Manif pour tous”; l’americana “Sutherland Institute” e soprattutto la “Dignitatis Humanae Institute”, l’associazione di Benjamin Harnwell legata a Steve Bannon, l’ex capo stratega della Casa Bianca che dopo aver contribuito alla vittoria di Trump è sbarcato in Italia e ha iniziato a incontrare capi politici come Giorgia Meloni, cui ha offerto il suo sostegno.

Steve Bannon a Roma
Roma, 22 settembre 2018. Da destra, Benjamin Harnwell, Steve Bannon, Giorgia Meloni e Mischaël Modrikamen durante Atreju, l’evento degli attivisti di destra organizzato da Fratelli d’Italia. (Jabin Botsford, ‘The Washington Post’ via ‘Getty Images’)

Bannon andò a incontrare anche l’allora ministro dell’Interno Salvini e nel viaggio in auto verso il Viminale venne accolto da un emissario della Lega, Federico Arata, figlio di Paolo, socio occulto del re dell’eolico Vito Nicastri, condannato nel 2019 per aver finanziato la latitanza del boss Matteo Messina Denaro. Paolo Arata è accusato di aver promesso al sottosegretario leghista Armando Siri una mazzetta da 30mila euro per inserire un emendamento a favore dell’eolico. Ed è proprio con il figlio Federico che Bannon parla di strategie elettorali.
Steve Bannon aveva costruito la sua roccaforte italiana a Collepardo, in provincia di Frosinone, dentro una magnifica abbazia del 1200, la Certosa di Trisulti. Per otto secoli ci hanno vissuto i Frati Certosini. Bannon e Harnwell volevano costruirci dentro una scuola di sovranismo. Dopo un primo servizio di Report nell’aprile 2019, a causa delle irregolarità riscontrate il Ministero dei Beni Culturali revocò a Dignitatis Humanae la concessione.

E l’ennesimo cerchio si chiude. Decine di cerchi, anzi. Tutti con il medesimo centro.

Peraltro, nella costruzione della “Santa Alleanza” fra russi e americani la Dignitatis Humanae sembra aver avuto un ruolo tutt’altro che secondario. Nel 2014 durante un convegno dell’associazione a Roma, Steve Bannon interviene via Skype e benedice l’inizio della collaborazione con i russi. «Sapete, Putin è uno molto, molto, molto intelligente. Noi occidente giudaico-cristiano dobbiamo guardare con interesse a quello che dice sul tradizionalismo e al suo appoggio al nazionalismo. Credo che in questa fase storica, con la minaccia di un califfato alle porte, possiamo stringere un accordo con lui su alcune cose». Ed è proprio in questo periodo che si intensifica il flusso dei soldi da parte di associazioni americane ultracristiane verso l’Europa (negli ultimi dieci anni sono stati inviati in Europa bonifici per oltre un miliardo di dollari; quasi 700 milioni vengono da associazioni finanziate dalla National Christian Foundation, la più grande fondazione ultraconservatrice americana, che gestisce un budget di quasi due miliardi di dollari all’anno). Dai bilanci si sa solo a chi vanno i soldi ma non da chi provengono. E sui flussi finanziari verso l’Europa è tutto ancora più oscuro: non vengono indicati né i singoli Paesi europei, né i beneficiari. Tra le associazioni ultraconservatrici che hanno trasferito più soldi in Europa ci sono con quasi 50 milioni di dollari l’American Bible Society e quel Discovery Institute che propaganda teorie creazioniste pseudoscientifiche. E soprattutto ci sono svariate fondazioni appartenenti al World Congress of Families come l’Alliance Defending Freedom e l’American Center for Law & Justice, che finanziano a Bruxelles attività di lobbying per quasi un milione di euro. Ciliegina sulla torta è l’Acton Institute, una delle più potenti associazioni della destra religiosa americana, che ha anche una sede a Roma. Dal 2013 l’Acton ha inviato in Europa quasi un milione di dollari e ha lavorato a stretto contatto con la Dignitatis Humanae Institute.

Quanti cerchi si devono chiudere, prima che apriamo gli occhi?

IMPARARE A VIVERE IN UN REGIME AUTORITARIO

Ma se un giorno Salvini e tutti i suoi epigoni prendessero democraticamente (ossia con il regolare voto popolare) il sopravvento, cosa potremmo fare?
Quasi nulla, o nulla. “È la democrazia, bellezza”: se poi qualcuno impara ad approfittare dei suoi meccanismi, sono cazzi tuoi che distruggi la scuola dell’obbligo e in capo a vent’anni ti ritrovi con un popolo bue e cialtrone.
Fu negli anni Novanta che cominciarono a girare le pubblicazioni dei “geopolitici” russi, inebriati da Mackinder, Evola e De Benoist, i reazionari che i media italiani hanno scoperto grazie alle avventure di Salvini e del fido Savoini al Metropol e dintorni. Allora immaginarsi che Alexandr Dugin, che all’epoca si poteva trovare in redazioni scalcinate di riviste ciclostilate o in scantinati fumosi di periferia in compagnia di punk e pope spretati, sarebbe diventato consigliere del presidente russo e titolare di una cattedra all’università di Mosca, era impensabile quanto vedere un palazzinaro americano celebre per il suo cattivo gusto entrare alla Casa Bianca. La parola “sovranismo” non era ancora stata inventata, “populismo” significava qualcosa di molto diverso, e in quel momento i “geopolitici” ricordavano semmai i nazisti dell’Illinois: eppure erano il cuore di tenebra della Russia, nascosto ma pulsante.

È da qui che si può iniziare per scrivere il manuale: “Attrezzarsi per imparare a vivere in un regime autoritario”. Perché non arriva all’improvviso, avanza piano piano.
Inizia dall’ampliamento di quella zona del lecito che permette di insultare un’immigrata di colore, o di dire «frocio» a un gay. Tutto resta com’è, e dopo un paio di clamorose polemiche su frasi shock di qualche ministro ci si sveglia ed è tutto come prima, e ci si convince che in fondo sono solo chiacchiere, la vita va avanti, si lavora, si va a scuola, ci si vede al ristorante con gli amici, il tran tran della vita riprende inesorabile. Poi chiude un giornale (un partito, un think tank, una Ong), e tutti a dire «se la sono voluta», «non li leggeva/votava/filava nessuno», «erano in bancarotta, è il mercato», e poi «erano ladri» e «non vorrai mica difendere questi che erano al soldo di Soros» (di Macron, di Israele, dei rettiliani).
Poi arrivano un paio di leggi contro la libertà di stampa, l’indipendenza dei giudici, i diritti individuali, per non parlare degli omosessuali, dei tossicodipendenti e degli accattoni, e «insomma, ci vuole un po’ di ordine», «si stavano permettendo troppo», «è una misura temporanea», «non voglio che i miei figli vedano queste cose».

A chi protesta si obietta che sono degli “esagerati”, e poi «non puoi chiamarli fascisti, non si possono usare alla leggera questi termini ormai superati». Sempre più persone, civili, moderate e intelligenti, a prendere prudentemente le distanze, in fondo sono impegnate in attività molto più serie che andare a votare insieme alla plebe, che tanto «quello vuole», anche perché chi potrebbe proporre un’alternativa non è entrato in parlamento (non ha più ricevuto finanziamenti pubblici, frequenze, cattedre, spazi in TV).
Poi arriva il «in fondo si sta meglio, l’economia va forte», anche perché non c’è nessuno a spiegare che non è vero, o il prezzo che si pagherà a breve. Piano piano spariscono pezzi della vita abituale, un libro in meno, un confine in più, un obbligo o un divieto nuovo, ma sono minuzie, si può vivere anche senza, è solo stupidità di alcuni esponenti del governo, non puoi dedurne una tendenza globale. L’opposizione intanto litiga in nome della libertà, fino a frantumarsi in particelle infinitesimali ma irriducibilmente determinate a non sedersi a un tavolo con altre particelle altrettanto invisibili alle quali non si può perdonare un avverbio sbagliato pronunciato vent’anni prima.

Molte particelle si rassegnano e al motto di «la vita è una sola» vanno ad aggregarsi con il regime, del quale spesso diventano i difensori più sfegatati, come tutti i neoconvertiti.
I personaggi che abitavano gli scantinati entrano nel governo e quello che veniva snobbato dalla gente perbene come “delirio di pochi pazzi e ignoranti” diventa regola. Poi subentra il «però almeno gliel’abbiamo fatta vedere, all’estero ci rispetteranno di più, ci siamo ripresi il nostro orgoglio».
Poi si scopre che non c’è nemmeno bisogno di chiudere più nulla, perché tutti hanno capito cosa dire e cosa fare. La frase «non parliamone al telefono» torna di uso comune, insieme alle barzellette da raccontare a bassa voce ad amici fidati. La vita prosegue come prima, si va a lavorare, a scuola, al ristorante con gli amici. Per mantenere il lavoro bisogna qualche volta andare a una manifestazione per il governo, oppure stare zitti, «insomma, ci siamo capiti». Per finire la scuola tocca imparare la vita dei santi e a smontare e rimontare un kalashnikov, e pazienza se poi bisogna pagare le ripetizioni private perché la scuola prepara ad arruolarsi nell’esercito, ma non a essere concorrenziali nel mondo moderno. Al ristorante il menu si è accorciato, perché tra sanzioni, moneta in svalutazione e autarchia gastronomica, il governo ha deciso che cosa si può mangiare e cosa no. Ed è troppo tardi per cambiare idea, per dire no, non è più possibile.

Quanto descritto sopra non è un brano tratto da qualche memoria degli anni Trenta, o da una distopia orwelliana. È accaduto, sta accadendo da vent’anni, a tre ore di aereo dall’Italia, in un Paese che ha restituito la libertà al mittente con un voto, non con un golpe. LA RUSSIA. Ma il manualetto è valido per tante altre situazioni. I tratti comuni sono sempre gli stessi. Da un lato, una nazione in shock da modernizzazione, una modernizzazione fallita o che ha lasciato troppe vittime, che si rifugia nell’isolazionismo di un mitico passato glorioso e nella ricerca di capri espiatori immancabilmente “diversi” dai compatrioti. Dall’altro, un leader spregiudicato che infrange le regole non scritte della politica, aprendo la “pancia” di un Paese, pronunciando ad alta voce l’indicibile, incurante della verità e delle conseguenze pur di cavalcare la tigre che libera dalla gabbia. Una scuola scadente, dei media troppo asserviti o poco professionali o poco diffusi, uno Stato debole e corrotto e un passato di relativa chiusura al mondo sono ingredienti necessari ma non sufficienti da soli. L’aggiunta della polarizzazione da social — che Putin nel 1999 non aveva — rende il cocktail esplosivo.

Certo, la Russia postcomunista non è l’Italia, e se è per questo Putin non ha mai avuto una retorica estremista come Salvini (forse è uno dei motivi per cui il Cremlino non ha mai scommesso seriamente sul leader leghista). Ma per chi studia le dinamiche dell’autoritarismo — nazionalismo, sovranismo, populismo, fascismo, postnazismo, illiberalismo, vecchia o nuova destra, quel che volete — il déjà vu è inevitabile.

Il problema non si risolverà da solo, se non in troppi anni e con troppi danni. E il problema non è solo Salvini: scoperto il metodo con il quale fare il 34% dei voti, lo userà qualcun altro.
In attesa che tutti sviluppino le difese immunitarie per un morbo inedito — quando venne inventata la pubblicità tutti compravano le lozioni per far ricrescere i capelli, poi non ci sono più cascati —, bisogna attrezzarsi all’epidemia con mascherine, vaccini, quarantene e campagna di prevenzione. La caccia agli untori può apparire un rimedio tentante, ma imparare a lavarsi le mani, e insegnarlo agli altri, è più efficace.

IL RUOLO DELETERIO DEI MEDIA

Bisognerebbe intanto ripartire dai media. Da quei media — perfettamente istituzionali, quando non statali — che per anni hanno titolato sulla “banda di slavi” che rapinava ville e negozi di italiani (chi sono gli “slavi” resta ancora un mistero, è più o meno come dire “celti”) o che mostravano l’immigrato solo nella versione del profugo appena sbarcato, amplificando l’idea dell’invasione. Da quei media che intervistano i freak della politica senza contraddittorio. Da quei media che ormai si sono ridotti a ritrasmettere i tweet dei politici, a ingrandire corpo e foto e ridurre i pezzi, a chiudere uffici di corrispondenza e raccontare il mondo là fuori e la complessità della politica internazionale come un fumetto di supereroi. Da quei media che cercano la catastrofe e il pulp a tutti i costi, e che non hanno né tempo, né soldi, né voglia di verificare una notizia (se c’è stato bisogno di inventare il mestiere del fact-checker, vuol dire che i giornalisti non hanno fatto bene il loro lavoro). Da quei media che molto prima dei politici si sono messi a rincorrere il populismo (peraltro con risultati molto meno appaganti), preparando il terreno per partiti ed elettori che non sono calati da Marte. Senza rendersi conto che nella società mediatica il potere non si basa tanto sul monopolio della violenza o della moneta, ma sulla capacità di forgiare una narrativa in grado di diffondere benessere (o malessere).

Per quanto riguarda la democrazia italiana bisognerebbe cominciare una buona volta a studiare l’influenza del complesso sociologico-editoriale, che ogni giorno sforna nuovi allarmi su cui far ruotare l’intera produzione di analisi e opinioni che caratterizza il nostro dibattito pubblico: in Italia, una volta inserito nel circuito formato da giornalisti, sondaggisti e talk show, tutto finisce per diventare una forma più o meno edulcorata di populismo.

Il modo più semplice di identificare un leader populista — da Donald Trump negli Stati Uniti a Viktor Orbán in Ungheria, ai tanti casi più e meno recenti dell’America Latina — sta nel modo in cui si rapporta con la libera stampa, che subito additerà come il nemico principale. Questa è la ragione per cui nel resto del mondo (ma in fondo anche da noi) si fa tanta fatica a capire il populismo italiano. Perché da noi, in un certo senso, è accaduto il contrario: qui è la stampa che ha cominciato a prendersela con la politica democratica e con lo Stato di diritto, alimentando tutte le possibili campagne populiste contro i partiti («la partitocrazia»), il Parlamento («la casta») e le garanzie di cui tutti gli imputati dovrebbero godere («gli inquisiti»). In Italia le élite stanno con i populisti.

Beppe Grillo e il Movimento 5 Stelle non hanno dovuto inventare niente. Il loro lessico, il loro immaginario, tutto il campionario di complotti e cospirazioni di cui si sono alimentati, è semplicemente un concentrato di quello che la stampa italiana ha propinato ai suoi lettori almeno dagli anni Novanta a oggi. A cominciare dal fatto, ormai considerato normale, che ai partiti si applichi il lessico delle inchieste di mafia: capibastone, cupola, sicari. L’uso dei verbali di procura come surrogato dell’analisi politica ha finito per stingere persino sul vocabolario con cui di politica si parla. Non dare chiaramente per scontato che qualunque risorsa pubblica o privata passi per le loro mani sia una probabile fonte di corruzione, sprechi e clientelismo, appare ormai un’inaccettabile forma di servilismo e compromissione con il potere.
Un rovesciamento paradossale della realtà, che dipende dal fatto che in Italia il novantanove per cento dei giornalisti e degli intellettuali in generale si autorappresenta — o si fa gentilmente rappresentare dai colleghi, in attesa di rendere il favore — come «scomodo». Edicole, librerie e trasmissioni televisive traboccano di intellettuali «scomodi», tutti perfettamente inquadrati e irreggimentati, uniti e compatti come una falange.

Non c’è bisogno di scomodare la fisica quantistica e la complicata questione dell’osservatore-perturbatore della realtà osservata, perché qui non parliamo di particelle microscopiche, ma di qualcosa che si vede a occhio nudo. Che si parli di «allarme sicurezza», «emergenza immigrazione» o invocazione dell’«uomo forte», è evidente dagli stessi sondaggi che si tratta di fenomeni alimentati anzitutto dal circuito che pretende di analizzarli e raccontarli.

È vero che anche in America le invettive di Trump contro la «palude di Washington» attingono a un vasto network editoriale che va da Fox News ai siti cospirazionisti dell’estrema destra tipo Breitbart (di cui Bannon era a capo). Ma a contrastarli ci sono pur sempre quelli che i populisti definiscono spregiativamente «i media dell’establishment»: dal New York Times al Washington Post, alla CNN. Stampa realmente “libera”. Da noi le campagne contro la casta sono partite dal giornale più… castaceo, il Corriere della Sera (subito seguito da tutti gli altri).
E oggi ci sono in Italia almeno cinque giornali — per restare ai soli quotidiani, il branco dei quotidiani teppisti italiani, ma si dovrebbe parlare anche di certe radio — il cui bullismo sta formando l’ignoranza frustrata di un grosso pezzo del Paese e la cui priorità è l’avvelenamento dei pozzi e la costruzione di un continuo risentimento nei propri lettori da indirizzare contro qualcosa o qualcuno (gli immigrati, i politici, questo o quel partito, gli intellettuali, la Francia, le donne, questo o quel singolo capro espiatorio, l’Europa, le istituzioni nazionali stesse), e che sono responsabili di un peggioramento quotidiano della convivenza civile e del funzionamento e delle prospettive dell’Italia, peggioramento che poi provvedono ad attribuire a qualcun altro per perpetuare il meccanismo, col solo scopo — come fanno i peggiori politici demagoghi, a cui non a caso sono vicini — di accumulare consenso nei propri confronti intorno al fantasioso alibi di essere “quelli dalla parte del popolo” e “quelli dello smascheramento delle bugie”. Messaggio che trova sempre spazio nelle coscienze della parte ingenua e frustrata di tutti noi, e che serve a dare gratificazioni facili all’ego di chi lo diffonde e lettori che permettano la sopravvivenza — o il successo, persino — di giornali che hanno rinunciato a qualunque idea di servizio pubblico e di informazione corretta.
Guardando le prime pagine con occhi non storditi dall’abitudine è facile riconoscerli: è un altro linguaggio, è un’altra cosa, è propaganda e aizzamento, non è la cosa che se fossimo lettori normali di un Paese normale chiameremmo “informazione”.
Naturalmente è una scelta commerciale legittima — si pubblicano persino giornali che raccontano miracoli, o astrologia, e ci mancherebbe che non si possano pubblicare balle —, ma che deve essere descritta e trattata per quello che è.
Spazzatura. Rovinosa.


Excursus

«L’HO LETTO SU INTERNET»

IL MECCANISMO INFERNALE CHE FACILITA LA DISINFORMAZIONE (E IL LAVORO AI RUSSI)

La situazione la riassume con estrema lucidità Massimo Mantellini in numerosi articoli che provo a sintetizzare.
La maggioranza delle persone non controlla le notizie più volte al giorno. Le guarda una volta, di sfuggita, talvolta scorre i titoli mentre sta facendo altro. Legge o ascolta quello che accade mentre naviga sui social, dalla radio dell’automobile, di fronte a un televisore. Funziona così.
La grande maggioranza delle persone non sa chi sia il giornalista tale o cosa abbia detto ieri il “famoso editorialista” della TV, e distingue a malapena un giornale dall’altro. Giusto perché alcuni di questi giornali hanno negli anni fatto di tutto — ma proprio di tutto — per farsi riconoscere dal proprio pubblico più affezionato e detestare da tutti gli altri, perché per il resto i giornali sono quegli oggetti che pubblicano le notizie e tanto basta.

Quelle stesse persone tanto meno seguiranno l’evoluzione di una notizia nel giro di poche ore: così non si accorgeranno di come cambia nel tempo, degli errori eventualmente pubblicati e delle successive silenziose correzioni. Leggono un titolo, talvolta un articolo, in un dato istante, e poi lo archiviano così com’era in quel momento. «Ho letto su Internet che…»

Queste persone sono maggioranza: rappresentano circa il 50% di tutti gli italiani. E hanno ragione: la vita non è fatta dagli screenshot di una bufala pubblicata da un “autorevole” quotidiano online, o da un titolo sconsiderato pubblicato a nove colonne da uno dei più letti giornali italiani sul quale discutere animatamente nelle prossime 24 ore. L’altra metà, più o meno, non ha di questi problemi perché con l’informazione ha una relazione ancora più occasionale. Una buona quota di costoro, per antica abitudine — si tratta molto spesso di persone in età avanzata —, seguono un telegiornale in TV oppure (ormai pochissimi) acquistano al mattino un quotidiano di carta; l’altra quota residua è fatta di individui che alla mattina si alzano, escono di casa, vanno a lavorare, tornano a casa, senza mai incrociare una notizia. Per le ragioni più varie non sono interessati, non ne sentono il bisogno. Hai sentito cosa è successo? È appena scoppiata una guerra mondiale! Ah davvero?

Occorrerà pensare a questo scenario, che è uno scenario verosimile di un Paese che ha con l’informazione una relazione non troppo salda, per comprendere quale attenzione i media dovrebbero riservare alle notizie, la cura che dovrebbero dedicar loro, la cautela, che è forse la misura più rilevante oggi, da applicare come un sacro unguento nel tempo in cui la velocità delle connessioni dispone gli eventi di fronte a noi in una frazione di secondo. Un’attenzione che, invece di ridursi costantemente come sta accadendo da qualche anno, dovrebbe essere doppia, una volta preso atto della crisi e della fragilità del sistema informativo. Una crisi che ha mille colpevoli ma un solo effetto: impoverire ancora di più il livello culturale di un Paese che già ora non se la passa troppo bene.

Qual è lo scopo dell’industria culturale, in fin dei conti? Le possibilità non sono molte, forse sostanzialmente due.
1, diffondere la cultura (in quanto motore della conoscenza, della democrazia, del benessere sociale, etc.);
2, creare ricchezza (aziendale, personale, posti di lavoro, etc.) attraverso la cultura.
Fino a un quarto di secolo fa l’industria culturale non poteva fare a meno della forza bruta e con essa dei denari necessari per applicarla. Per consegnarla servivano cavalli, aerei, e poi camion e oggetti fisici da impaginare, incollare e distribuire. A un certo punto l’informazione si è fatta immateriale ma quella domanda è rimasta intatta.

Prendiamo l’esempio dei giornali, la cui traiettoria è stata in fondo la più semplice. Quando i più nerd di noi hanno cominciato a utilizzare Internet, verso la metà degli anni Novanta, una delle prime minuscole comunità nella quale si incappava era composta da persone che in giro per il mondo si scambiavano La bustina di Minerva di Umberto Eco. Tecnicamente un reato. Ogni settimana L’Espresso pubblicava la rubrica e Internet si occupava di diffonderla, amatorialmente, dove la sua carta non sarebbe potuta arrivare.
Se lo scopo dell’industria culturale era quello di diffondere conoscenza, Internet faceva certamente al caso nostro; se lo scopo era invece quello di creare ricchezza, Internet era già allora un nuovo pericolo che si stava affacciando. Tutto quello che stava nel mezzo, il mix inestricabile di necessità economiche del comparto e slanci etici dei singoli attori, era lì ad indicarci che sarebbe stato un casino. E così in effetti è stato.

In tutta questa confusione le persone maggiormente svantaggiate nel farsi un’idea realistica di ciò che stava accadendo sono stati sicuramente gli editori. È accaduto ovunque. Chi è arrivato tardissimo? Chi ha resistito disperatamente fino all’ultimo secondo nelle proprie posizioni nel momento in cui tutto sotto i loro piedi stava franando? Gli editori. Quelli musicali per primi e tutti gli altri a seguire. In nome del proprio istinto alla resistenza hanno bruciato denari ed intelligenze per almeno un decennio. Del resto è normale: tutti noi viviamo immersi dentro il nostro sistema di riferimento e faticheremo ad uscirne, anche nei momenti di crisi.

Così non è strano che il decano degli editori italiani, Carlo De Benedetti, da sempre storicamente mal consigliato o forse solo particolarmente testardo nelle faccende che hanno riguardato la trasformazione digitale dell’industria editoriale, continui a sostenere che il peccato originale dei giornali, la causa scatenante dell’attuale crisi definitiva, sia stata, anni fa, la scelta di rendere gratuiti i propri contenuti in Rete: i lettori così si sono abituati e oggi non intendono pagare quello che dovrebbero. L’analisi, da fuori dell’occhio del ciclone, è assai più semplice e ovviamente non riguarda così tanto i lettori: per un certo periodo il modello basato sulla pubblicità (lo stesso che ha retto per decenni i giornali di carta) è sembrato quello più promettente; quando si è compreso che così non sarebbe stato, chi ha potuto ha puntato su contenuti di qualità chiedendo ai lettori di pagarli. Da noi si è scelto di continuare a produrre spazzatura da click per poi scoprire che 1) la propria reputazione era definitivamente compromessa 2) quella roba misera e gratuita tutto sommato era risultata sufficiente per l’idea di informazione che avevano la maggioranza dei lettori. Oggi metà degli italiani si informa su Facebook: notizie adulterate, di pessima qualità, ridotte spesso a un titolo urlato.

Detto in altre parole: lo scopo principale dell’industria giornalistica italiana in crisi è stato quello di sopravvivere abdicando al proprio ruolo e alla fine non è andata bene per nessuno. La fiducia dei lettori è sotto i tacchi e la qualità dell’informazione anche.
E malgrado tutto questo, gli editori hanno poi iniziato a proporci i loro contenuti a pagamento in nome della conoscenza, del pluralismo e della democrazia. Solo che, nel momento in cui tutti i contenuti di qualità saranno passati dietro a un paywall, chi si occuperà della cultura delle persone?
“La verità è a pagamento ma le bugie sono gratis”: qui siamo ora. Le nostre migliori menti non sono liberamente raggiungibili (anzi si è creato un cortocircuito per cui se un articolo è liberamente leggibile nella maggioranza dei casi è considerato di scarso valore) ma le balle circolano come non mai.

Tutto questo è il risultato di una grande complessità e di problemi spesso difficili da risolvere, resi ancora più paradossali dal fatto che l’informazione si è affrancata da tempo dai cavalli, dai camion, dalla colla e dall’inchiostro, dalle edicole e perfino dai bar. Eppure qualcosa è andato storto lo stesso.
Riguardo alla domanda iniziale: l’industria culturale forse potrà essere considerata un’industria come un’altra, concentrata, com’è normale che sia, sulla propria sopravvivenza. Un’industria che però, e questa è forse la novità che riguarda soprattutto i giornali nella loro versione digitale, si sta trasformando, passo dopo passo, in un ostacolo alla nostra conoscenza.

LA RESPONSABILITÀ DEI SINGOLI

Ci sarebbe un solo modo di uscirne. Lo riassume mirabilmente Luca Sofri in questo “Dialogo di un venditore di almanacchi e di un twittatore”.

– Che hai?
– Sono arrabbiato.
– Perché?
– Perché ho dovuto cancellare un tweet che avevo fatto. Avevo twittato una notizia che non era vera.
– E come mai?
– L’avevo letta in un tweet dell’Ansa. Solo che non era vera, hanno scritto una cosa falsa, disgraziati.
– Eh, lo so, capita spesso. Ma perché sei arrabbiato?
– Perché ho dovuto ammettere che avevo sbagliato, ma è colpa loro, non mia!
– Ok, loro hanno una gran colpa, hai ragione: ma tu dovevi twittarlo per forza?
– Che c’entra?
– Beh, c’entra: puoi decidere se twittare o no una cosa.
– Ma tutti twittano cose!
– Vero, e infatti facciamo circolare un sacco di cose false.
– E non posso mica controllare se le cose che twitto sono vere, non è il mio lavoro.
– Eh, infatti è la ragione per cui esistono i lavori: ognuno fa il suo. Quello di informare invece è di tutti.
– Cosa vuoi dire?
– Che i giornali fanno una cosa professionalmente e assiduamente che però è la stessa che facciamo tutti continuamente, ovvero dare delle informazioni al prossimo. Se uno per strada ti chiede come andare alla stazione, tu glielo spieghi, e se gli dici una cosa sbagliata quello perde il treno.
– Ancora non capisco cosa c’entra.
– Se poi lo rincontri e lui si arrabbia con te, tu gli dici “non faccio mica il vigile urbano!”, seccato, o ti scusi e ti dispiace?
– Hmmm… Forse la prima, lì per lì: però, sì, mi dispiace. In effetti mi sono sbagliato, ma non l’ho fatto apposta.
– Certo. Lui però ha perso il treno: possiamo dire che tu abbia la tua parte di responsabilità nell’avergli fatto perdere il treno?
– Ok, ma aspetta, aspetta: nel nostro caso io gli ho detto una strada sbagliata perché ho guardato su “tuttelestrade.com”. È colpa loro!
– Ci avevi mai guardato su “tuttelestrade.com”?
– Qualche volta, ma è meglio Google Maps, “tuttelestrade.com” spesso sbaglia.
– Davvero? Anche se si chiama “tuttelestrade.com”? Dovrebbe essere il loro lavoro.
– Hmmm, dove vuoi arrivare?
– Alla stazione.
– …
– Dico che ogni cosa che facciamo crea delle conseguenze, e che questa relazione si chiama “responsabilità”. Siamo “responsabili” delle conseguenze di quello che facciamo, in qualche misura, e le misure sono spesso diverse: nei processi per rapina danno una pena più grave a chi ha picchiato il bancario per portargli via i soldi, rispetto a quello che ha prestato la macchina. Ma quello che ha prestato la macchina ha una sua parte di “responsabilità”.
– E se non lo sapeva, per cosa la usavano?
– Gliel’ha chiesta suo cugino condannato per altre dieci tentate rapine, vedi tu. Tu cosa pensi e cosa sai dell’accuratezza dei giornali?
– Scrivono un sacco di cazzate…
– Ok, non solo, ma ti seguo: quindi non è che tu non lo sappia, quando retwitti delle cose. Lo sai, dentro di te lo sai, se ti fermi a pensarci lo sai, che può essere una cazzata.
– Ma se penso così, non twitto più niente!
– Che potrebbe non essere una cattiva idea, tra l’altro: dimmi, che bisogno c’è di twittare una notizia che stanno già twittando molti altri, a cui non aggiungi niente? Perché lo fai?
– È la libertà di espressione! Vuoi vietarmi di twittare? Pensi di poterlo fare solo tu?
– Ci mancherebbe, ma come sai non c’è nessuna libertà che non implichi una responsabilità, oltre che delle limitazioni. Tu sei libero delle tue scelte, se ti assumi la responsabilità delle conseguenze delle tue scelte. Non puoi avere l’una senza l’altra.
– Perché no?
– Perché ci sono secoli di filosofia e giurisprudenza a spiegarlo, e perché se no ci autoassolviamo da tutto. Diventiamo la Casa delle Libertà, come diceva quello.
– Ma stiamo parlando di un tweet.
– Infatti ci sono cose più gravi, ci sono sempre cose più gravi. Il tuo tweet ha avuto piccole conseguenze, probabilmente: ma di quelle sei responsabile.
– Stai cercando di assolvere i giornali…
– Macché, il discorso vale anche per loro, anzi di più: ci sono responsabilità maggiori e minori, e da grandi poteri derivano grandi responsabilità, per citare al solito l’Uomo Ragno. Ma da piccoli poteri ne derivano lo stesso, di più piccole.
– E quale sarebbe il mio piccolo potere?
– Twitter, e i social network, e internet: sei diventato una persona che diffonde, condivide e persino produce informazioni che raggiungono moltissime altre persone molto rapidamente. Che tu non venga pagato per questo non fa nessuna differenza nelle conseguenze: alle conseguenze non frega niente di sapere che lavoro fai.
– Però le persone ai giornali credono più che a me, e i giornali hanno più follower.
– Bravo, vedi che quindi è una questione di quantità, ma non di qualità? Tu hai meno follower, ma non è che tu non ne abbia. Ti leggono, e credono sia vera la cosa che hai scritto. Ok?
– Ok, ma sempre pochi sono…
– Va bene, ora mettiamo che tu, che fai il postino, crei un account su Instagram di cose di postini…
– Io ho un account su Instagram di cose di postini!
– Ah, vedi: e come va?
– Insomma: ci metto le foto degli indirizzi strani che la gente scrive per sbaglio sulle buste e sui pacchi, ha 244 follower finora.
– Beh, non male: secondo me è una buona idea, e può funzionare. E metti che diventano cinquemila, o di più, e con il tuo account diventi un influencer e ti pagano per promuovere certe società di spedizioni…
– Magari.
– E ora hai centomila follower, ok? Sei un giornalista?
– No. Perché? Che c’entra?
– E un giorno leggi sul piccolo quotidiano del tuo comune – letto da tremila persone sbadatamente – una notizia importante, e la ripubblichi sulla tua pagina di cose di postini: e quella notizia però era falsa, e a diverse persone crea dei guai, o dei fastidi…
– È colpa del giornale!
– Daccapo con la “colpa”: io ti chiedo una cosa. Ha creato più guai il giornale a pubblicarla, o tu a riprenderla sulla tua pagina da centomila follower?
– Ma che ne sapevo?
– Beh, ormai dovresti cominciare a saperlo. E infatti lo sai. Lo sai bene che può essere falsa, o sbagliata, passi metà del tempo su Twitter a lamentarti dei giornali. Lo sai. E puoi decidere se pubblicarla o no.
– Ma mica posso verificare tutto! Io faccio il postino!
– Certo che non puoi, appunto. E non puoi nemmeno sapere tutti gli articoli del codice, e infatti non vai a difendere le persone in tribunale.
– Non sono mica avvocato.
– Bravo, e non sei nemmeno giornalista. Però fai le stesse cose che fa il giornalista, e con simili conseguenze: perché sono cose particolari, che facciamo tutti ogni giorno. Comunicare, informare, raccontare cose agli altri. Ogni volta che lo facciamo, cambiamo qualcosa nelle cose che sa chi ci ascolta. Ne siamo responsabili.
– E dovrei fare tutti questi pensieri ogni volta che twitto?
– Se me lo chiedi, sì. Oppure…
– Oppure?
– Oppure twitti meno. Pensi un momento a quanto sia necessario e se ci siano dei rischi, e poi decidi se è il caso di scrivere “è morta questa persona, mi dispiace molto”. Se esprimere il tuo dispiacere, o anche semplicemente “partecipare” dando una notizia – esserci – sia più importante di quanto tu sia certo di quella notizia: può darsi di sì, può darsi di no.
– Che ansia, però.
– Puoi fregartene, se vuoi, e non pensarci. E twittare qualunque cosa tu voglia. Decidi tu, sei libero, davvero.
– Sento arrivare un però.
– Però ne sei responsabile.


“Neo-Euroasianisti” e “Russlandversteher

NOTA FONTE: “L’influenza russa sulla cultura, sul mondo accademico e sui think tank italiani”, research paper dell’Istituto Gino Germani

Disinformazione, falsificazioni, grandi processi farsa, cooptazione del mondo accademico occidentale, guerre cibernetiche: c’è una continuità profonda tra i metodi sovietici e quelli della Russia di Putin — non a caso, ex-agente del servizio segreto dell’URSS egli stesso.
L’aspetto preoccupante è la profondità della penetrazione in Italia, Paese in cui gli intellettuali ed esperti di politica estera filo-russi presenti sono divisi in due grandi categorie: i “neo-Euroasianisti” e i “Russlandversteher”.
Quest’ultimo termine, nato nel dibattito politico tedesco recente, viene reso normalmente con “simpatizzante della Russia”, ma più letteralmente è “uno che comprende la Russia”, nel senso che non solo comprende le ragioni della Russia, ma le ritiene legittime, e ne spiega appunto questa legittimità. In Italia il termine ha assunto una sfumatura ulteriore: non si tratta solo di spiegare la legittimità degli interessi russi, ma anche di convincere gli italiani che questi interessi sono complementari a quelli del nostro Paese, o che per difendere gli interessi del nostro Paese ci potrebbe essere utile fare sponda con certi interessi del Cremlino che vengono a essere coincidenti.
Per comprendere invece cosa sia un “neo-Euroasianista” bisogna fare un passo di lato e accennare all’«Euroasianismo» (detto anche «Euroasiatismo») vero e proprio.
I Russi sono un popolo orientale che ha una diversa concezione dell’esistenza. A causa delle dimensioni del territorio, l’idea di proprietà è del tutto diversa. La proprietà delle persone come “cose” fa parte di questa cultura di base. Per secoli sono appartenuti a dei padroni, e poi sono appartenuti al Partito. I Russi hanno sempre bisogno di un dominatore, di un timoniere forte. Questa terra è un intreccio di tre elementi. Il primo è l’autocrazia: governo forte, uomo forte, un papà, uno zio, un Segretario del PCUS, un responsabile di kombinat, un capo di kolkhoz o di sovkhoz. Il secondo elemento è il territorio, la patria, l’amore per il proprio Paese e così via. Il terzo elemento è l’ideologia, politica o religiosa, che tiene insieme lo spirito popolare. Fra Chiesa e Partito Comunista, Dio e Comunismo, non c’è molta differenza. Se guardiamo la storia della Russia, troviamo sempre questi elementi uniti. È l’unico modo per tenere insieme la Russia: se togli un elemento, il Paese crolla.

Ivan Il’in

E infatti c’è pure l’ideologia sostitutiva già pronta, rimasta in un cassetto per un secolo, oscurata dall’imbroglio bolscevico del Comunismo. Per esempio gli scritti del filosofo religioso Ivan Il’in, fervente antisovietico, il quale credeva che la nuova identità nazionale russa si dovesse basare sulla fede ortodossa e sul patriottismo. O anche gli scritti di linguisti, storici ed economisti come Trubeckoj, Vernadskij e Savickij, e soprattutto dell’etnologo Lev Gumilëv, figlio della celebre poetessa Anna Achmatova, “l’ultimo eurasiatista” come amava definirsi: sostengono tutti la natura unica della Russia in quanto fusione delle culture slava, europea e turca dopo secoli di invasioni delle orde mongole. Questi pensatori sottolineano l’unicità del percorso eurasiatico russo, promuovendo la filosofia dell’«Eurasianismo» come alternativa all’Atlantismo dell’Occidente. Tanto che oggi in Russia si è fatta strada l’idea, tanto tra la classe intellettuale quanto tra la gente comune, che la civiltà russa non sia né europea né asiatica, ma per l’appunto “eurasiatica”.

Ivan Il’in è il faro filosofico di Putin e della sua cerchia, il più citato. E Il’in è stato un appassionato sostenitore del fascismo — non solo negli anni Venti quando sviluppò le sue principali teorie, ma anche dopo la guerra, fino alla morte avvenuta nel 1954 —. Il fatto è che Il’in, seguace di Kant e di Hegel, sviluppò poi teorie tutte sue, riprese e spesso citate da Vladimir Putin. Principalmente l’idea del ruolo secolare della Russia, della sua lotta contro i nemici che vogliono sempre impedirle di conseguire la sua missione. Che alla fine è quella di costituire una specie di impero su un vastissimo territorio per permettere «il ritorno di Dio». Lo storico Timothy Snyder dell’Università di Yale che lo ha studiato a fondo parla di un “fascismo russo”. E sottolinea alcuni concetti espressi dal filosofo che, evidentemente, oggi possono essere apprezzati molto dal signore del Cremlino: «Credeva che uomini audaci possono cambiare una realtà debole e imperfetta con azioni audaci».
Il’in completò la sua teoria del fascismo concludendo che la Russia era «l’unica nazione non corrotta e indebolita al mondo». Da una piccola regione attorno a Mosca, la Russia si era sviluppata in un impero ideale. Il’in era convinto che si fosse espansa senza attaccare nessuno pur essendo costantemente sotto attacco da tutte le parti. La Russia era la vittima perché gli altri Paesi non coglievano «le virtù che stava difendendo acquisendo maggiori territori».
Per Il’in, la Russia doveva essere governata da un capo indiscusso e indiscutibile. Le elezioni dovevano avere l’unico scopo di «confermare la subordinazione del popolo». La concezione del filosofo del «ritorno della Russia a Dio» richiedeva l’«abbandono non solo dell’individualità e della pluralità ma anche dell’umanità». Insomma, per raggiungere uno scopo superiore si può passare sopra a qualsiasi cosa: idee nelle quali certamente credevano Mussolini e Hitler.

I “neo-Euroasianisti” italiani hanno visioni radicali filo-Mosca e anti-occidentali. Sono spesso ammiratori di Aleksandr Dugin, percepiscono la Russia di Putin come un modello sociale e politico, nonché un potenziale alleato contro l’UE e le «élite globaliste» che avrebbero «impoverito l’Italia privandola della sua sovranità». I neo-Euroasianisti esprimono opinioni radicali anti-NATO e anti-UE e invocano un’alleanza strategica tra Europa e Russia.
I “Russlandversteher” italiani, invece, hanno una posizione filo-russa moderata e pragmatica, spesso basata su considerazioni di realpolitik. Tendono a percepire che: A) la Russia è un’opportunità piuttosto che una minaccia; b) l’Occidente è in gran parte responsabile delle rivoluzioni ucraine e dell’attuale crisi nelle relazioni Russia-Ovest; e C) anche se l’Italia è un membro della NATO e dell’UE, ha bisogno di avere un “rapporto speciale” con la Russia come garanzia energetica. Anche in questa componente c’è una traccia di risentimento per l’Europa a guida tedesca, che spesso si unisce infatti a simpatie per Trump o per la Brexit. Una idea abbastanza diffusa tra i Russlandversteher è però soprattutto quella secondo cui i veri nemici dell’Occidente sono la Cina e/o l’Islam radicale, piuttosto che Putin. Il quale, secondo questa visione, può invece essere un “utile alleato”: una suggestione sempre presente è quella dello schema triangolare con cui Kissinger, da Segretario di Stato di Nixon, impostò l’alleanza tra Occidente e Cina maoista contro l’URSS, facendo prevalere la convergenza di interessi strategici sulla purezza ideologica. Compito dell’Italia dovrebbe essere dunque quello di far capire a USA e Occidente questa opportunità.

Le posizioni del primo tipo sono minoritarie, sebbene in espansione, e tendono oggi a essere collocabili in un’area ideologica di destra, in contrasto con la storia novecentesca in cui l’ideologia filo-russa era notoriamente ancorata a sinistra. Quelle del secondo tipo sono invece diffuse ovunque.

La storia dei sentimenti filo-russi in Italia è d’altronde molto antica: il 24 ottobre del 1909 il re Vittorio Emanuele III e lo zar Nicola II firmarono a Racconigi un’alleanza tra Italia e Impero Zarista, e al di là degli slogan ufficiali su antibolscevismo e antifascismo anche Mussolini tentò di fare sponda con Stalin per controbilanciare lo strapotere di Hitler, prima di arrivare alla dichiarazione di guerra. La macchina di propaganda del regime fascista, pronta a pompare le malefatte dei «rossi» in Spagna, tacque per esempio sull’Holodomor, il genocidio per fame in Ucraina del 1932-33. E anche le relazioni economiche tra Italia fascista e URSS si mantennero sempre floride.
Nel secondo dopoguerra, durante la Prima Repubblica, i governi a guida democristiana legarono l’Italia alla NATO e alla Comunità Economica Europea e i partiti della maggioranza usarono spesso anche la propaganda antisovietica in campagna elettorale; tuttavia, da Enrico Mattei fino a Togliattigrad, continuarono a fare affari col blocco comunista in quantità. Un atteggiamento di fatto filo-russo che non era ostile all’Occidente. Accanto a questo, il PCI gramsciano e togliattiano tra il 1944 e il 1989 cercò di costruire una “egemonia culturale” in cui era presente non solo l’esaltazione del Socialismo Reale, ma anche una continua denigrazione dell’American Way of Life, e poi in generale del “consumismo occidentale”.
Quello che dopo il 1991 si caratterizza come «Eurasianismo» riprende in pratica questo humus culturale, facendolo però virare da sinistra a destra (e dal rosso al rossobruno). Restano l’avversione verso il capitalismo, la democrazia liberale, la cultura USA, l’integrazione europea. Piuttosto che basati su slogan come il no a imperialismo e sfruttamento del proletariato, tuttavia, vengono ancorati a temi come la difesa dei valori cristiani tradizionali contro la globalizzazione, l’immigrazione, il femminismo, le teorie di gender e le lotte LGBT+.

L’ESCALATION ITALIANA

Uno dei pionieri italiani di questo movimento è Claudio Mutti: ex attivista di estrema destra, esperto di lingue ugro-finniche e fondatore delle Edizioni all’Insegna del Veltro, con cui oltre a testi di Corneliu Codreanu, Julius Evola, Pierre Drieu La Rochelle (e perfino Adolf Hitler), pubblica anche, nel 1991, la prima traduzione in italiano di un’antologia di saggi di Dugin.
Altri personaggi di riferimento sono gli ex dirigenti del MSI Carlo Terracciano e il già citato neofascista milanese Maurizio Murelli, e l’esperto di geopolitica Tiberio Graziani. Il loro momento arriva in particolare al tempo dell’intervento di Bush in Iraq, quando la loro campagna anti-USA riesce a collegarsi a settori di estrema sinistra del cosiddetto Campo Antimperialista. Su questa medesima ondata, nel 2004 Mutti e Graziani fondano Eurasia – Rivista di studi geopolitici, che apre il suo primo numero con un saggio di — ancora lui, sempre lui — Aleksandr Gel’evič Dugin.
Varie intelligenze di questa area iniziano a penetrare anche nella Lega, specie dopo che nel 1999 Umberto Bossi, in occasione della crisi del Kosovo, ha preso posizioni filo-serbe. In particolare, a lavorare per il collegamento tra Eurasianismo, Lega e Dugin è il succitato giornalista Gianluca Savoini. Nel 2001 il processo si arresta temporaneamente, quando la Lega di Bossi decide di tornare con Berlusconi in un’alleanza occidentalista, e dopo gli attentati alle Torri Gemelle appoggia anche l’intervento USA in Afghanistan. Berlusconi, attraverso il rapporto personale che stabilisce con Putin, ha poi a sua volta una sterzata filo-russa, anche se più del tipo Russlandversteher.
L’animosità nel centro-destra italiano verso i tradizionali alleati occidentali cresce dopo che Angela Merkel e Nicolas Sarkozy sono indicati come mandanti di un “golpe anti-berlusconiano”, e si accresce quando la Primavera Araba crea un contraccolpo di rifugiati che investe in pieno l’Italia. Il parossismo è toccato con la crisi economica innescata nel 2008 dai mutui subprime e dal crac Lehman, crisi il cui peggioramento in Europa è imputato alle rigidità tedesche.
Su questa base, il 15 dicembre 2013 a Torino, Matteo Salvini è eletto segretario di una Lega lanciata verso una nuova proiezione nazionalista-sovranista, in un congresso dove, come già detto, tra gli ospiti d’onore figurano Viktor Zubarev (deputato del partito putiniano Russia Unita) e Alexey Komov (fiduciario dell’oligarca Konstantin Malofeev). Il ruolo di Savoini e della sua associazione Lombardia-Russia cresce, prima di andare a sbattere sulle intercettazioni dell’Hotel Metropol.

Nel frattempo, dopo la “rivoluzione colorata” in Georgia del 2003 e quella in Ucraina del 2004, Putin risponde richiamando in vita — modernizzandolo — l’apparato delle “misure attive” di epoca sovietica, appoggiandovi strumenti nuovi come il canale all-news RussiaToday (TV satellitare dotata di un seguitissimo portale in inglese), l’agenzia Sputnik (media company multicanale — radio, agenzia, sito web — che vanta persino un’edizione italiana; RussiaToday e Sputnik News sono controllate direttamente dal Cremlino tramite l’agenzia stampa Rossiya Segodnya) e una serie di fondazioni e istituti.
Oltre a Sputnik e RussiaToday, uno dei centri propulsori delle campagne di disinformazione è News-Front, un network composto da sito internet e account social, gestito dal servizio di sicurezza federale russo (FSB) e con sede nella Crimea occupata dalla Russia. Prima che venissero rimossi, i canali YouTube controllati da News-Front avevano raggiunto quasi mezzo milione di abbonati e mezzo miliardo di visualizzazioni totali. News-Front è accompagnato da altri network editoriali come New Eastern Outlook e Oriental Review, che sarebbero emanazione del servizio segreto straniero russo (SVR), e Rebel Inside, controllato dal GRU, l’agenzia di intelligence militare della Russia.

Accanto a questi, vengono finanziati in tutta Europa — a volte con cifre risibili, non superiori ai 500/700 euro al mese per i più fortunati — una miriade di microblog e micrositi web che non fanno altro che amplificare questa echo-chamber, moltiplicandone incontrollabilmente i contenuti. Si spacciano per “media alternativi”, e le loro banalità (finanziate dal Cremlino) le chiamano “controinformazione”. «Aprite gli occhi!1!!», «Non fatevi ingannare!1!» sono alcuni dei tipici urli di battaglia sui social. Mosca ci sguazza: Breznev o Andropov avrebbero sognato uno strumento come i social network.
La loro funzione dichiarata è offrire un punto di vista alternativo a quello dei media occidentali. E i loro lettori occidentali sono cresciuti in maniera esponenziale negli ultimi anni, in parallelo con il montare in USA ed Europa di quell’ondata sovranista che ha visto in Putin un punto di riferimento da contrapporre, in maniera a volte messianica, alle proprie classi dirigenti tradizionali.
Dove l’azione di questi network è più facile è all’Est, nelle democrazie più giovani e non ancora consolidate — quando non già precipitate nell’illiberalismo —. In Repubblica Ceca esistono centinaia di siti che diffondono disinformazione, divisi in due gruppi: i siti sulle teorie del complotto, che appaiono come blog di carattere non professionale, e i media alternativi, che si presentano come contrapposti ai “media nazionali schierati e di parte” e vantano un maggior numero di lettori. In Ungheria e in Moldova, le fonti di disinformazione sono anche i siti delle organizzazioni non-governative finanziate dalla Russia, ma i media nazionali (come l’agenzia di stampa statale ungherese MTI) sono tutt’altro che impermeabili all’informazione manipolata. La stessa situazione vige in Polonia. In alcuni casi i media russi hanno gli strumenti per spargere fake news direttamente: per esempio in Moldova trasmettono i canali televisivi russi Pervy kanal (primo canale), NTV e Rossiya.
I modus operandi sono comuni in tutti i Paesi “inquinati”: la copertura distorta degli eventi, la manipolazione con fatti o emozioni, lo sfruttamento di paure o punti dolenti, l’unione di eventi che non hanno alcun tipo di connessione tra loro, i riferimenti a fonti contestabili e/o l’assenza di riferimenti, il ricorso agli pseudo-esperti, il mancato confine fra il punto di vista d’autore e i fatti.

IL RUOLO DELLA STAMPA FILO-RUSSA

La contaminazione raggiunge presto i giornali italiani. Il 28 novembre 2004 esce sul Corriere della Sera un articolo di Sergio Romano che si intitola “La spina di Putin”, che chiede di tener conto degli interessi di Putin in Ucraina e che è considerato un po’ la prima uscita allo scoperto del mondo “Russlandversteher” italiano.
Perfino la rinomata (e insospettabile) rivista di geopolitica italiana Limes, a partire dal numero 3 del 2008 (intitolato “Progetto Russia”) si converte a Russlandversteher, con vari articoli che arrivano addirittura ad appoggiare la spartizione di Ucraina e Georgia.
Nel 2009 torna alla carica Sergio Romano, con la prefazione al libro di Edward Lucas “La nuova guerra fredda. Il putinismo e le minacce per l’occidente” in cui gli dà del «russofobo». Dopo la Rivolta di Kiev, mentre su opposte sponde politiche il Giornale e il Manifesto si schierano compattamente contro la protesta ucraina, negli stessi Corriere della Sera e Repubblica il numero degli articoli filo-Putin aumenta, sebbene sempre bilanciato con pezzi di diverso orientamento. Anche Massimo Cacciari inizia a fare interventi da Russlandversteher. Fra il 2014 e il 2015 vengono pubblicati in Italia ben 35 libri sull’Ucraina: alcuni di autori sconosciuti, altri di accademici affermati, in massima parte anti-Maidan.

Dopo le elezioni del 2018, in Italia vanno al governo i due partiti che più hanno attinto a questo humus: Movimento Cinquestelle e Lega. E il popolo filo-russo dilaga: il marxista dei dibattiti CasaPound Diego Fusaro, l’ex inviato in URSS e poi teorico del “complotto dell’11 settembre” Giulietto Chiesa, lo scrittore Nicolai Lilin, il leader di CasaPound Simone Di Stefano, l’ex seguace di Toni Negri Giuseppe Zambon, l’ex-direttore di RAI2 Carlo Freccero, il docente di storia del Caucaso a Ca’ Foscari Aldo Ferrari, il reporter di guerra Fausto Biloslavo, lo storico cattolico e medioevista Franco Cardini, quel Sebastiano Caputo insegnante alla Link University (tutto torna, tutto si tiene), editore di destra (casa editrice Magog, già Circolo Proudhon), antisemita, direttore del giornale online L’intellettuale dissidente il cui programma RAI annunciato a inizio 2019 fu bloccato per le proteste della comunità ebraica, il noto complottista e collaboratore di Sputnik Maurizio Blondet, l’ex vicedirettore di Famiglia Cristiana Fulvio Scaglione.
Ancora più degna di nota è una rete di connessione con think tank e università che, un po’ per interesse (in un momento in cui trovare finanziamenti non è facile) e un po’ per convinzione, coltivano determinate relazioni, e per una volta la Link Campus non c’entra: per esempio, la Fondazione Russkii Mir, strettamente connessa al Cremlino, ha centri di cultura russa alle università di Milano, Pisa e Orientale di Napoli; e l’Istituto di Stato di Relazioni Internazionali di Mosca ha una partnership con la Luiss, che gestisce un doppio master in collaborazione con ENEL. L’istituto moscovita ha un simile rapporto — con doppio master — anche con La Sapienza e con l’università di Urbino. Vari docenti legati tramite questi rapporti alla Luiss e alla Sapienza hanno espresso punti di vista pesantemente anti-Kiev, fino ad appoggiare una spartizione dell’Ucraina; La Sapienza inoltre ha una relazione di collaborazione con l’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG), stabilita nel 2010 dal citato Tiberio Graziani, il quale gode di contatti con varie entità russe ed è anche finanziato dal Ministero degli Esteri italiano. L’IsAG ha organizzato alcuni eventi per spiegare che Putin «è calunniato dai russofobi», e Graziani viene spesso intervistato da Sputnik.
C’è poi il caso di Ca’ Foscari a Venezia, che nel 2014 nominò professore onorario Vladimir Medinskii: non solo Ministro della Cultura russo, ma nientepopodimeno che il fautore della riabilitazione di Stalin. Perfino la SIOI, storica Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale, tradizionale centro di formazione per aspiranti alla carriera diplomatica ora presieduto dal berlusconiano (ça va sans dire…) Franco Frattini, il 24 settembre 2015 organizzò una “conferenza sulla crisi ucraina” in cui figuravano numerosi esperti italiani e russi, ma neanche un ucraino.

C’è un nodo geopolitico di fondo, naturalmente.
Su diritti umani, cybersicurezza e Ucraina la divergenza fra UE e Russia è cresciuta fino al punto da convincere più capitali che Putin persegua una strategia europea fatta di aperte aggressioni militari ai Paesi confinanti — Georgia e Ucraina — e incursioni cyber in quelli più distanti, al fine di creare una vasta area di instabilità geopolitica per consentire un rafforzamento dell’influenza russa nello scacchiere euro-mediterraneo.
La Russia si sta progressivamente “disconnettendo” dall’Europa anzitutto su questioni fondamentali come il rispetto dei cittadini e la tutela delle minoranze — in una parola: sullo Stato di Diritto —. Nessuno ignora che Europa e Russia abbiano radici culturali e politiche assai diverse ma la comune intenzione, dopo la fine della Guerra Fredda, di dar vita a una forte partnership si scontra ora con una gestione del potere da parte del Cremlino che include l’uso di armi chimiche per eliminare gli oppositori, vede Vladimir Putin da oltre venti anni alla guida incontrastata della nazione e ostacola la genesi di ogni tipo di dissenso interno.
La cybersicurezza ha a che vedere invece con le “interferenze maligne” che i Paesi UE e NATO dal 2016 in più forme e modi hanno attribuito ad “attori russi”, imputando a Mosca una sofisticata strategia di infiltrazioni digitali — in Europa come in Nord America — tese a creare scompiglio nelle singole nazioni al fine di indebolirle dall’interno con ogni strumento possibile: dal sostegno ai movimenti di protesta populista e sovranista alla diffusione delle fake news, dal furto di brevetti allo spionaggio militare vero e proprio.
Infine c’è la questione dell’Ucraina, ovvero dell’intervento con cui la Russia nel 2014 ne violò la sovranità, si annesse la regione della Crimea e aprì la crisi militare nel Donbass divenuta da allora — con almeno 14 mila vittime — la maggiore emergenza umanitaria europea.

Leggi anche: Il caso emblematico del 5G

La postura particolarmente assertiva assunta dalla NATO nei confronti delle iniziative russe in Ucraina a partire dal 2014 rappresenta un grosso problema per Mosca, in particolare lo schieramento preventivo che ha assunto l’Alleanza nei Paesi baltici (la cosiddetta “Enhanced Forward Presence”). Un altro elemento che dà molto fastidio ai russi è la presenza della NATO nel Mar Nero.
Per quanto riguarda l’Italia e la presunta “convenienza alla russofilia”, sarebbero in realtà molti i campi di interessi in conflitto con la Russia, dal sostegno di Mosca al governo-fantasma libico di Tobruk, all’influenza russa nei Balcani. Il gas è un altro grande scenario di collisione tra interessi italiani e russi: in particolare, il Cremlino non vede di buon occhio il progetto di trasformazione dell’Italia in un hub energetico europeo del sud. L’Italia è la principale porta d’accesso per la diversificazione del paniere energetico verso l’Europa: trasporta gas in Europa da Algeria, Libia e Azerbaigian. E infatti il progetto TAP è osteggiato in tutti i modi dai russi.
Dunque bisognerebbe andarci quantomeno coi classici piedi di piombo, prima di parlare di “convenienza”.

“Soft power”, lo chiamano. Operativamente si tratta di disinformazione, spionaggio e cooptazione del mondo accademico e culturale occidentale. Il succo è che, superati i dieci anni di sbandamento sotto Eltsin, l’URSS è tornata sotto altre vesti. Con un colore politico opposto. Ma con le stesse, immortali ambizioni imperiali.

Ed è davvero insopportabile l’ingenuità dell’«anti-imperialismo» orientato solo contro gli Americani, quando in fatto di imperialismi ne abbiamo un altro, gigantesco e oscurantista, proprio alle porte di casa.

In fin dei conti, le radici del male sono ancora sotto i nostri occhi, a distanza di appena 30/35 anni. La stagione gorbacioviana della perestrojka superò la diffidenza, ma non la differenza, con il Grande Orso orientale. Gigante coi piedi d’argilla, imbalsamato dalla nomina di Cernenko alla guida del Cremlino, il sistema sovietico non poté proseguire la corsa agli armamenti, e avviò la strategia del dialogo, del confronto, delle riforme. Nella perestrojka l’URSS e l’Occidente sembrarono scambiarsi le parti: Michail Gorbacëv nei suoi viaggi europei raccoglieva un consenso mai visto per un leader sovietico, ma in patria l’equilibrio tra la struttura autoritaria e la gestione del potere tollerante non reggeva e l’uomo che l’Europa acclamava come il primo riformatore, a Mosca veniva criticato come l’ultimo segretario generale. Si ribellavano le repubbliche che chiedevano la propria indipendenza, protestavano i progressisti per il passo troppo lento delle riforme, reagivano i conservatori del PCUS, dell’esercito, del KGB con un golpe che il presidente della Russia, Eltsin, ribaltò imponendo a Gorbacëv la fine dell’URSS e la dissoluzione dell’impero.

Fu in quel momento di debolezza e di smarrimento che l’Europa avrebbe potuto dialogare con Mosca per spingerla a una seconda conversione, questa volta alla democrazia dei diritti e delle istituzioni, scambiando aiuti in cambio di riforme. L’Occidente compì probabilmente un errore storico, perché non giocò la carta della pressione per una trasformazione democratica dell’URSS ridivenuta Russia: anzi, sbagliando, ritenne che Mosca fosse ormai ridimensionata nelle sue ambizioni e nella sua influenza, e potesse essere retrocessa al rango di potenza regionale. Una sottovalutazione, ma soprattutto un’incomprensione, perché non teneva conto che la dimensione imperiale della Russia non era una sovrastruttura dello Stalinismo e ancor prima dello Zarismo, ma un elemento della natura russa, parte della sua anima, qualcosa di insopprimibile, di eterno. Il consenso di Putin — e la ripulsa postuma di Eltsin e Gorbacëv a Mosca — si spiegano proprio attraverso questa perennità imperiale che vuole sopravvivere, un’autocoscienza a cui l’Occidente non ha mai dato un segno di riconoscimento, provando invece a pilotarla verso un approdo democratico.

Piuttosto, Vladimir Putin ha giocato la carta contraria, andando direttamente all’attacco della cultura liberale che è alla base delle costituzioni e delle istituzioni europee, giudicandola “obsoleta”, perché «il liberalismo ha tradito i suoi presupposti» e «non è più capace di rappresentare gli interessi dei cittadini». Da Mosca, dunque, alla fine di questa contrapposizione storica, arriva l’arma finale, un pensiero politico che separa la democrazia e il principio liberale, aprendo la strada a un’inedita “democrazia autoritaria”.
E così il cerchio si chiude: finito il secolo della rivoluzione, la Russia torna a essere per l’Europa quello che l’800 chiamava “il nemico ereditario”, accumulando in pochi anni antagonismo militare (con la penetrazione in Medioriente e le mire sul Mediterraneo), espansionismo sovranista (la Crimea, il Donbass), infiltrazione strategica (i cyber-attacchi), compravendita di segreti NATO, il tutto rivestito da una nuova vernice ideologica, con la teorizzazione putiniana dell’autoritarismo come cultura politica e istituzionale figlia perfetta dei tempi, dopo la stagione esausta della democrazia.


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