Se come Paese siamo arrivati all’attuale livello infimo in cui fatichiamo a galleggiare, in campo politico, sociale, culturale, lo dobbiamo anche alla inadeguatezza della nostra informazione. Che, unita all’analfabetismo funzionale e all’ignoranza generalizzata (e scientemente pianificata) di gran parte della popolazione, costituisce un mix micidiale per le speranze sul futuro dell’Italia.
Oggi nelle scuole di giornalismo qualcuno celebra il nuovo ruolo dei giornalisti come “debunker”, citando la loro capacità di “smascherare le bufale del web”.
Pur comprendendo che ci si possa trastullare e gloriare nella pretesa di tramandare l’idea di una distinzione tra il giornalismo professionale e il resto dell’informazione, il compito principale del debunking in Italia è in realtà quello di smascherare le bufale dei media tradizionali, più che del web: non solo e non tanto perché questi ne ospitano in grandi quantità quotidiane, ma anche perché la loro capacità di diffonderle e di influenzare le cose che pensiamo, il modo in cui capiamo il mondo, le decisioni che prendiamo, come votiamo, è molto maggiore di quella dei falsificatori sui social network.
E non è mica vero che di questa cosa “non muore nessuno”. La sciatteria nei giornali uccide. Si può citare almeno un caso da manuale: fu quando il sensazionalismo terrorista dei quotidiani italiani, dati alla mano, portò davvero delle persone alla morte in senso letterale. La volta dei “vaccini killer”.
Fra la fine di novembre e l’inizio di dicembre del 2014 per ben sei giorni l’ipotesi che un vaccino antinfluenzale (il Fluad) potesse avere ammazzato delle persone, pur in assenza di qualunque prova in tal senso, fu avallata in misure diverse su tutte le prime pagine dei quotidiani italiani. Per sei lunghi giorni i lettori di tutti i quotidiani furono informati del fatto che «a vaccinarsi si moriva». Così alcuni morirono per la ragione opposta (non si erano vaccinati). Soltanto al settimo giorno l’isteria finì ufficialmente: quando l’Agenzia Europea del Farmaco negò qualsiasi rapporto fra il Fluad e i presunti danni dei vaccini antinfluenzali.
La cattiva informazione tradizionale è responsabile del cattivo funzionamento della democrazia, e di conseguenza della nostra società e del nostro Paese: nella storia recente c’è un altro caso palese e abbastanza definitivo.
Redazioni abituate a usare con leggerezza fonti inaffidabili e screditate e a privilegiare i titoli allarmanti e divisivi sull’interesse a capire se le cose siano vere o false, dànno enorme spazio alla versione di un fatto falsa e questo genera giudizi, indignazioni, preoccupazioni, prese di posizione su un tema di grandissimo rilievo etico, culturale e politico (la vita, la morte) che arrivano persino a coinvolgere il Papa, il quale per il suo ruolo si ritrova costretto a formulare un richiamo alla comunità cattolica intera. Il secondo esempio di cui parlo è quello della ragazza di 17 anni, Noa Pothoven, che si è di fatto suicidata in Olanda: probabilmente in conseguenza della sua sofferenza psicologica che durava da anni, legata alle violenze subite, e all’anoressia.
Come è successo che sulle prime pagine dei quotidiani e dei telegiornali italiani il suicidio di una ragazza depressa diventasse un caso di “eutanasia avallata legalmente” dallo Stato olandese? In base alle successive ricostruzioni, è stato il Daily Mail, tabloid britannico famigerato, a dare per primo grande spazio alla versione che la ragazza fosse stata “legally euthanized”; malgrado in Olanda nessuna fonte dicesse questo, la versione del Daily Mail è stata ripresa immediatamente da tutti i maggiori siti di news in Italia: che evidentemente usano il Daily Mail come fonte dandogli la stessa credibilità che dànno al New York Times — e probabilmente leggendolo con maggiore frequenza —. Per la semplice ragione che il Daily Mail è un pusher quotidiano di quei contenuti e quelle notizie a cui i quotidiani italiani dànno priorità: assurdi, paurosi, divisivi (veri o no che siano).
È anche interessante vedere cosa è successo dopo. La mattina del giorno seguente i siti di news di mezzo mondo, imbeccati dal Daily Mail ma evidentemente anche dal grande spazio sulle tante prime pagine italiane, hanno cominciato a riprendere tal quale la notizia dell’eutanasia legale. A quel punto i pochi siti di news internazionali cui si può ancora attribuire un’attenzione alla verifica delle notizie si sono comportati nel modo che segue. Il New York Times e Le Monde non avevano pubblicato niente, mai, sulla vicenda. Il Washington Post aveva corretto un primo articolo sulla morte della ragazza, rendendolo prudente e in ogni caso non parlando mai di “eutanasia”. Nemmeno il Guardian aveva pubblicato niente: sarebbe uscito nel pomeriggio un articolo che smentiva l’eutanasia, e soprattutto che metteva in rilievo il ruolo dei media italiani nel diffondere la bufala dell’eutanasia legale. E in Italia?
Qui da noi la diabolica alleanza tra i quotidiani mentitori per faziosità politica e ideologica e i quotidiani mentitori per cultura della sciatteria, della non-verifica e del sensazionalismo produceva questi altri titoli in prima pagina:
Noa, l’eutanasia a diciassette anni dopo la violenza
Depressa dopo uno stupro, ha voluto l’eutanasia a 17 anni
Un caso scuote l’Olanda – Noa, eutanasia a 17 anni
Olanda, suicidio di Stato a 17 anni
Orrore in Olanda, eutanasia per Noa
Ragazza di 17 anni ottiene l’eutanasia perché è depressa
Il Giornale, La Repubblica, La Stampa, La Verità, il Fatto Quotidiano. Testate così diverse, ma del tutto indistinguibili. La falsificazione è stata ritenuta utile sia da chi ha un’agenda contro il tema del “fine vita” (e in generale contro i modelli progressisti nordeuropei), sia da chi sosterrebbe senz’altro di non averla o di averla opposta. A dimostrazione che non è la faziosità politica il problema maggiore e comune dell’informazione italiana, quanto piuttosto una cultura dell’inaccuratezza e della falsificazione che la precede e prescinde da quella.
Intanto, grazie a tutto questo, era intervenuto il Papa, per dire che «l’eutanasia e il suicidio assistito sono una sconfitta per tutti» a cui «la risposta è non arrendersi». E sempre grazie a tutto questo milioni di italiani si sono sentiti raccontare per due giorni da tv, giornali e siti web che “quando l’eutanasia viene autorizzata e regolata poi succede che a una ragazzina depressa venga permesso di uccidersi, col concorso dello Stato e della Sanità pubblica” (!).
Milioni di italiani che poi votano, in base alle opinioni che si sono fatte.
Italici difetti
Ora, il giornalismo italiano ha scritto grandi pagine in tutte le stagioni, dal pre-fascismo al dopo-Tangentopoli, questo è innegabile. Altrettanto innegabile tuttavia è che lo abbia fatto e lo faccia senza mai sentire come propria una vocazione al “quarto potere”, e interpretando semmai una tendenza al fiancheggiamento di tutti i poteri. Poteri non necessariamente di governo. Anche di opposizione. Con un consociativismo diffuso in tutti i rami dell’informazione: i giornalisti giudiziari sono indulgenti con i magistrati, i critici cinematografici con i grandi registi e lo stesso vale per il giornalismo sportivo, culturale, sindacale, per non parlare di quello economico. Con una tentazione comune: partecipare al gioco, consigliare il potente. Condizionarlo. Dettargli la linea.
Quanto sono lontani da noi, il Washington Post, il Watergate, l’importanza dei mezzi d’informazione liberi e indipendenti per la difesa della democrazia… In quel famoso caso non ci furono solo un paio di persone, i reporter Bob Woodward e Carl Bernstein (ma anche il loro direttore Ben Bradlee), “alla ricerca della verità”. Ci fu un intero gruppo di personaggi con ruoli importanti o minori che seguirono la loro coscienza: il consigliere del presidente presidente Nixon, John Dean, e le rivelazioni della sua testimonianza durante le udienze al Congresso; il procuratore generale Elliot Richardson e il suo vice William Ruckelshaus, che si dimisero entrambi piuttosto che seguire le richieste di Nixon e rimuovere il procuratore speciale Archibald Cox; e soprattutto i Democratici e i Repubblicani del Congresso: Nixon si dimise perché la Commissione Watergate del Senato, composta da elementi di ogni colore politico, come si suol dire fece il suo lavoro, anche costoro seguendo la propria coscienza. Oggi è facile pensare al Watergate come a un singolo evento. Non fu così: fu una storia di onestà che si svolse in 26 mesi e richiese molti atti di coraggio da parte di americani dell’intero spettro politico e dell’informazione. Il tutto, innescato dalla libertà e indipendenza del giornalismo vero. Un giornalismo accurato, obiettivo e onesto difende la democrazia. Poi dici gli Americani.
(La stessa parola “Watergate” è diventata linguisticamente produttiva nel linguaggio giornalistico americano: il suffisso -gate compare regolarmente, oramai scisso dal suo etimo originario, col significato di “scandalo”, in molti neologismi quali Irangate, Whitewatergate, Datagate, Russiagate.)
Il genere giornalistico che si è più affermato qui da noi è invece il “retroscena”. Una testatina che nasce nell’autunno del 1990 (il primo Retroscena, con tanto di logo, esce su La Stampa, diretta da Paolo Mieli, il 2 ottobre 1990: lo firma Filippo Ceccarelli ed è dedicato alle condizioni di salute di Antonio Gava) con l’idea di accendere i riflettori dietro la scena, scavando tra parole, pensieri e fatti che prendono luce per effetto della capacità del giornalista. Un lavoro che, quando è ben fatto, è di grande soddisfazione per il lettore. E per lungo tempo è stato un luogo di qualità. Però come tutti i generi di successo, inflazionandosi, da una parte diventa maniera, dall’altro attira l’interferenza interessata dai politici. Come ha spiegato Guido Quaranta, per tanti anni pioniere solitario di un giornalismo irriverente: «Oggi mi sembra che i retroscena siano dettati dai politici, sui giornali finiscono le frasi che loro hanno interesse a far uscire, per scambiarsi qualche messaggio in codice».
Oltretutto nel retroscena le notizie vere talora si intrecciano con virgolettati apocrifi e notizie più orecchiate che vere. Teoricamente notizie destabilizzanti: e invece raramente scattano le smentite. O perché il politico di turno (o il suo spin-doctor) sono gli autori occulti di quelle indiscrezioni. Oppure perché è comodo far credere che la notizia sia vera. Anche se è falsa. Ma la parziale deformazione della realtà si consuma per tante vie. Per non perdere troppo terreno dalla tv, i grandi giornali hanno dato sempre maggior spazio a una titolazione enfatica, un fenomeno che ha fatto scrivere a Pietro Citati: «Grandi titoli irreali annunciano gli avvenimenti; e spesso non hanno alcun rapporto coi fatti né coi resoconti, come una incantevole musica astratta».
In definitiva i retroscena e i titoli irreali sono due porti franchi nei quali vero, parzialmente vero e falso convivono. Sui giornali italiani, oltre a tanto e solido prodotto professionale, si esprime un linguaggio convenzionale al confine tra verità ed esagerazione, al quale finiscono per assuefarsi sia chi scrive sia chi legge. Tutti pienamente consapevoli che ciò che è pubblicato può essere vero, esagerato, ma anche falso.
E alla lunga questo fenomeno da una parte erode la credibilità dei giornali, dall’altra sdogana la categoria del verosimile, che al momento opportuno è sposata con entusiasmo dai politici.
Trent’anni di decadenza
I media del Belpaese, in decenni di racconto personalizzato e drammatizzato, hanno trasmesso una rappresentazione della politica nella quale esistono soltanto buoni e cattivi, vincitori e perdenti. E con il loro linguaggio semplificato, sincopato e aggressivo hanno alimentato uno standard comunicativo al quale i leader politici si sono allineati. Con un effetto paradossale: i personaggi emersi negli ultimi anni hanno fatto propria l’indignazione e il linguaggio dei media e al tempo stesso ne sono un prodotto. In una sorta di simbiosi. Se la forma del comunicare politico oramai è importante almeno quanto il contenuto, la “colpa” non è dei media, ma una loro responsabilità oggettiva è agli atti.
Ripercorrendo gli ultimi trent’anni di politica italiana si scoprirà che l’escalation dei principali leader, da Berlusconi a Salvini, passando per Renzi e Di Maio, è stata preceduta e preparata da una formidabile semina mediatica. Sul declinare della Prima Repubblica, Michele Santoro fece da battistrada e aprì una lunga striscia di imitatori: talk show quasi tutti privi di contraddittori significativi, ma soprattutto impregnati dallo stesso mood, indignato e vittimista. Sempre all’inizio degli anni Novanta, L’Indipendente di Vittorio Feltri, col suo linguaggio pop, divenne l’apripista di un giornalismo gridato, al quale alla lunga si sono allineati anche i politici. E quanto ai principali giornali, anni e anni di “retroscena” sanamente ficcanaso — ma talora apocrifi — hanno contribuito a sdoganare la categoria del verosimile: una terra di nessuno nella quale i leader si sono trovati a proprio agio.
Nel 1959, dimettendosi volontariamente dal quotidiano La Stampa, Enzo Forcella scrisse per Tempo Presente un articolo titolato “Millecinquecento lettori”, lasciando questo brano memorabile: «La caratteristica più tipica del nostro giornalismo politico, forse dell’intera politica italiana […] è l’atmosfera delle recite in famiglia, con protagonisti che si conoscono sin dall’infanzia, si offrono a vicenda le battute, parlano una lingua allusiva e, anche quando si detestano, si vogliono bene».
Nella sostanza in 60 anni non è cambiato nulla: nella forma sì. Ora, del gioco, i media sono parte integrante.
Ecco come è andata. Subito dopo Tangentopoli in televisione si produce un fenomeno originale, una clamorosa nemesi della quale sul momento nessuno si accorge: Politica e Antipolitica iniziano a fare spettacolo. E questo porta alla più massiccia invasione di politici sullo scenario televisivo mai avvenuta in una democrazia occidentale. Mentre nel 1990 le puntate di talk erano state 861, nel 2000 raddoppiano e nel 2010 risultano quasi triplicate. A dispetto della nobile tradizione RAI — che a partire dalla Tv7 di Sergio Zavoli aveva prodotto informazione di ottimo livello —, a tutte le ore dilagano soltanto talk show nel segno del battibecco. La pigrizia nell’affrontare con approccio giornalistico temi anche spinosi e impietosi per la classe dirigente e la scelta di puntare sulla drammatizzazione sempre e comunque, finiscono per aiutare un fenomeno che in Italia ha una potenza sconosciuta altrove: i principali problemi sociali sono percepiti in termini assai più drammatici rispetto al loro reale manifestarsi.
Salta il tappo della vecchia politica e anche la carta stampata cambia registro. Si afferma in questa fase un genere che 25 anni dopo è più in auge che mai: il citato giornalismo urlato. La delegittimazione prodotta da Tangentopoli sblocca (e sbrocca) anche i quotidiani più tradizionali.
Apripista il suddetto Michele Santoro, che in tv riesce a creare un sentiment che non sfugge all’occhio attento di Beniamino Placido, critico televisivo de La Repubblica, il quale nota subito la capacità non comune del conduttore di fare informazione di qualità ma servendosi di una piazza «populistico-vittimista», dando sempre ragione a tutti quelli che protestano sempre e dovunque, «come una mamma, facile alla commozione e all’indignazione» e coltivando un «semplicismo sentimental-protestatario».
Davanti a un pubblico che parteggia, applaude e contesta, spesso si finisce per smarrire il confine tra vero e verosimile, la discussione viene affogata nell’appartenenza, anche perché a nessuno (tantomeno al conduttore) interessa comprendere come stiano realmente le cose. Ma semmai orientarle. Una politica che è vista come un paradiso perduto, sporcato dai protagonisti del momento.
Lo spettacolo piace e gli ascolti quasi subito diventano imponenti (con trasmissioni dai nomi diversi Santoro si porta dietro 4-5 milioni di telespettatori per puntata: moltiplicati per oltre 20 anni, si può ben dire che quei talk abbiano forgiato una larga fetta di opinione pubblica italiana). Un pubblico che strada facendo indurirà sempre più il suo sguardo.
Sempre nei primissimi anni Novanta al populismo mediatico “di sinistra” di Santoro se ne affianca uno “di destra”. Sempre in tv il precursore è Gianfranco Funari, che arringa il pubblico facendo entrare i politici in studio sulle note della colonna sonora di Rocky e poi mettendoli sul braciere con «’na mignottata» di domanda a sorpresa. Una rivoluzione rispetto a tanta ipocrisia del passato, ma intanto la scena pubblica si sta popolando di battutisti e di urlatori. Una logica rigidamente binaria che, sia pure da un rivolo laterale e campanilistico, era stata alimentata dalla prime risse in RAI, quelle su argomento calcistico, andate in onda da metà degli anni Ottanta sugli schermi de Il Processo del lunedì. Una semina alla quale concorrono anche le tv di proprietà di Silvio Berlusconi (indimenticabile il Paolo Brosio che per la Rete 4 di Emilio Fede dorme davanti alla Procura di Milano e scandisce la strage di indagati illustri durante la stagione di Mani Pulite).
Con questa “semina” iniziale arrivano anche i primi frutti: salgono alla ribalta leader nuovi. Personaggi come Leoluca Orlando, sindaco di una città allora politicamente periferica; un pm come Antonio Di Pietro, che partendo da una base giustizialista finirà per fondare il primo partito autenticamente populista dell’èra moderna; un leader come Gianfranco Fini, che in quanto missino fino ad allora era stato ostracizzato; uno sconosciuto e verace senatore di Varese come Umberto Bossi; un serio e serioso democristiano di terza fila, come Mario Segni (fra questi citati l’unico, paradossalmente, a non lasciare… segni). Ma quella prima ondata favorisce soprattutto l’ascesa di Silvio Berlusconi, il mattatore solitario che rompe con il bon ton e si rivolge “al popolo”, precursore anche in questo, da una videocassetta registrata. Ossia senza alcuna mediazione dei giornalisti. Come faranno molti anni dopo, dai social, i leader del dopo-Monti: i renziani prima, i grillini e i salviniani in modo molto più organizzato e massiccio dopo.
Un diffuso spirito anti-politico è assecondato e promosso anche dal successo più che decennale di due trasmissioni di “infotainment”, portatrici di un originale standard informativo-spettacolare: Striscia la notizia e Le Iene. Assieme a proposte controverse, i due format in alcuni casi alzano veli, denunciano situazioni omertose e per oltre vent’anni la prima si accaparra a ogni puntata tra i 5 e gli 8 milioni di telespettatori (uno share formidabile, attorno al 30%, superiore a quello di molte partite della Nazionale di calcio). Un “deposito” invisibile, non misurabile, ma che per anni ha continuato ad arare un terreno fertile per chi a un certo punto si è proposto in modo alternativo rispetto all’ordine costituito.
Solo in Italia, tra i maggiori Paesi del continente, la comunicazione politica e la discussione pubblica che si svolgono in tv hanno come regola interventi non più lunghi di 45 secondi in uno studio con anche cinque o sei persone, che parlano contemporaneamente tra gli incongrui battimani di un pubblico che applaude qualsiasi cosa. Un format che dura da anni e il cui effetto finale è una scuola che, aggiungendosi all’aria dei tempi, invita irresistibilmente a comunicare soprattutto attraverso la frase a effetto non più lunga di due righe, attraverso lo slogan incisivo, la battuta. La quale genera fiducia assai più nel potere della parola e dell’apparire, che non in quello del pensiero. (E che scatena effetti collaterali come questo.)
Del resto è una reazione quasi normale: quanto più la realtà diventa complessa, tanto maggiore è la pulsione verso la semplificazione. «Non stiamo lì a fare tanti discorsi», «la verità è che…», e così via. La semplificazione trova il suo scivolo naturale nei media vecchi e nuovi: i talk show (dove lo slogan secco ridicolizza il ragionamento) e i social network, specie Twitter che coi suoi 280 caratteri (e fino a pochi mesi fa erano la metà, meno di un SMS) sembra inventato apposta per banalizzare. La semplificazione estrema mortifica ulteriormente la democrazia, riducendo gli elettori a tifosi in curva, i quali proprio come allo stadio rifiutano il ragionamento, per affidamento fideistico.
In nessun altro Paese ci si sveglia con la possibilità di sintonizzarsi con un talk show politico e ci si addormenta avendo nelle orecchie le ultime chiacchiere sugli stessi argomenti. In nessun Paese occidentale la politica ha tanto spazio come sui giornali italiani. E in nessun Paese occidentale era mai accaduto che le forze antisistema sfondassero il muro del 50 per cento dei votanti: il 4 marzo 2018, dopo aver dato e tolta fiducia a leader che esprimevano una carica anti-élitaria (il primo Berlusconi, il primo Renzi), oltre la metà degli elettori si affida a chi promette “per davvero piazza pulita”. (A chiacchiere. Ma quelle contano.)
È uno snodo cruciale: la forma ha superato la sostanza.
Sembrerebbe il compimento di una rivoluzione. Il cittadino che grazie ai social si fa contemporaneamente autore, editore, edicola e canale tv. E fa a meno del medium per eccellenza — il giornalismo —. È parte di un fenomeno antropologico già noto e assai studiato.
Sono diffusi, in molte società contemporanee, sentimenti di rifiuto e diffidenza nei confronti degli “esperti”, a qualunque settore appartengano, la medicina come l’astronomia, l’economia come la storia. La comunicazione semplificata tipica dei social media fa nascere la figura del contro-esperto che rappresenta una presunta opinione del popolo, una sorta di sapienza mistica che attinge a giacimenti di verità che i professori, i maestri e i competenti occulterebbero per proteggere interessi e privilegi.
I pericoli di un simile equivoco sono sotto gli occhi di tutti: si negano fatti ampiamente documentati; si costruiscono fantasiose contro-storie; si resuscitano ideologie funeste in nome della de-ideologizzazione. «L’anti-intellettualismo si è insinuato come una traccia costante nella nostra vita politica e culturale, alimentato dal falso concetto che democrazia significhi “la mia ignoranza vale quanto la tua conoscenza”», diceva Isaac Asimov, già nel 1980, su Newsweek.
Senonché nell’estate-autunno del 2018 la crescente assertività dei big del governo “gialloverde” e una produzione legislativa controversa producono una novità: i leader populisti (e specialmente i leader Cinquestelle, che prima erano ricorsi a epiteti grevi arrivando a definire i giornalisti «puttane»), pur continuando a preferire nettamente i social, capiscono che quel canale non basta. Con post e tweet, è vero, si arriva direttamente agli elettori e senza mediazioni: ma per farsi capire servono anche i vecchi media. E ciò è più vero in Italia, dove sono ancora troppe le Gnure Maria che tuttora si informano (e orientano le proprie opinioni) solo attraverso la tv e gli altri canali tradizionali.
Se uno non si spiega come mai la vicina di casa anzianotta è diventata grillina e il prozio attempato che si incontra solo a Natale è ormai un convinto leghista, loro che i social non sanno manco che cosa sono, è sufficiente esaminare i programmi dei sei canali RAI e Mediaset. Per diventare populisti basta guardare la TV generalista di giorno; per l’upgrade al sovranismo bisogna invece assistere ai talk show serali.
La vicina e il prozio non stanno sui social: ma le notizie e le bufale nate sui social li raggiungono attraverso la TV, che accendono prima di aprire la porta di casa, la mattina: ancora per moltissimi italiani è la TV che arriva sull’apparecchio col vecchio sistema dell’antenna, e non i tweet dei segretari di partito, a fornire loro opinioni preconfezionate e le ricette pronte per affrontare ciò che sta fuori da quella porta di casa.
La mattina presto s’inizia con “Mattino Cinque” e “Unomattina” con cronaca politica, cronaca nera e rubriche meteo da un quarto d’ora ciascuna; quindi si passa a “Omnibus”, “L’aria Che Tira” e “Tagadà”, con la prima infornata di politici e giornalisti a commentare qualsiasi notizia.
L’«italiano qualunque» (quello cioè che si lamenta e sbraita) si vede riconosciuti i suoi spazi a decine nel palinsesto pomeridiano, quasi tutto dedicato alle sue aspirazioni e — più spesso — ai suoi impicci e alle sue tragedie che si dipanano tra “Storie Italiane”, “La Vita In Diretta”, “Italia Sì” e soprattutto “Pomeriggio Cinque”, il re di tutti i contenitori.
Il pomeriggio dedicato agli italiani si conclude con la caccia ai montepremi nei quiz pre serali: “Avanti un altro”, “L’Eredità”, “The Wall”, “I soliti ignoti”, “Caduta Libera”, “Reazione a catena”. Nemmeno uno affidato a una conduzione femminile (probabile eredità immortale maschilista di Mike Bongiorno e Corrado). Gran parte dei format a conduzione femminile si dedicano alle storie personali, che siano o no di personaggi famosi: “La prima volta”, “Detto fatto”, “Vieni da me”, “Todo cambia”, “Le ragazze”, “Sopravvissute”, “Non disturbare”. Pure una star d’altri tempi come Raffaella Carrà con “A raccontare comincia tu” è finita nel mega contenitore dell’album fotografico di famiglia.
Arrivati fin qui, la doppia dose di “tragedie-degli-italiani-comuni” e del racconto dei casi di inefficacia delle istituzioni nazionali e delle amministrazioni locali è già più che sufficiente per garantirsi una reazione populista. Ma è con i talk show serali, quando si ritorna a giornalisti e politici della mattina, che si raggiunge l’apoteosi. E si vola verso il Sovranismo.
La rotazione è continua e costante, ma si tratta sempre dei soliti noti che vengono riproposti anche nella fascia serale, dal dopo-Tg di “Stasera Italia” e “Otto e Mezzo” al prime time di “Carta Bianca”, “Di Martedì”, “Dritto e Rovescio”, “Non è L’arena”, “Piazza Pulita”, “Porta a Porta”, “Popolo Sovrano”, “Povera Patria”, “Presa Diretta” e “Quarto Grado”. La proporzione e il taglio variano, ma gli ingredienti no.
Gli “ospiti” sono al 98% giornalisti e sono sempre gli stessi. Oltre a quelli che sono “passati dall’altro lato” (cioè a condurre: i vari Giovanni Floris, Corrado Formigli, Lilli Gruber, lo stesso immarcescibile Bruno Vespa), figurano in ordine alfabetico: Lucia Annunziata, Maurizio Belpietro, Francesco Borgonovo, Pierangelo Buttafuoco, Massimo Cacciari, Aldo Cazzullo, Mario Calabresi, Claudio Cerasa, Virman Cusenza, Marco Damilano, Alessandro De Angelis, Ferruccio De Bortoli, Concita De Gregorio, Domenico De Masi, Vittorio Feltri, Massimo Franco, Paolo Garimberti, Massimo Giannini, Mario Giordano, Peter Gomez, Maria Giovanna Maglie, Enrico Mentana, Paolo Mieli, Augusto Minzolini, Giampiero Mughini, Antonio Padellaro, Gaetano Pedullà, Antonio Polito, Nicola Porro, Federico Rampini, Alessandro Sallusti, Gennaro Sangiuliano, Andrea Scanzi, Mario Sechi, Beppe Severgnini, Vittorio Sgarbi, Marcello Sorgi, Luca Telese, Marco Travaglio.
In alcuni talk alla sfilata di giornalisti e politici vengono affiancate bande di spettatori pronti ad aizzarsi per i loro casi personali.
Praticamente tutta la TV generalista (RAI, Mediaset e La7) ha affidato in blocco il commento della cronaca e l’analisi politica a un pugno di persone, sempre le stesse: una quarantina di individui spacciati per gli unici in grado di commentare. Ogni santo giorno, su tutti i canali televisivi principali.
Viene da farsi le seguenti domande, con relative risposte. Quanti altri studiosi ed esperti, con una professionalità specifica, potrebbero contribuire al dibattito pubblico? Molti, eppure vengono propinate sempre le stesse quaranta facce. Quanto fa bene questa concentrazione alla democrazia? Zero. Quale spazio rimane alle idee, alle libere opinioni? Nessuno. Che servizio pubblico è ormai quello della RAI? Stendiamo il classico velo pietoso.
A chiunque riesca a sorbirsi un tour nel panorama televisivo generalista quotidiano e a sopravvivere sano di mente, apparirà chiaro e forte il legame fra i tweet sovranisti/populisti, la propaganda via social e l’influenza sull’opinione pubblica attraverso la TV generalista, principale fonte di informazione per la maggioranza degli italiani.
Fabbricanti di indignazione
Certi conduttori tv che da anni piegano l’informazione all’entertainment non solo provocano danni al dibattito pubblico: lo inquinano montando fenomeni degenerativi come l’inciviltà, la post-verità e altre forme di disordine informativo. Lo intasano di pseudo-argomenti da bar, intessuti da personaggi improbabili che salgono dal mondo del web e trovano una legittimazione nei media generalisti — personaggi eccentrici che nei talk vengono invitati a interpretare a seconda del momento la posizione più folle e assurda, e che vengono scelti perché servono a polarizzare il dibattito, creando quella indignazione appositamente costruita per attirare l’attenzione e per questo cercata in modo ossessivo —; lo polarizzano ad arte invitando esaltati che propagano falsità e odio; lo banalizzano facendo riversare sui loro palcoscenici ogni tipo di affermazione, fondata, dubbia, improbabile, palesemente falsa, mischiando il tutto in cocktail che alle vacche nere sostituiscono quelle ubriache, che già l’indistinguibilità sarebbe qualcosa — qui invece siamo ormai all’equivalenza nello stordimento.
Questi produttori di indignazione, i Floris, i Santoro, i Formigli, fanno tutto questo per l’audience, l’attenzione, il successo, le citazioni nell’universo ibrido dei media. E lo fanno fregandosene delle conseguenze, perché sono così saldamente incastonati nei loro piccoli sistemi solari, dove giocano il ruolo del Sole onnipotente, che nulla può giungere a disturbare le loro messe in scena — figuriamoci considerazioni sulla deontologia, l’etica pubblica, le ricadute del modo di fare informazione sulla democrazia.
Con la pretesa-pretesto che, come giornalisti, si debba raccontare tutto l’universo delle idee. Pretesa che è al tempo stesso ipocrita e posta nel modo sbagliato. Ipocrita perché in realtà si fanno delle scelte. E quelle scelte sono sempre fortemente condizionate dallo showbiz — un po’ come l’obbligo dell’azione penale per i magistrati, che nei fatti opacizza scelte che comunque vengono fatte —. Posta nel modo sbagliato perché l’approfondimento giornalistico non può essere interpretato da chi lo costruisce come una messa in scena teatrale, nello specifico una pochade. Dovrebbe, piuttosto, essere l’occasione per analizzare i fenomeni contemporanei con intelligenza, insieme non a personaggi ma a persone capaci di analisi, di pensiero, forti di esperienza e conoscenza, interessati a sviluppare ragionamenti piuttosto che esibire opinioni come espressione del proprio ego.
Il giornalismo non dovrebbe essere esposizione di idee come nella vetrina di un pasticcere (e l’analogia con la pasticceria non è casuale, evocando slurperie che attraggono la vista ma fanno male alla salute); il giornalismo dovrebbe essere racconto informato e interpretazione sapiente e intelligente, elaborati con le adeguate categorie interpretative. Il giornalismo non dovrebbe essere spettacolo, l’informazione non dovrebbe essere spettacolo: lo sono diventati, e in Italia alla massima potenza, si direbbe.
(E quanto ai «personaggi eccentrici», pochissimo da dire, il tipo umano è d’una comprensibilità cristallina anche per un bimbo delle elementari: approfittare della situazione con l’astuzia grossolana e arrivista del situazionista per giocarsi, finalmente, tutte le carte di una vita, spostando ogni giorno un paio di centimetri più in là l’enormità, l’azzardo, la provocazione delle parole che si pronunciano allo scopo (pressoché dichiarato) di guadagnarsi il titolo sui giornali e quindi la comparsata successiva, poi quella dopo, poi il cachet, poi lo speciale con cachet maggiorato, poi la serata dal vivo, poi il monologo, poi la notorietà, poi la candidatura, poi la poltrona.)
Il risultato di questo trentennale logoramento, per l’informazione nostrana, è che nei momenti di svolta, quando si rischia di toccare i fili dell’alta tensione, quando sono in gioco i grandi interessi, i media puntualmente si fanno trovare distratti. Negli ultimi anni della Prima Repubblica nessun giornale si era accorto della pervasività della corruzione politica, ma quando i pm hanno scoperchiato la pentola, i media hanno spalleggiato, spesso acriticamente, il nuovo potere: la Magistratura. Giornali e tv non hanno visto arrivare né la prima Lega né Berlusconi, e nel 2013 non hanno neanche vagamente annusato il primo, clamoroso boom dei Cinquestelle. Media spesso rinchiusi nel Palazzo e succubi degli istituti di sondaggio, che pur affidabili in ordinaria amministrazione, sotto elezioni accusano puntualmente crisi di lucidità.
Una sottomissione e una fuga dalla realtà che per il giornalismo italiano hanno una conseguenza ovvia: il pubblico oramai identifica alcuni “opinionisti” con una parte politica, li considera compagni della stessa squadra. I giornalisti vivono una doppia crisi di autorevolezza, dal basso e dall’alto: una fetta crescente di opinione pubblica non li “riconosce” più come prima, mentre i politici hanno tutto l’interesse a delegittimare — o asservire — soggetti che per definizione restano potenzialmente pericolosi. E quando un giornalista non è autorevole, a che serve?
Diciamolo in tutta franchezza. C’è un’area politica, quella che votava in parlamento per Ruby nipote di Mubarak e tagliava da pazzi i finanziamenti alla Sanità pubblica, che ha in testa solo che deve crepare Sansone con tutti i filistei. Sostenuta da guitti professionisti (Vittorio Feltri, Mario Giordano, Maurizio Belpietro, Alex Sallusti, Nicola Porro) che nelle trasmissioni di Rete 4 o sulle colonne dei loro giornalacci (Libero, il Giornale, La Verità) fingono di essere aggrediti e aggrediscono senza misura. Non hanno alcun interesse alla soluzione dei problemi, anzi scommettono che non si risolvano così, che si possano vendere più copie o fare più audience terrorizzando i vecchietti e le vecchiette cardiopatiche.
Diciamolo, ancora, senza remore: abbiamo avuto tanti momenti bui ma non era mai successo niente del genere. L’Italia ha affrontato catastrofi, terrorismo, stragi. A parte alcuni approfittatori e guerriglieri assassini, il Paese ha sempre trovato un idem sentire, nessuno ha pensato che la rovina comune potesse portare al vantaggio di una parte. Semmai tutti hanno pensato il contrario.
Ahimé da anni non siamo più un Paese: da quando il partito secessionista che si puliva quella cosa lì con la bandiera tricolore non si è scoperto nazionalista per distruggere meglio l’Italia. C’è stato in tutto questo periodo l’esplodere di un imbroglio di massa fatto di tanti piccoli imbrogli per cui le parole dette potevano essere contraddette senza pagare dazio.
Pensosi liberisti oggi vaneggiano sulla “Sanità pubblica inadeguata” dopo aver scritto centinaia di articoli per smantellarla.
Protagonisti del secessionismo si presentano come unitari e amanti della patria.
Nullafacenti della politica, e pesci pilota che navigano attorno a questi balenotteri.
Il tema odierno dovrebbe essere il cercare un modo per sottrarre l’Italia ai facinorosi, cioè dalle mani di tutti quei soggetti che dalla crisi del ’92 hanno iniziato a cercare di stabilire un nuovo ordine dapprima sposando il giustizialismo, poi il garantismo per correre dietro a Silvio Berlusconi, poi declamando la fine dei partiti, poi tifando per ogni movimento che avesse programmi nullisti.
Certo, bisogna ammettere (con fugace sollievo) che segmenti significativi di “buon giornalismo” si ritrovano ancora sparsi qua e là. In alcuni articoli, commenti ed elzeviri dei quotidiani, grandi e piccoli. In certi talk show non sopraffatti dall’agonismo dialettico (garanzia di share), quando si dedicano ad approfondire un tema e alla conoscenza non effimera dei protagonisti (circostanze destinate a realizzarsi nei contenitori meno urlati e nelle fasce orarie più “rilassate”). Nella “scuola” del servizio pubblico RAI, che riemerge quando meno te lo aspetti. In certi siti di informazione online, il segmento nel quale negli ultimi 5 anni si è concentrato il maggior incremento qualitativo e innovativo, anche grazie a singole personalità che spiccano per lucidità (Francesco Costa e Luca Sofri su Il Post, Peppino Caldarola su Lettera43, la splendida squadra de Linkiesta con Francesco Cancellato, Flavia Perina, Giulio Scranno, Giulio Cavalli, Riccardo Paradisi, Andrea Fioravanti, Stefano Cingolani, Lidia Baratta, Pietro Mecarozzi e altri). In un settimanale che ha ritrovato un’identità come L’Espresso (a proposito: grazie mille a voi Giovanni Tizian, Fabrizio Gatti, Susanna Turco, Lirio Abbate, Francesca Mannocchi, Marco Damilano e soprattutto Alex Gilioli). In un medium dato tante volte per spacciato come la radio, e che invece ha saputo innovarsi anche grazie a multiformi offerte di qualità. Nei blog dove si fa informazione e non auto-promozione. E nella satira, quando è efficace perché proposta da quelli bravi che non la fanno a stipendio di qualcuno.
Ma attualmente è impossibile trovare concentrati in un unico medium i requisiti preliminari per una buona informazione: accuratezza e imparzialità. E quindi gli esempi succitati, più che offrire la visione di germogli di speranza, appaiono più come pozze d’acqua isolate, destinate ad asciugarsi presto. Com’è del resto tipico di tutti gli imperi e le culture in decadenza.
[edit del 31 Dicembre 2020: quasi a testimonianza della labilità di queste belle speranze, dopo appena un anno e mezzo devo registrare un sacco di modifiche ai nomi citati qui sopra… Peppino Caldarola purtroppo ci ha lasciati; Cancellato non è più a Linkiesta (in compenso ci sono Francesco Cundari, Christian Rocca e Mario Lavia che promettono bene, stiamo a vedere); Tizian, il mio adorato Gilioli e altre punte di diamante hanno lasciato L’Espresso, passato di proprietà insieme a Repubblica — agli Agnelli/Elkann (!)]
Tutto questo non è un balsamo per la credibilità del sistema informativo. E dunque per la solidità della nostra democrazia.
(E pensare che a 18 anni, appena sostenuta la Maturità, il mio piano per un futuro lavorativo era di diventare giornalista… Me la sono scampata bella. Il talento per la scrittura l’ho messo a frutto in ben altri campi, come sanno i dieci lettori dei miei libri.)
Si può dire che esista ancora un punto di vista pubblico?
Un discorso “politico” ha sempre il senso dell’intero, della polis, della comunità nel suo insieme: rivolto a nessuno in particolare e a ciascuno in generale. Come si fa politica quando l’interesse generale sembra svanito? La stessa irrilevanza dei programmi politici lo testimonia: nessuno più li legge, e oramai neppure si scrivono. Tanto meno qualcuno li conosce o vota per il programma generale, semmai decide su una singola issue, tipo “porti chiusi/porti aperti”. Ma i programmi generali non hanno più presa. Emozione zero.
La ratio del discorso politico prima era relativamente semplice: c’è un interesse generale, talvolta mutuato in interesse di classe o di territorio, ma sempre generale. Su questa stella polare si presentavano proposte generali, declinate talvolta per settore: l’industria, la scuola, la sanità, l’agricoltura e così via. Interessi generali anch’essi, sebbene suddivisi per categoria. La proposta che sembrava rispondere meglio all’interesse di tutti, seppur coniugato in termini di classe, di ideologia o di territorio, risultava vincente.
Oggi tutto questo ci sembra allo stesso tempo pesante e irrilevante. Essere vegani può assumere una identità potente e ben più forte di tutte le variabili socio-economiche; alcune venature dell’ambientalismo prendono una connotazione identitaria onnicomprensiva; le identità dei gruppi più radicalizzati del tifo calcistico creano identità inossidabili; avere un animale domestico crea appartenenza più di quella politica; l’identità di quartiere è più forte di quella della città.
Un altro elemento decisivo è che pochi pensano che il proprio destino possa essere determinato dalla politica (se non quelli che vi lavorano dentro). L’80% del bilancio pubblico italiano è sostanzialmente fatto di spese “dovute” (pensioni, trasferimenti agli enti locali, etc.), perciò quello che sembra uno strumento che può cambiare tutto, in realtà può cambiare poco. Infatti, tranne le leggi di principio, per il resto si tratta di mescolare e calibrare incentivi e disincentivi: tolgo gli “80 euro” per finanziare “Quota 100”, abbasso di uno zero virgola l’aliquota X per aumentare di uno zero virgola il finanziamento Y, robe e robette così. Siamo lontani dalla politica che cambia il destino di un popolo.
Meglio provvedere da sé: se l’università italiana non funziona, per esempio, faccio prima a mandare i figli all’estero che puntare sull’ennesima riforma. Questa “impotenza” della politica è abbastanza nuova, perché l’Italia è stata costruita con la politica che cambiava le cose sostanziali (la scuola per tutti, la sanità per tutti, la rete ferroviaria, le autostrade, la rete telefonica, etc.). Ma tant’è, e tanto rimarrà.
E il contributo formidabile alla frammentazione sociale l’ha data l’evoluzione dei media.
Prima avevamo tre canali pubblici, (Rai 1, 2, 3) che rispecchiavano le tre principali ideologie politiche del Paese. Poi sono arrivate le tv commerciali, che hanno “liberato” il Paese dalla tripartizione. Questa espansione dei canali ha “terremotato” le tre ideologie prima dominanti; o meglio ha destabilizzato i tre discorsi, distinti ma concorrenti, sullo stesso piano dell’interesse generale. Adesso l’interesse si divide per target. E questo coinvolge anche la RAI.
Cosa dire quando, con il digitale, i canali sono diventati centinaia e internet gli ha tolto persino la nozione di tempo, che tuttavia li accomunava? Perché non è la stessa cosa se tutti la sera vediamo una trasmissione che l’indomani commentiamo, rispetto al fatto che la vediamo, ciascuno per sé, in tempi e modi discordanti. Ciò ha minato alle fondamenta la formazione di un’opinione pubblica sincronizzata (è il caso di dirlo) sullo stesso tempo.
Gli algoritmi che governano internet, per sovrapprezzo micidiale, pur di far “soggiornare” al massimo possibile l’utente su un singolo sito o app, gli forniscono esattamente, singolarmente, molecolarmente, quello di cui ha bisogno o per cui ha preferenza. Così si formano le “bolle” autoreferenti (anche politiche) e ogni riferimento collettivo si perde nel nulla, “come lacrime nella pioggia”.
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