Il magazine statunitense The Atlantic ha pubblicato un lungo articolo dedicato a Facebook e al suo ruolo nella politica e nelle elezioni presidenziali americane, che mette insieme una serie di ricostruzioni molto preoccupanti sul ruolo suddetto e su come sia sfuggito di mano alla stessa Facebook, oltre che ai poteri pubblici e agli osservatori di politica e tecnologia. La tesi complessiva dell’analisi – analisi a tesi, ma molto approfondita e argomentata – è che un vecchio (di pochi anni) scenario in cui l’innovazione tecnologica sembrava poter favorire politicamente la sinistra che vi si era adeguata più rapidamente, abbia impedito a quasi tutti di rendersi conto che una serie di sviluppi di Facebook, insieme ad altri fattori, stavano invece dando un enorme potere a quella che è diventata la più importante macchina da consenso a favore di Trump, e stravolgendo radicalmente il funzionamento della democrazia. L’articolo, che è firmato da Alexis Madrigal, uno dei più famosi ed esperti giornalisti dell’Atlantic, elenca questi fattori riprendendo una serie di studi dei mesi e anni passati che a suo giudizio non erano stati abbastanza ascoltati. Gli elementi per capire dove stavano andando le cose c’erano, scrive Madrigal, ma in pochi li hanno visti tutti e in pochissimi li hanno messi insieme.
La storia degli sviluppi nella comprensione del ruolo di Facebook sulle elezioni è compressa in pochissimi anni, nei quali però sono cambiate un sacco di cose. Nelle elezioni presidenziali statunitensi del 2012 fu assodato che le campagne di Facebook per incentivare gli americani ad andare a votare – quella che si chiamava “I voted”, per esempio – avevano evidentemente favorito il risultato vincente di Barack Obama, coinvolgendo soprattutto giovani utenti progressisti e più attenti all’innovazione. Inoltre, le campagne politiche dei candidati Democratici si mostrarono più attente e avanzate nello sfruttare le opportunità di promozione a pagamento dei propri messaggi su Facebook. Fu la prima volta in cui degli studi iniziarono a sancire che delle scelte di Facebook potevano influenzare il risultato elettorale. Madrigal cita molte ricerche in tutto il suo articolo e fa un’autocritica per non averle prese sufficientemente in considerazione.
Come tutti questi esempi mostrano, il potenziale di Facebook nell’influenzare un’elezione era chiaro almeno cinque anni prima che venisse eletto Donald Trump. Ma piuttosto che dedicarsi al tema della correttezza delle elezioni, la maggior parte degli autori – compreso me, e con alcune eccezioni – lo considerò solo all’interno di altre più estese preoccupazioni come quelle della privacy, dell’ideologia tecnologica, del sistema dei media o degli effetti psicologici dell’uso dei social.
E questa sottovalutazione ci fu persino all’interno della stessa Facebook: il tema ricorrente dell’articolo di Madrigal è una sorta di ingenuità da parte di Facebook nel non rendersi conto delle conseguenze di quello che stava diventando, nell’illusione che non potesse che aumentare il suo benintenzionato ruolo di “forza del bene” e favoreggiatrice della democrazia.
La tecnologia su cui Facebook ha lavorato di più è il news feed, come Madrigal aveva spiegato di recente in un singolo articolo sul sito dell’Atlantic. Il sistema di algoritmi che mette davanti agli utenti di Facebook i post che più interessano loro è un successo eccezionale e indiscutibile: funziona benissimo. Ma l’effetto collaterale di questo successo è un’accelerazione straordinaria di quella che è ormai nota da anni come la filter bubble, termine reso famoso da un libro del 2011 di Eli Pariser: ovvero l’attitudine di molti servizi online a metterci in contatto soltanto con le cose simili a noi, ai nostri interessi, alle nostre opinioni e ai nostri gusti (leggi anche questo mio blogpost di 3 anni fa: “Come gli algoritmi stanno rovinando la grande esperienza social”; su fake news, post-verità e disinformazione quest’altro più recente blogpost – ndr) e a renderci invisibile il resto. Con quel che ne consegue di limitazioni alla conoscenza, alla comprensione del mondo, allo scambio delle idee. E anche di impossibilità, spiega Madrigal, di conoscere le “diete informative” degli altri: se Facebook è così forte nel personalizzare il news feed per ognuno di noi, e ognuno di noi ne ha uno diverso, è impossibile non solo immaginare ma anche osservare, studiare, essere informati su cosa stia vedendo chiunque altro. Questo è un altro tema rilevante: possono svilupparsi fenomeni estesissimi su Facebook senza che chi ne è escluso ne abbia il minimo sentore o possa indagarli.
Nel caso specifico del presidente americano, la potenza di molte campagne e promozioni pro-Trump dirette a determinate fasce di elettori non sono state percepite che da pochissimi esperti e osservatori, perché sui loro account di Facebook non passavano per niente: grazie all’efficacia dei loro news feed che non li ritenevano – giustamente, dal loro “punto di vista” – interessati a quei messaggi.
Rispetto a questo, un tema di discussione concreto degli ultimi mesi è stato per esempio la richiesta che Facebook obblighi a rendere pubblici tutti i messaggi elettorali su cui vengono acquistate delle promozioni, e chi sono i loro destinatari e i loro promotori: per limitare la possibilità emersa dall’elezione di Trump in poi che enti sconosciuti e sospetti diffondano liberamente milioni di campagne – spesso falsificatrici – senza nessun controllo e senza che la comunità degli elettori, dei candidati, degli osservatori ne sia a conoscenza.
Dal libro di Pariser a oggi Facebook è diventato potentissimo, superando qualunque altro mezzo di comunicazione esistente. È un altro fattore che ha cambiato le cose in questi anni: la serie di scelte aggressive che Facebook ha fatto per battere ogni concorrenza nel campo dei media vecchi e nuovi. Madrigal racconta che malgrado Facebook non lo abbia mai ammesso, nel 2013 avviò una estesa campagna di promozioni a favore della pagine dei siti di news, che ne aumentò considerevolmente i fan e di conseguenza il traffico verso quei siti, rendendo Facebook un canale prioritario per le redazioni e per le imprese giornalistiche.
All’Atlantic e in altre testate fu come se una marea ci stesse portando verso nuovi record di traffico. Senza nuovi investimenti, senza assumere nessuno, senza cambiare strategie o tattiche, senza pubblicare più cose, all’improvviso tutto era più facile. Ma mentre il traffico verso il sito dell’Atlantic cresceva, una sua buona parte non risultava dai nostri dati provenire da Facebook. Appariva come “traffico diretto” o diciture simili, a seconda dei servizi di analytics. Sembrava una cosa che avevo chiamato “dark social”, ma come sostenne allora Buzzfeed, e come mi convinsi anch’io, era soprattutto traffico di Facebook mimetizzato. Tra agosto e ottobre del 2013 la rete di siti di partner di Buzzfeed ebbe un aumento di traffico da Facebook del 69 per cento.
All’Atlantic facemmo una serie di esperimenti che dimostrò con buona certezza che gran parte di quel traffico “dark social” veniva dalla app di Facebook su mobile. Nel nostro ambiente iniziammo a realizzare: diamine, siamo diventati di Facebook. Si erano impossessati della distribuzione delle news.
La rivelazione di Madrigal sulla ragione di questa strategia si deve anche in questo caso a un articolo pubblicato al tempo: «Facebook voleva schiantare Twitter, che aveva attirato una quota sproporzionata di attenzione da parte delle testate di news e dei loro addetti. Come quando Instagram si impossessò delle “Storie” di Snapchat per bloccarne la crescita, Facebook decise di impadronirsi delle “news” per sgonfiare Twitter, appena entrata in borsa».
E una cosa simile Facebook la fece subito dopo con i video: un grande investimento nell’incentivare la produzione e l’uso dei video su Facebook (diversi articoli negli ultimi mesi hanno spiegato come “la gente vuole vedere più video” sia in gran parte una bolla alimentata dallo stesso Facebook). Una scelta dall’impatto fortissimo – all’improvviso video e video su ogni pagina di Facebook, che generavano quantità enormi di engagement – volta a prevalere in questo caso su YouTube, nel suo campo.
I video cambiarono le dinamiche dei news feed nelle pagine personali, in quelle degli editori e di chiunque cercasse di capire cosa diavolo stesse succedendo. Le persone furono improvvisamente sommerse di video. Le aziende giornalistiche, malgrado non ci fosse alcun modello di business, furono costrette a produrre video in qualunque modo per non rischiare che le proprie pagine su Facebook perdessero rilevanza a favore di altre, affollate di video.
E un effetto collaterale ulteriore di tutto questo fu trasformare l’analisi dei contenuti: tutto a un tratto, osservatori e studiosi ed esperti non avevano più di fronte archivi di testi indagabili e sistematizzabili, in cui compiere ricerche, calcolare tendenze, registrare variazioni e tematiche, ma successioni di immagini e audio senza trascrizioni, assai più difficili da analizzare, e spesso frutto di repliche, furti di contenuti, ribrandizzazioni, che rendevano ancora più difficile contare eventuali tendenze.
E fin qui Madrigal ha spiegato come è cambiato Facebook e come è cresciuta la dimensione del suo ruolo in generale. Nel frattempo, negli stessi anni, succedevano delle cose sul fronte dell’uso di internet da parte della politica americana, e della politica di destra. Il famigerato sito Breitbart – quello di Steve Bannon, responsabile di potentissime aggressioni e falsificazioni durante tutta la campagna elettorale a favore di Trump, di cui Bannon sarebbe diventato consigliere in campagna elettorale e poi alla Casa Bianca – e la sua rete di siti partner investì cifre eccezionali nel 2015 per aumentare la sua forza su Facebook: a luglio 2015 le interazioni su Facebook di Breitbart avevano superato quelle del New York Times. La sua capacità di engagement era diventata maggiore di quelle di tutti i maggiori siti di news. E parallelamente, emergeva con dimensioni del tutto nuove la produzione di fake news su Facebook.
In un articolo del dicembre 2015 su Buzzfeed, Joseph Bernstein sostenne che “le forze oscure di internet sono diventate una controcultura”. La chiamò “Chantrocultura” per via dei troll che si radunavano sul network 4chan a creare meme spesso razzisti. Altri finirono per chiamarla semplicemente “alt-right” (destra alternativa). Metteva insieme persone a cui piaceva diffondere falsificazioni, gamers fanatici (gamergaters), estremisti della libertà di opinione come Milo Yiannopoulos, neonazisti per-conto-di-Dio e suprematisti bianchi. E tutta questa gente adorava Donald Trump.
Il risultato più esemplare e spettacolare di questo fenomeno fu il successo della storia nota come Pizzagate, una bufala spregevole su una presunta rete di pedofili legata a una pizzeria di Washington e a Hillary Clinton. Ma è solo un esempio, e molti studi hanno mostrato che le notizie false legate alla campagna elettorale hanno generato più interazioni delle notizie più importanti pubblicate da testate come il New York Times o il Washington Post. L’indiscutibile aumento della produzione e diffusione di notizie false – a prescindere dal fatto condiviso che le notizie false ci sono sempre state – fu dovuto all’occasione rilevantissima della campagna elettorale americana e alle trasformazioni nel sistema della diffusione delle news indotte da Facebook, e alimentato da veri e propri business della falsificazione, in molti casi anche svincolati da interessi elettorali per questo o quel candidato, come hanno dimostrato molte storie di siti di successo economico nati per sfruttare il potenziale virale delle notizie false intorno alle elezioni.
E tutto questo, per natura stessa di Facebook, era solo una parte percepibile di quello che stava accadendo dentro e intorno al social network, sostiene Madrigal citando Max Read del New York Magazine: «Persino il presidente-papa-viceré Zuckerberg è apparso impreparato al ruolo che Facebook ha assunto nella politica mondiale nell’anno passato».
E poi, prosegue Madrigal, ci sono i russi: i movimenti su Facebook provenienti dalla Russia intorno alla campagna elettorale sono ampiamente documentati ormai, e ammessi dallo stesso Facebook negli scorsi mesi con palese imbarazzo e revisioni di precedenti certezze da parte di Zuckerberg. Un rapporto prodotto dallo stesso Facebook quest’anno dice tra l’altro: «Dobbiamo estendere l’attenzione alla sicurezza, per aggiungere ai comportamenti scorretti tradizionali – come il furto di account, il malware, lo spam, le truffe finanziarie – forme più sottili e insidiose di abuso, compresi i tentativi di manipolare il dibattito civile e ingannare la gente». Una delle cose che il rapporto descrive come spiazzanti per i meccanismi di controllo e vigilanza di Facebook è avere a che fare con fenomeni che non hanno obiettivi strettamente economici nell’uso improprio delle promozioni e delle campagne su Facebook, e per i quali la deterrenza di difese che facciano leva appunto sulle perdite economiche non è efficace. Semplicemente «non se lo aspettavano», dice Madrigal.
Sommiamo tutto questo. Il caos di una piattaforma da un miliardo di utenti che domina aggressivamente la distribuzione dei contenuti e delle news. La nota efficacia elettorale di Facebook. L’assedio di notizie false e disinformazione su internet in generale e su Facebook in particolare. Le operazioni russe. Tutte cose che conoscevamo.
E lo stesso nessuno le ha messe insieme. Il social network dominante aveva alterato il panorama dell’informazione e della persuasione oltre ogni precedente raccogliendo gran parte dello stimato miliardo-e-quattro di dollari investiti in pubblicità online durante le elezioni. C’erano centinaia di milioni di dollari in promozioni oscure al lavoro. Fake news un po’ ovunque. Ragazzini macedoni che producevano campagne a favore di Trump. Un sistema di informazione rabbiosamente fazioso che ti dava solo le notizie che volevi sentire. Come credere a cosa? Che spazio restava per le politiche quando tutto questo stava divorando i news feed? Chi diavolo sapeva cosa stesse succedendo?
Che lo si sapesse poco, lo dimostra un articolo del Washington Post di agosto 2016 citato da Madrigal: vi si dice che Trump «sta conducendo una campagna vecchio stile basata sulla tv, mentre Clinton lo sta superando grazie all’uso accorto e competente di nuovi strumenti, con “la campagna presidenziale più digitale di sempre”». Invece, intanto, Trump stava investendo decine di milioni di dollari nel costruire e sovvenzionare strutture in grado di studiare il traffico digitale delle informazioni su Facebook, di orientarlo, di modificarlo. Ma osservatori e giornalisti, ricostruisce Madrigal, erano troppo convinti della solidità di un assunto formatosi negli anni precedenti: che i più familiari e adatti a sfruttare le opportunità delle tecnologie digitali fossero i liberal di ogni categoria, perché più giovani, perché prevalenti nelle società innovative della west coast, perché progressisti. Internet da anni faceva il gioco politico dei Democratici e lo avrebbe fatto sempre di più, diceva l’assunto: era con l’elezione di Obama e con i suoi esperti consulenti che il tema dell’uso dei social network nelle campagne elettorali era diventato rilevante, mostrando il gap con l’inadeguatezza dei Repubblicani su questo fronte.
Insomma: non è che nessun giornalista, esperto di società digitali o ingegnere avesse immaginato il rilievo elettorale incombente di Facebook – era ineludibile –, ma tutti gli indizi suggerivano che del cambiamento avrebbero beneficiato i Democratici. E per dirla tutta, la maggior parte dei giornalisti e dei professori è progressista quanto i tecnologi della Silicon Valley, quindi questa conclusione rassicurava perfettamente i professionisti in questi settori.
Nei giorni prima delle elezioni lo Huffington Post dava alla vittoria di Clinton il 98,3 per cento di probabilità e criticava il famoso statistico Nate Silver per essersi limitato a un 64,7 per cento di probabilità che Trump venisse sconfitto: «Se volete affidarvi ai numeri, potete stare tranquilli. Per lei è fatta».
Intanto, invece, Bannon andava spiegando serenamente: «Non sarei salito a bordo, Trump o non Trump, se non avessi saputo che stavano costruendo questa enorme macchina su Facebook e sui dati. È Facebook che ha lanciato Breitbart verso un pubblico enorme. Conosciamo la sua potenza».
Com’è andata, lo sappiamo. La ricostruzione dell’Atlantic dà a momenti l’impressione di voler mettere dentro un’unica narrazione coerente fattori e vicende diversi e il cui rilievo non è del tutto dimostrato: ma lo fa con abbondanza di sostanza, dati e analisi che mostrano che diversi di questi sviluppi non vengono scoperti ora. Concludendo così.
I sistemi di informazione che le persone usano per elaborare le notizie sono stati dirottati su Facebook, e lungo il percorso sono stati in gran parte alterati e sottratti alla vista. Non è stato solo il pregiudizio liberal che ha impedito ai media di fare due più due. Molte delle centinaia di milioni di dollari spesi durante la campagna elettorale sono stati investiti in formati di “dark ads”, promozioni oscure.
La verità è che mentre molti giornalisti sapevano che qualcosa stava succedendo su Facebook, nessuno sapeva tutto quello che stava succedendo su Facebook: nemmeno Facebook. E così, mentre avviene la più rilevante trasformazione della tecnologia politica dai tempi della televisione, i primi tentativi di ricostruzione storica sono pieni di turbini indecifrabili e pagine vuote.
Così, mentre la più grande “next big thing” del nuovo secolo — Facebook — sta già andando a puttane soffocata (e soffocandoci) nelle astrusità dell’informatica, ci ritroviamo a beneficiarne un elemento incredibile come The Donald: inverosimile perfino fisicamente, e forse soprattutto fisicamente, quei capelli assurdi, quell’incarnito paonazzo, quella volgarità di modi, quell’infantilismo di pensiero, quelle case dorate e tigrate che rimandano all’estetica dei boss malavitosi o dei narcos o degli oligarchi russi.
Non il nazionalismo, ma un provincialismo patologico erutta da ogni suo tweet. Tipi così avanzano, con notevole successo, nelle para-democrazie asiatiche, o nei post-regimi dell’Est Europa, democrazie ancora soprattutto formali e poco sostanziali.
Niente è peggiore (e più radicalmente antidemocratico) del suprematismo bianco, del sessismo smanacciante («le donne le prendo per la fica»), del feticismo delle armi da fuoco, della religiosità bigotta e conformista, della paranoia antislamica, del creazionismo (che è rifiuto della Scienza e dunque della realtà, mica un dettaglio), dell’antiabortismo militante, del negazionismo in materia di cambiamento climatico. Nessuna delle componenti più estremiste e ottuse della destra americana è assente, nel vasto elettorato di Donald Trump.
Di fronte al trumpismo, a quelle parole, a quel vecchio maschio gongolante, certo di essere nel giusto e sotto la protezione di Dio, si vedono e si sentono rivivere sentimenti e ostilità che si credevano tramontati assieme a quella nostra primissima giovinezza non vissuta in prima persona ma attraverso le rassegne TV e a quell’ormai remoto immaginario cinematografico-letterario, gli anni Sessanta: il finale allocida di “Easy Rider”, con la “fucilazione on the road” dei due hippies irregolari da parte di due maturi esponenti della “maggioranza silenziosa”; il “Dottor Stranamore” a cavalcioni dell’atomica, la polizia sbirra di “Fragole e sangue”, “l’Urlo” libertario e antifascista di Allen Ginsberg contro la società americana («Moloch il cui sangue è denaro che scorre!»), la cui pubblicazione costò l’arresto a Lawrence Ferlinghetti (era il 1956, pieno maccartismo); insomma, l’intero repertorio di anticorpi “liberal” che solo l’America peggiore è capace di mobilitare.
Trump e Facebook: il lato più avanzato e il lato più retrogrado dell’evoluzione, che si nutrono a vicenda.
Scopri di più da L’internettuale
Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.
Be First to Comment