E così, lentamente ma inesorabilmente, un'orribile verità sta venendo a galla grazie alle rivelazioni di un pentito di 'Ndrangheta e alle faticose indagini di un pm: la Calabria — e i suoi mari, e i suoi monti— è la discarica "legale" dei rifiuti tossici di mezzo mondo, non solo aziende ma anche "cose pubbliche" come l'ENEA e l'ENI.
Da 20 anni e oltre, le industrie che si devono disfare di veleni, scorie e pattume radioattivo, si rivolgono ad apparati dello Stato; alcuni politici — anche di spicco — fungono da intermediari con i servizi segreti, i quali incaricano la malavita e i boss mafiosi, i quali a loro volta s'incaricano di sbrigare il lavoro sporco (affondare "navi-carretta" a pochi kilometri dalle coste della Somalia o direttamente del Mediterraneo, oppure interrare il contenuto di interi TIR in greti di torrente o cave abbandonate del Pollino, dell'Aspromonte e di chissà quale altra zona).
Le aziende risparmiano sui costi; i politici intascano lauti compensi sottobanco; gli ufficiali dei servizi segreti una congrua mazzetta; i boss della 'Ndrangheta montagne di denaro. E i Calabresi muoiono di cancro.
«Basta essere furbi, aspettare delle giornate di mare giusto, e chi vuoi che se ne accorga?». «E il mare? Che ne sarà del mare della zona se l'ammorbiamo?». «Ma sai quanto ce ne fottiamo del mare? Pensa ai soldi, che con quelli, il mare andiamo a trovarcelo da un'altra parte...». Dialogo tra due boss della 'Ndrangheta contenuto nel fascicolo del pm Cisterna: ogni commento è superfluo, su questa gente, che alcuni ancora si ostinano a definire "uomini d'onore"...
Non so se è chiaro il concetto... Lo ripeto, perché è di una gravità inaudita, peggio del Watergate o di Enron o di qualunque altro scandalo che si sia mai visto: le industrie che volevano smaltire rifiuti tossici a basso costo si rivolgevano al governo italiano, che chiamava i servizi segreti, i quali chiamavano i vari boss, i quali compravano navi da affondare con dentro i rifiuti; questi ultimi, siccome il Mar Rosso era distante, trovavano più conveniente cagare la loro merda nei nostri mari. Un centinaio di navi affondate in tutto il Mediterraneo in 20 anni. La giornalista Ilaria Alpi e l'ufficiale Natale De Grazia avevano scoperto tutto e sono stati assassinati.
È questo il motivo per cui lo Stato chiamato Italia non ha mai combattuto seriamente le mafie?, i boss e le loro manovalanze fanno "il lavoro sporco" per il governo?
Visualizza la mappa delle navi dei veleni in una finestra di dimensioni maggiori
Un elenco di affondamenti volontari, navi che spariscono nel nulla senza lanciare il mayday...
Basta ricordare alcuni casi per avere un'idea di quello che è successo in questi anni.
Nel 1985, durante il viaggio da La Spezia a Lomè (Togo), sparisce la motonave Nikos I, probabilmente tra il Libano e Grecia. Sempre nel 1985 s'inabissa a largo di Ustica la nave tedesca Koraline. Nel 1986 è il turno della Mikigan, partita dal porto di Marina di Carrara e affondata nel Tirreno Calabrese con il suo carico sospetto. Nel 1987 a 20 miglia da Capo Spartivento, in Calabria, naufraga la Rigel. Nel 1989 la motonave maltese Anni affonda a largo di Ravenna in acque internazionali. Nel 1990 è il turno della Jolly Rosso a spiaggiarsi lungo la costa tirrenica in provincia di Cosenza. Nel 1993 la Marco Polo sparisce nel Canale di Sicilia.
Fino agli anni Novanta c'era addirittura chi teorizzava pubblicamente la sepoltura in mare dei rifiuti radioattivi: la ODM (Oceanic Disposal Management, "gestione di depositi sottomarini") di Giorgio Comerio si presentava su Internet offrendo i suoi servigi di "affondamento su commissione". Era già in vigore la Convenzione di Londra che vieta espressamente lo scarico in mare di rifiuti radioattivi, ma la ODM, che operava dal 1987, sosteneva che non si trattava di scarico "in" mare ma "sotto" il mare perché la tecnica proposta consisteva nell'uso di una sorta di siluri d'acciaio di profondità che, grazie al loro peso e alla velocità acquisita durante la discesa, s'inabissano all'interno degli strati argillosi del fondo marino penetrando a una profondità di 40-50 metri... Allucinante! Questi si facevano pubblicità sul web!
Comerio contattava i governi della Sierra Leone, del Sudafrica, dell'Austria. Proponeva affari anche al governo somalo: 5 milioni di dollari per poter inabissare rifiuti radioattivi di fronte alla costa e 10 mila euro di tangente al capo della fazione vincente dell'epoca, Ali Mahdi, per ogni missile inabissato. Pagamento estero su estero, s'intende. A provarlo ci sono i fax spediti da Comerio nell'autunno del 1994 al plenipotenziario di Mahdi, Abdullahi Ahmed Afrah, e acquisiti dalla commissione di inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi.
La giornalista della Rai aveva scoperto il traffico e, cosa più pericolosa,
la tangente?
Nel 2000 l'indagine iniziata dalla magistratura di Reggio Calabria nel 1994, dopo una denuncia della Legambiente sulla Rigel, fu archiviata, nonostante la gran mole di indizi, perché "mancava il corpo del reato". Difficile del resto che le prove potessero emergere da sole visto che erano state seppellite con cura in una fossa del Mediterraneo.
Nel settembre 2009 però, grazie all'ostinazione della procura di Paola e dell'assessorato all'Ambiente della Regione, la "pistola fumante" è stata trovata: un piccolo robot è riuscito a fotografare il delitto sepolto a 487 metri di profondità, i bidoni della vergogna che spuntano dalla falla nella prua della Cunsky. Il teorema della prova irraggiungibile è crollato.
La radioattività a Serra d'Aiello
Il peggio del peggio è emerso inequivocabilmente. Si è trovata un'area collinare, a pochi chilometri dal litorale cosentino, contaminata dalla radioattività. Si è scoperto che in quella stessa zona è avvenuto lo smaltimento di rifiuti tossici provenienti dalle lavorazioni industriali. Sono spuntate testimonianze che collegano questi ritrovamenti a traffici, via mare, di scorie pericolose. E soprattutto, si è riscontrato nei comuni limitrofi l'aumento dei tumori maligni, con un pericolo a tutt'oggi incombente sulla popolazione.
Una vicenda terribile che parte il 14 dicembre 1990 dalla spiaggia di Formiciche, Calabria, mezz'ora di macchina a nord di Lamezia Terme. Pochi ombrelloni sparsi, turismo familiare e l'azzurro tenue del mare costeggiato dalla ferrovia. Qui, 19 anni fa, si è arenata davanti agli occhi perplessi dei residenti la motonave Rosso. Secondo l'armatore Ignazio Messina, si trattò di un incidente provocato dal mare in burrasca. Ai magistrati, invece, venne il dubbio che a bordo ci fossero sostanze tossiche o radioattive: bidoni che avrebbero dovuto essere smaltiti sui fondali marini, e che causa maltempo sarebbero finiti sulla costa, per poi sparire nell'entroterra. A lungo, come riferito in numerosi articoli da "L'Espresso", gli investigatori hanno cercato di scoprire la verità. Sia sul carico della Rosso, sia sulle altre carrette del mare: imbarcazioni in condizioni pietose, mandate a picco nel Mediterraneo colme di scorie. Un lavoro segnato da mille ostacoli e costanti minacce. Il 13 dicembre 1995, dentro questo scenario, è morto in circostanze più che sospette il capitano di corvetta Natale De Grazia, consulente chiave della procura di Reggio Calabria. E intanto, dall'intreccio tra Italia e altre nazioni (europee e non, comunque disposte a tutto per smaltire pattume tossico) sono uscite le figure di agenti segreti, politici ai massimi livelli, faccendieri massoni e onorati membri della 'Ndrangheta. Ma nonostante le migliaia di verbali, di indizi, di indicazioni sui presunti luoghi di occultamento, non si è raggiunta per anni la certezza. Ancora il 13 maggio 2009, il gip Salvatore Carpino si è trovato ad archiviare il sospetto di affondamento doloso e truffa pendente sugli armatori Messina. E loro hanno festeggiato: dichiarando che quell'atto chiudeva una stagione di «accuse infondate, calunnie, subdole diffamazioni e campagne stampa fondate sul nulla».
Poco è stato definitivamente chiarito, in questa storia, e il primo a riconoscerlo è il procuratore capo di Paola, Bruno Giordano. Il quale non soltanto sta continuando a indagare, ma ha trovato quello che si sospettava da anni: appunto la presenza, a pochi chilometri dalla spiaggia di Formiciche, sulla strada provinciale 53 che sale in collina, di un'area radioattiva. Un angolo di campagna che prende i nomi di Petrone-Valle del Signore e Foresta, e che è incastrato tra i comuni di Aiello Calabro e Serra d'Aiello, lungo il greto del fiume Oliva. Già nel 2004, l'Arpacal (Agenzia regionale protezione ambiente calabrese) aveva qui scoperto metalli pesanti e granulato di marmo, utilizzato dalla malavita per schermare la radioattività.
Fiume Oliva su GoogleMaps
Allora, il perito Ornelio Morselli certificò la presenza eccedente di rame e zinco, ma anche di policlorobenzeni (Pcb) con «caratteristiche tossicologiche analoghe alle diossine». Se a questo si somma che un funzionario dell'ex genio civile ha ammesso di avere visto un fusto nella briglia del fiume Oliva, si capisce perché l'ex pm di Paola, Francesco Greco, abbia ipotizzato un nesso tra il ritrovamento dei rifiuti e la motonave Rosso; e più in generale, un legame tra le sostanze tossiche e i traffici marittimi. Una tesi che qualcuno ha cercato di catalogare come azzardata, ma che oggi, con il ritrovamento di un documento inedito, assume tutt'altro spessore. Nel 2005, infatti, un investigatore della procura di Paola ha accompagnato al fiume Oliva Amerigo Spinelli, poliziotto municipale di Amantea (paesino accanto alla spiaggia di Formiciche). E nella sua relazione finale, ha scritto: «Spinelli indicò un'area che (...) corrisponde al greto della località Valle del Signore ed aree adiacenti». Di più: Spinelli ha riferito che «un'ampia zona compresa tra la predetta zona e almeno 200 metri a ovest (...) era stata interessata dal deposito di rifiuti/materiali derivanti dallo smantellamento della motonave Rosso»...
Nel 2007 è arrivato il secondo colpo di scena, anch'esso sconosciuto fino a oggi. Due ufficiali hanno notato dei camion che prelevavano terreno dai torrenti Catocastro e Valle del Signore (affluente dell'Oliva) per il ripascimento delle coste. E quando hanno ispezionato le spiagge interessate, hanno trovato svariati oggetti ferrosi, tra i quali un "coperchio (...) presumibilmente appartenente a un fusto", pezzi di lamiera e "quattro tubi di diverso diametro" che «possono essere ricondotti, verosimilmente, a parte delle protezioni in uso sui traghetti Ro-Ro»: navi come la Rosso, con lo sportello ad hoc per imbarcare i carichi su ruote.
A cavallo tra il 2007 e il 2008 l'Arpacal e il perito Morselli hanno riscontrato in profondità a Foresta agro di Serra d'Aiello la presenza di Cesio 137 (lo stesso fuoriuscito da Chernobyl). Nel novembre 2008, grazie ai carotaggi nelle immediate adiacenze della briglia del fiume Oliva, si è trovato un sarcofago (di dimensioni ancora ignote) in cemento a circa 10 metri di profondità. All'interno, scrivono i consulenti della procura, «c'erano concentrazioni elevate di mercurio», presente anche in altri campioni. Da qui parte l'ultima svolta di questo incubo. Dalla testardaggine con cui il procuratore Giordano insegue reati che vanno dal disastro ambientale all'avvelenamento delle acque: a fine 2008 incarica l'università della Calabria e il CNR di sondare, con cartografie satellitari, eventuali anomalie termiche nell'entroterra calabro (segno di radioattività). E il 17 febbraio arriva la risposta: positiva...
Il 9 giugno 2005 "L'Espresso" aveva pubblicato il dossier di un ex boss della 'Ndrangheta che si accusò di avere affondato, d'accordo con il clan Muto, carrette del mare zeppe di sostanze tossiche. Tra le navi, ne indicava tre che transitavano «al largo della costa calabrese, in corrispondenza di Cetraro, provincia di Cosenza». E proprio in questo tratto di mare, a 487 metri di profondità, l'Arpacal ha individuato il 14 dicembre 2008 un «rilievo di forma ellittico/circolare, lungo circa 80 metri e largo non più di 50, che si eleva rispetto alle profondità medie circostanti di circa 4 metri». Guarda caso, agli investigatori risulta che il titolare della vecchia cava accanto al fiume Oliva (oggi defunto) fosse taglieggiato dagli 'ndranghetisti Muto.
Questa è la storia che ha tolto il coperchio alla terribile pentola. Ma ora scopriamo che è piuttosto la punta di un iceberg. Una verità troppo grave per poter essere rivelata, e ci sono già i primi segnali di una volontà di insabbiamento. Ci sarebbero addirittura rifiuti tossici e/o radioattivi provenienti dall’ENEA e dall’ENI nella stiva del Cunsky, la nave affondata al largo di Cetraro.
È passato quasi un mese dall’individuazione del relitto. Nonostante le promesse — «coinvolgeremo anche la Nato», ha detto il ministro dell’Ambiente, Prestigiacomo — non si ha notizia di alcun piano di recupero dei rifiuti contenuti nella nave. Anche l’assessore all’Ambiente della Regione Calabria dice di non aver saputo nulla dal ministero dell’Ambiente. Si dichiara stupito del fatto che «di una questione così grave non se ne sia parlato in un Consiglio dei Ministri». Annuncia di voler fare una “denuncia politica” a Bruxelles e di voler coinvolgere il commissario all’Ambiente dell’Unione Europea.
Un patto fra ‘Ndrangheta e servizi segreti. Una nave affondata con rifiuti tossici di ENEA e di ENI. Sospetti inquietanti: e il fatto che non si stia procedendo al recupero non aiuta a dissiparli.
L'Aspromonte
E purtroppo l'incubo minaccia di non essere confinato solo ai mari.
Negli ambienti ospedalieri di Reggio Calabria è risaputa l'anomala incidenza di casi di leucemia nei comuni di Santo Stefano in Aspromonte e Pellaro; nel comprensorio di Melito Porto Salvo è segnalata una anormale casistica di tumori alla lingua e ai polmoni; in un comune della Piana di Gioia Tauro è segnalata una mortalità pari al 100% nei casi di cancro...
«In questa vicenda si muovono personaggi sconvolgenti, persone che galleggiano tra lo Stato e l’anti Stato». Nuccio Barillà è lo storico esponente di Legambiente Calabria che assieme a Enrico Fontana, attuale capogruppo di Sinistra e libertà nella Regione Lazio, fornì lo spunto necessario all’apertura delle indagini. «La mattina del 2 marzo ’94, insieme a Enrico Fontana rileggevamo la denuncia che da lì a poco avremmo consegnato a Francesco Neri — a quel tempo giovane sostituto della allora Pretura di Reggio —. Ci rendevamo conto della gravità e delicatezza della faccenda che andavamo segnalando. Mai, però, avremmo potuto immaginare che nei mesi e negli anni seguenti si sarebbe scatenata tutta quella tempesta». Le notizie si riferivano a un presunto traffico di rifiuti tossici e nocivi trasportati dal Nord Europa verso ben determinate zone dell’Aspromonte. «Stando alle informazioni di cui eravamo entrati in possesso» ricorda ancora Barillà, «quantitativi imprecisati venivano trasportati con grossi TIR e interrati in discariche illegali ricavate in cave naturali o in anfratti, lontano da occhi indiscreti. Alcuni di questi traffici avvenivano via mare. Le navi approdavano in porti non controllati e da lì poi i rifiuti prendevano la via della montagna. Fu quella la prima miccia che fece esplodere il caso. L’inchiesta si sarebbe poi allargata a macchia d’olio. Fino a delineare uno scenario di dimensioni davvero planetarie. Poi tutto si fermò». Tutto archiviato.
Nella sentenza del Gip veniva confermato lo scellerato disegno criminale di smaltimento in mare di rifiuti radioattivi, l’affondamento delle navi. Mancava la sicurezza che il carico fosse di rifiuti i radioattivi. In sostanza, mancava il “corpo del reato”. Quella prova che il mare ha ora restituito. «Sono stati anni difficili» ricorda Barillà. «In cui abbiamo sempre cercato di rincorrere la verità. È il momento per creare un organismo nazionale che coordini tutte le indagini che hanno preso il via dalle dichiarazioni di Fonti. Prima fra tutte quelle sul centro ENEA della Trisaia, in Basilicata».
C’è un personaggio chiave al centro degli intrighi. Compare puntualmente in tutte le vicende collegate a questi traffici: si chiama Giorgio Comerio. Ecco come il rapporto Ecomafia del 2006 lo descrive: «È un ingegnere brillante e spregiudicato di Busto Arsizio, ma residente in diverse parti del mondo: all’isola britannica di Guernsey, a Malta, a Lugano e, in Italia, in una bella villa di Garlasco in provincia di Pavia. Di lui in questi anni si è detto di tutto. Per esempio che sia un affarista internazionale collegato ai servizi segreti di numerosi Stati, che sia stato espulso dal Principato di Monaco per traffico d’armi perché riforniva di missili Exocet i generali argentini, durante la guerra delle Falkland. Questo signore, dai modi cortesi e dalle amicizie influenti, si definisce con apparente modestia “semplice esperto di navi e di localizzazioni”». È lui: quello che si faceva pubblicità sul web. «Si è appropriato di uno studio preliminare, avviato dai Paesi dell’Euratom, costato circa 120 milioni di dollari e poi, dopo 15 anni, lasciato cadere. Ha messo in piedi, con il suo socio austriaco e altri personaggi, la società Odm, di cui ufficialmente è solo “uno dei direttori tecnici”». Poi è partito in giro per il Mondo a offrire una soluzione davvero originale per la sistemazione delle scorie radioattive. Quelle stesse che i governi non sanno dove mettere.
I tumori a Paola
I giovani paolani si ammalano di tumore quattro volte di più rispetto alla media nazionale. Paola è a metà strada tra Cetraro — dove è stata ritrovata la nave Cunsky — e Amantea, dove si è spiaggiata l'ormai tristemente famosa JollyRosso. Non si sa ancora con certezza dove siano stati interrati i rifiuti — la Procura di Paola sta indagando su questo — ma di certo proprio a partire dall'arrivo di quelle navi sono aumentati i tumori nella popolazione giovane. Il picco di malattie a Paola si è registrato negli ultimi dieci anni: proprio nel 1990, il 14 dicembre, la Jolly Rosso arrivò sulla spiaggia nei pressi di Amantea, dove rimase abbandonata a se stessa per ben sei mesi, fino al giugno del '91. E si ipotizza che quelli fossero anche gli anni dell'affondamento della Cunsky.
Nella fascia 30/34 anni i giovani di Paola si ammalano di tumore con una media del 2,90% contro la media nazionale dello 0,74% per gli uomini e dello 0,86% per le donne. Dai 35 ai 39 anni la media a Paola è del 2,07 contro quella nazionale dell'1,24 per gli uomini e dell'1,78 per le donne. Nella fascia dai 40 ai 44 anni la media a Paola è del 4,15% contro il 2,11 per i maschi e il 3,33 per le donne. Ma anche se guardiamo la fascia 60/64 anni il tasso del 15,77% è superiore all'11,43 dei maschi e all'11,69 delle donne. Dopo i 65 anni la media scende.
«Fino a qualche anno fa avevo pazienti ultracentenari, oggi neanche uno» dice il dottor Cosmo De Matteis — chiamato familiarmente «Cosimo» —, che ha coordinato l'indagine. «Le ricerche sono state fatte a Paola ma ora ci si augura che anche i medici degli altri paesi costieri incrocino i dati per vedere se il fenomeno riguarda tutta la zona o no».
La senatrice Antonella Bruno Ganeri, due volte sindaco di Paola dal '93 al 2001, è stata colpita personalmente dalla perdita di due figli giovanissimi, morti entrambi per tumore. «Chiedo che il governo centrale si muova. Lo deve a chi non c'è più perché vittima del lavoro, come nel caso della Marlane, e dell'ambiente, come sta accadendo a Paola. Ci sono stati casi di ragazzini morti a dodici anni. Questa è una terra avvelenata da sostanze radioattive buttate qui come se la Calabria fosse la pattumiera d'Italia» dice. Ma perché i rifiuti tossici sono stati buttati proprio in Calabria? «Attribuisco questo lento declino del territorio a due fattori: la depressione culturale in cui sta sprofondando il Paese e la malapolitica. La Seconda Repubblica non è mai decollata. In Calabria la politica ha abdicato ai propri compiti, è diventata clientela e mercato. La città di Paola è stata colpita. Cosa dobbiamo auspicare? Un esodo in massa per lasciare la nostra terra nelle grinfie della mafia e della malapolitica? Spero che finalmente oggi si arrivi al punto di sapere la verità e che queste cose non vengano più insabbiate. Oggi abbiamo un Procuratore della Repubblica, Bruno Giordano, e un assessore regionale all'ambiente, Silvio Greco, che hanno fatto scudo contro il sistema dei faccendieri e della malapolitica. Chiedo che lo Stato li sostenga».
Il Pollino
Le eco dalla Calabria turbano la tranquillità in Basilicata. Non solo e non tanto perché Cetraro è distante qualche tiro di schioppo dalla costa tirrenica lucana, ma perché lo stesso pentito della ‘Ndrangheta, Francesco Fonti, che aveva parlato di quell’affondamento, aveva parlato di un’altra «carretta dei veleni» affondata nel 1992 proprio a largo di Maratea e di 100 bidoni da 220 litri l’uno, contenenti scorie radioattive seppelliti in territorio di Pisticci. E l’elenco potrebbe ancora allungarsi.
«Noi» dice l’ex procuratore capo di Matera, Nicola Maria Pace, il primo, a inizio anni ‘90, a indagare su questo filone, coordinandosi col collega di Reggio calabria Francesco Neri, «avevamo tutti gli elementi per ritenere, come abbiamo ritenuto da subito, che almeno una quarantina di navi fossero state affondate nel Mediterraneo». Quell’inchiesta, alla ricerca dei riscontri, dovette arrendersi per l’indisponibilità delle tecnologie presenti oggi e per la mancata volontà del Governo di sostenere le spese di ricerca necessarie, ma oggi racconti del pentito e ritrovamenti sono «perfettamente coincidenti» con lo scenario emerso all’epoca, partendo nelle indagini dall’Itrec, il centro ENEA di Rotondella, e un possibile traffico internazionale di plutonio che potrebbe aver avuto uno snodo in Basilicata. La questione, oggi, con la Guerra Fredda passata da un pezzo, vede invertirsi l’ordine di rilevanza dei fattori. Il traffico nucleare a fini bellici non appassiona più. Quello dei rifiuti, invece, crea non pochi problemi e le attività d’indagine sembrano non dover essere circoscritte alla sola Calabria.
«Anche qui faremo qualcosa» dice il sostituto procuratore di Lagonegro, Francesco Greco, oggi in servizio nella procura lucana che ha competenza su Maratea, ma lo stesso che tempo fa avviò l’indagine a Paola sui presunti inabissamenti di navi contenenti rifiuti radioattivi nel mare dell’Alto Tirreno Cosentino. Greco andrà alla ricerca della "Yvonne" la nave che, secondo il pentito Fonti, avrebbe avuto la stessa sorte della Cunski a largo di Maratea, con a bordo 150 fusti di fanghi radioattivi.
Negli anni scorsi, sempre sotto la spinta della Procura di Paola, una nave oceanografica ha compiuto rilievi anche sui fondali di Maratea che hanno dato esito negativo rilevando valori di radioattività nella norma e ancora ieri l’Arpab, l’agenzia ambientale lucana, è tornata a fornire assicurazioni parlando di «valori nella norma» per i campionamenti che periodicamente fa nelle acque tirreniche lucane. Conseguentemente, o i 17 anni passati hanno ormai disperso ogni effetto, o la Yvonne non è affondata lì. Ma perché un pentito che descrive nei minimi dettagli quanto avvenuto a Cetraro dovrebbe mentire su quanto avvenuto qualche miglio più a nord? Una domanda che ha un suo simile in terraferma. Perché sempre Fonti parlò di «100 fusti di scorie radioattive che, non potendo essere imbarcati su una nave, vennero interrati in Basilicata a Coste della Cretagna di Pisticci». In quella zona non sono stati trovati riscontri, ma oggi si apprende di altre ricerche fatte dall’Istituto Nazionale di Geologia e Vulcanologia, come attività d’indagine diretta, e, in modo più riservato, nell’ambito di programmi di ricerca dell’Agenzia Spaziale Italiana (e così pagati), «sperimentando» tecniche di ricerca satellitari, ma con qualcuno dello Stato che suggeriva dove andare a fare i test. E, con indagini all’infrarosso termico, sarebbero emersi alcuni «siti da approfondire», tra Pisticci (in una zona con un nome simile a quello indicato dal pentito) nei calanchi di Tursi e in alcune cave del massiccio del Pollino. Qualcuno avrebbe messo materiali o movimentato terra senza un apparente perché. E i timori lucani continuano a crescere.
Parla il pentito
Francesco Fonti, il pentito della 'Ndrangheta, non ha problemi ad ammetterlo: «Era una procedura facile e abituale. Ho detto e ribadisco in totale tranquillità che sui fondali della Calabria ci sono circa 30 navi». E non parla per sentito dire: «Io ne ho affondate tre, ma ogni anno al santuario di Polsi (provincia di Reggio Calabria) si svolgeva la riunione plenaria della 'Ndrangheta, dove i capi bastone riassumevano le attività svolte nei territori di loro competenza. Proprio in queste occasioni, ho sentito descrivere l'affondamento di almeno tre navi nell'area tra Scilla e Cariddi, di altre presso Tropea, di altre ancora vicino a Crotone. E non mi spingo oltre per non essere impreciso». Ciò che invece Fonti riferisce con certezza è il sistema che regolava la sparizione delle navi in fondo al Mediterraneo. «Il mio filtro con il mondo della politica è stato, fin dal 1978, un agente del Sismi che si presentava con il nome Pino. Un trentenne atletico, alto circa un metro e ottanta con i capelli castani ben pettinati all'indietro, presentatomi nella Capitale da Guido Giannettini, che alla fine degli anni Sessanta aveva cercato di blandirmi per strapparmi informazioni sulla gerarchia della 'Ndrangheta. Funzionava così: l'agente Pino contattava a Reggio Calabria la cosca De Stefano, la quale informava il mio capo Romeo, che a sua volta mi faceva andare all'Hotel Palace di Roma, in via Nazionale. Da lì telefonavo alla segreteria del Sismi dicendo: "Sono Ciccio e devo parlare con Pino". Poi venivo chiamato al numero dell'albergo, e avveniva l'incontro».
Il contenuto degli appuntamenti era sempre simile. «L'agente Pino mi indicava la quantità di scorie che dovevamo far sparire e mi chiedeva se avessimo la possibilità immediata di agire». La maggior parte delle volte la risposta era positiva. Ed era un ottimo affare: «Si partiva da 4 miliardi di vecchie lire per un carico, e si arrivava fino a un massimo di 30». Soldi che venivano puntualmente versati a Lugano, presso il conto "Whisky" all'agenzia Aeroporto della banca Ubs, o in alcune banche di Cipro, Malta, Vaduz e Singapore. Tutte operazioni che svolgevamo grazie alla consulenza segreta del banchiere Valentino Foti, con cui avevamo un cinico rapporto di reciproca convenienza». Quanto ai politici che stavano alle spalle dell'agente Pino, secondo Fonti, sarebbero nomi noti della cronaca italiana. «Mi incontrai più volte per gestire il traffico e la sparizione delle scorie pericolose con Riccardo Misasi, l'uomo forte calabrese della Democrazia Cristiana» dice, «il quale ci indicava se i carichi dovessero essere affondati o seppelliti in territorio italiano o straniero. La 'Ndrangheta, infatti, ha fatto colare a picco carrette del mare davanti al Kenya, alla Somalia e allo Zaire (ex Congo belga), usando capitani di nazionalità italiana o comunque europea, ed equipaggi misti con tunisini, marocchini e albanesi». Rimane l'incontrovertibile fatto, aggiunge Fonti, «che la maggior parte delle navi è stata fatta sparire sui fondali dei nostri mari». Non soltanto attorno alla Calabria, «ma anche nel tratto davanti a La Spezia e al largo di Livorno, dove il boss Natale Iamonte mi disse che aveva "sistemato" un carico di scorie tossiche di un'industria farmaceutica del Nord».
Seguono altri racconti dell'ex boss, che dopo il ritrovamento del mercantile sui fondali di Cetraro non si limita a occuparsi dei retroscena di casa nostra ma apre una pagina internazionale finora ignota sulla Somalia: «Avevo rapporti personali», dice, «con Ibno Hartomo, alto funzionario dei servizi segreti indonesiani, il quale contattava me e la 'Ndrangheta per smaltire le tonnellate di rifiuti tossici a base di alluminio prodotte dall'industriale russo Oleg Kovalyov, vicino all'allora agente del KGB Vladimir Putin». Un lavoro impegnativo per le dimensioni, spiega Fonti, gestito in due fasi: «Nella prima caricavamo le navi in Ucraina, a Kiev, le facevamo passare per Gibuti e le dirigevamo a Mogadiscio oppure a Bosaso. Nella seconda fase, invece, le scorie venivano affondate a poche miglia dalla costa somala o scaricate e seppellite nell'entroterra». Facile immaginare le conseguenze che tutto ciò potrebbe avere avuto sulla salute della popolazione. E altrettanto facile, secondo Fonti, è spiegare come le navi potessero superare senza problemi la sorveglianza dei militari italiani, che presidiavano il porto di Bosaso: «Semplicemente si giravano dall'altra parte. Anche perché il ministro socialista Gianni De Michelis, che come ho già raccontato all'Antimafia gestiva assieme a noi le operazioni, era solito riferirci questa frase di Bettino Craxi: "La spazzatura dev'essere buttata in Somalia, soltanto in Somalia". Naturale che i militari, in quel clima, obbedissero senza fiatare». Allucinante? Incredibile? Fonti allarga le braccia: «Racconto esclusivamente episodi dei quali sono stato protagonista, e aspetto che qualcuno si esponga a dimostrare il contrario». Magari, aggiunge, «anche su un altro fronte imbarazzante: quello delle auto sulle quali viaggiavo per recuperare, nelle banche straniere, i soldi avuti per gli affondamenti clandestini dei rifiuti radioattivi». Gliele forniva «direttamente il Sismi, con la mediazione dell'agente Pino. Per salvarmi la vita, in caso di minacce o aggressioni, mi sono segnato il tipo di macchine e le matricole diplomatiche che c'erano sui documenti. Va da sé che ci venivano assegnate auto diplomatiche perché non subivano controlli alle frontiere». Ora, dopo queste dichiarazioni, «i magistrati avranno nuovi elementi sui quali lavorare», conclude Fonti. «Troppo facile e troppo riduttivo» sostiene, «sarebbe credere che tutto si esaurisca con il ritrovamento nel mare calabrese di un mercantile affondato». Questa, aggiunge, non è la fine della storia: “È l'inizio di un'avventura tra i segreti inconfessabili della nostra nazione. Un salto nel buio dalle conseguenze imprevedibili».
Quanti altri Cunski custodiscono segreti e rilasciano veleni dal fondo del Mediterraneo? La domanda è la stessa che inseguiva quattordici anni fa il capitano di vascello Natale De Grazia. Nel cuore dell'indagine prendeva appunti. Uno degli ultimi, fino ad oggi inedito, offre qualche punto interrogativo e diverse certezze. Vale la pena di leggere: «Le navi, 7/8 italiane e a Cipro. Dove sono? Quali sono? I caricatori e i mandanti. Punti di unione tra Rigel e Comerio. Hira, Ara, Isole Tremiti. Basso Adriatico. Porti di partenza: Marina di Carrara m/v Akbaya. Salerno/Savona/Castellammare di Stabia/Otranto/Porto Nogaro/Fiume. Sulina Beirut. C/v Spagnolo. Materiale radioattivo». Qual era la mappa cui si riferiva il capitano di vascello Natale De Grazia nell'autunno del '95? Non lo sapremo mai. Una sera di metà dicembre di quell'anno De Grazia si accascia sul sedile posteriore dell'auto che lo sta portando a La Spezia, alla caccia dei misteri delle navi dei veleni. Una morte per infarto, dice il medico. Ma un infarto particolare, se poco tempo dopo il capitano verrà insignito della medaglia d'oro al valor militare... Comincia da qui, da quell'appunto inedito, il viaggio alla ricerca delle navi dei veleni, affondate non solo in Italia ma in tutto il Mediterraneo e nel Corno d'Africa.
De Grazia indaga sugli affondamenti ma anche sulle rotte. E scopre che se il cimitero dei veleni è nei mari del Sud Italia, i porti di partenza sono nel Nord, in quell'angolo misterioso tra Toscana e Liguria dove si incontrano due condizioni favorevoli: l'area militare di La Spezia e le cave di marmo delle Alpi Apuane. Perché l'area militare garantisce la riservatezza e il granulato di marmo copre le emissioni delle scorie radioattive. Ma De Grazia sapeva altro. Sapeva, ad esempio, che nella casa di Comerio c'era una cartellina: «una carpetta» riferisce Neri «con la scritta Somalia e il numero 1831. Nella cartella c'era il certificato di morte di Ilaria Alpi». Oggi, naturalmente, scomparso dagli atti.
La giornalista Ilaria Alpi aveva probabilmente messo il naso in queste vicende. È stata fatta fuori in un'imboscata «dei ribelli» in Somalia...
Cosa fare ora?
La cosa non deve passare sotto silenzio, i riflettori non devono spegnersi! Devono intervenire la Procura nazionale antimafia e il Ministero dell'Ambiente. Bisogna formare un'unità di crisi per il monitoraggio delle zone in cui all'aumento della radioattività corrisponde un picco di tumori. Vogliamo sapere la verità sui legami tra il traffico di rifiuti e il traffico di armi, le connessioni con il caso Ilaria Alpi e il trafugamento di plutonio e rifiuti radioattivi.
Buona parte del lavoro è già fatto: mettendo assieme le informazioni raccolte pazientemente dai magistrati di mezza Italia è possibile costruire la mappa dei cimiteri radioattivi dei nostri mari e sul nostro territorio.
LIBERATECI DI QUESTA MERDA!
