I libri, salvo rare eccezioni, spariscono dalla vendita e dall’attenzione — e quindi dall’esistenza — dopo pochi mesi: ne escono a centinaia ogni settimana, e se non ci passano sotto il radar subito, non esisteranno mai più. Ricordiamo il successo (molto pompato) di libretti di uno, due, tre anni fa, per esempio “Cambiare l’acqua ai fiori” oppure “Sapiens, da animali a dèi” o ancora “Papyrus”? Oggi è quasi impossibile che un giovane che non ne abbia ricevuto notizie allora ci si imbatta di nuovo. Mentre grazie ai social network e ai link e a Google, cose pubblicate online anche dieci o venti anni fa continuano a trovare nuove attenzioni e tornare a essere lette.
Le vendite dei libri sono in grande crisi, in Italia e in generale in Occidente. Tutti i maggiori editori italiani hanno perdite più o meno cospicue e grafici in discesa: una cappa di desolazione rassegnata incombe su ogni loro riunione. Il dato insomma c’è: ma la questione è culturale, non commerciale.
E in realtà sono due questioni.
Una è che leggiamo meno libri, per due grandi fattori legati entrambi a internet.
Il primo fattore è che la Rete ha accelerato la nostra disabitudine alla lettura lunga, alla concentrazione su una lettura e un’occupazione sola, al regalare un tempo quieto a occupazioni come queste. È una considerazione ormai condivisa e assodata: la specie umana sta diventando inadatta alla lettura lunga.
Il secondo fattore è che gli spazi e i momenti un tempo dedicati alla lettura di libri stanno venendo occupati in gran parte da altro, e subiscono la competizione di videogiochi, social network, video online e mille altre opportunità a portata di mano sempre e ovunque. Quelli che leggevano libri sui tram o nelle sale d’aspetto o sui treni oggi stanno sui loro smartphone, e non a leggere e-books. Ormai stanno sui loro smartphone anche prima di addormentarsi. Tutto tempo che non è più a disposizione delle lentezze dei libri: è preso. È perso.
La seconda questione centrale nella crisi dell’oggetto libro è che è diventato marginale come mezzo di costruzione e diffusione della cultura contemporanea, che invece sempre più trova luoghi di dibattito, espressione, sintesi, su internet e in formati più brevi. Che non sono necessariamente più superficiali, anzi talvolta sono molto più densi e ricchi di certi saggi di 300 pagine allungati intorno a una sola idea.
Il “pubblicare un libro” come sintesi e ratifica di uno studio, una riflessione, un’idea, un tema da condividere o una storia da raccontare, è una pratica che non ha più il rilievo di un tempo. Perché quelli che leggono quella ratifica, e poi ne discutono e la fanno diventare un pezzo del dibattito e della cultura, diminuiscono ogni giorno, sono quasi prossimi all’estinzione.

Poi, certo, restano gli appassionati “romantici” dei libri: lo siamo un po’ tutti, e c’è il piacere, e c’è la bellezza, e così via (e internet offre loro nuovi spazi di sopravvivenza, anche se sempre più riserve indiane). E ci sono libri bellissimi, se uno li legge. Come per il teatro, la cui importanza e meraviglia nessuno mette in discussione, ed è bello che esista ancora. Ma non “esiste” più, il teatro: è una nicchia laterale della cultura contemporanea che non interagisce più con la crescita e le evoluzioni della cultura contemporanea.
I libri non sono ancora arrivati a quel punto lì, e magari non ci arriveranno. Ma entrerei nell’ordine di idee che sia plausibile. Anche perché, come sembra ormai acclarato, si sta proprio modificando il cervello umano.
Modifiche neurologiche
Claire Handscombe ha un problema di concentrazione online. Come molti frequentatori del web, clicca sui link che trova sui social network, ne legge alcune righe, cerca le parole attraenti, e poi si stufa e passa alla pagina successiva, dalla quale probabilmente si distrarrà altrettanto.
«Ci dedico qualche secondo – neanche minuti – e poi sono già da un’altra parte», dice Handscombe, che ha 35 anni e una laurea in scrittura creativa alla American University.
Ma non è solo una cosa online: Handscombe si accorge di avere lo stesso comportamento con i romanzi. «È come se i tuoi occhi passassero sopra le parole ma non stai davvero assorbendo quello che dicono. Quando me ne rendo conto, devo tornare indietro e ricominciare da capo».
Per i neuroscienziati cognitivi, quel che succede a Handscombe è oggetto di grande interesse e allarme crescente. Gli umani, avvisano, sembrano sviluppare cervelli digitali con nuovi circuiti per scorrere e filtrare la corrente di informazioni online. Questo tipo alternativo di lettura sta entrando in competizione con i circuiti di lettura profonda sviluppati nel corso di diversi millenni. «Ho paura che il modo superficiale con cui leggiamo durante il giorno ci influenzi quando dobbiamo invece leggere con elaborazioni più approfondite», dice Maryanne Wolf, neuroscienziata cognitiva della Tufts University che ha scritto “Proust and the Squid: The Story and Science of the Reading Brain”.

Se la crescita delle tv all-news 24 ore su 24 ha dato al mondo una cultura di brandelli sonori, secondo Wolf internet sta introducendo una cultura di brandelli visivi. In base agli ultimi dati statistici disponibili (aprile 2024), gli adulti occidentali trascorrono in media tra le 6 e le 7 ore al giorno online. Questo dato include sia l’utilizzo di internet per lavoro che per svago. Nello specifico, il tempo trascorso online tramite dispositivi mobili rappresenta circa il 60% del totale, mentre l’uso del PC costituisce il restante 40%; i social media occupano circa 2,5 ore di questa quotidianità. Amanti della lettura e studiosi hanno invocato un movimento “slow reading”, facendosi ispirare dal movimento “slow food”. Combattono non solo le cavalcate superficiali sulle frasi ma le incessanti tentazioni che balenano sui nostri apparecchi a opera dei social network e delle mail, i trilli e popup che interrompono “Chiamatemi Ismaele”.
I ricercatori lavorano da anni per avere un quadro più chiaro delle differenze tra la lettura online e quella su stampa — la comprensione del significato, tanto per cominciare, sembra migliore su stampa — e si confrontano con quello che queste differenze possono significare non solo rispetto a godersi l’ultimo romanzo di Pierre Lemaitre, ma anche con la comprensione di contenuti difficili sul lavoro e a scuola. Ci sono preoccupazioni che l’affinità e la capacità di governare gli apparecchi dei genitori da parte dei bambini possa limitare lo sviluppo di capacità di lettura più approfondita. Il cervello è la vittima innocente di questo nuovo mondo: si limita a riflettere il modo in cui viviamo. «Il cervello è duttile per tutta la sua vita, si adatta costantemente», spiega Wolf, che è una dei massimi esperti mondiali sullo studio della scrittura e nel 2013 fu colpita dalla scoperta di come sembrasse essersi adattato anche il suo, di cervello. Dopo un giorno passato sul web e leggendo centinaia di mail, si sedette a leggere “Il gioco delle perle di vetro” di Herman Hesse, e «non sto scherzando: non ci riuscivo. Era una tortura riuscire a concludere la prima pagina, non riuscivo a forzarmi a rallentare: selezionavo le parole utili, organizzavo il movimento degli occhi per raccogliere più informazioni nel minor tempo possibile. Mi vergognavo di me stessa».
Il cervello non è progettato per leggere. Non ci sono “geni per la lettura” come ce ne sono per il linguaggio o la vista. Ma spinto dall’emergere dei geroglifici egizi, dell’alfabeto fenicio, dalla carta cinese e, infine, dalla stampa di Gutenberg, il cervello si è adattato a leggere.
Prima di internet, leggeva soprattutto in modi lineari: a una pagina ne seguiva un’altra, e così via. Certo, ci potevano essere immagini mescolate al testo, ma tendevano a esserci poche distrazioni. Leggere la stampa ci ha dato anche una notevole abilità nel ricordare dove trovare le informazioni fondamentali in un libro anche solo a partire dalla sua impaginazione, dicono i ricercatori: capiamo che il protagonista muore nella pagina con i due lunghi paragrafi dopo tutto quel dialogo.
Internet è diversa. Con tante informazioni, testo linkato, video e parole mescolati e cose interattive ovunque, i nostri cervelli creano scorciatoie per orientarsi, scorrendo velocemente su e giù e cercando parole chiave. È un tipo di lettura non lineare che è stato descritto anche in diversi articoli accademici. Alcuni ricercatori pensano che per molte persone questo stile di lettura stia diventando predominante anche quando abbiamo a che fare con strumenti di lettura più tradizionali.
Andrew Dillon, un professore dell’Università del Texas che si occupa di studiare le abitudini di lettura, ha dichiarato a un convegno:
Passiamo così tanto tempo toccando, schiacciando, linkando, scorrendo e saltando su e giù attraverso le pagine scritte che quando ci sediamo per leggere un romanzo lo facciamo nello stesso modo: le nostre abitudini quotidiane di linkare, cliccare e scorrere su e giù sono radicate in noi.
Brandon Ambrose, 31 anni, analista finanziario intervistato dal Washington Post, ne sa qualcosa. Con il suo “club del libro” ha letto “The interestings”, un bestseller di Meg Wolitzer, e quando si è trovato con gli altri per discutere del libro si è accorto di aver perso una serie di linee narrative della storia. Aveva letto il libro come di solito legge sul suo computer, scorrendolo velocemente e cercando informazioni su uno specifico argomento. «Quando proviamo a leggere un romanzo ci rendiamo conto di non saperlo più fare, non è una buona notizia».
Qualcosa di ancora più preoccupante lo ha notato Ramesh Kurup, 47 anni, anche lui intervistato dal Washington Post, che mentre provava a leggere le opere di autori classici — George Eliot, Marcel Proust, quel genere lì — si è reso conto di fare una grande fatica quando doveva leggere periodi lunghi, articolati e con tante parentesi e subordinate ricche di informazioni laterali. Su internet le frasi tendono a essere più corte e quelle che forniscono informazioni complesse contengono link che rimandano ad altre pagine. «In un libro non ci sono grafici o link, per seguire le tracce» ha notato Kurup. È più facile cliccare su un link, pensa Kurup, piuttosto che seguire tutte quelle parentesi pagina dopo pagina, in lunghissimi paragrafi. La Wolf non si mostra stupita, e spiega che diversi direttori di dipartimenti di letteratura inglese le scrivono confermandole che sono ormai molti gli studenti che faticano a leggere i classici.
«Non riescono a leggere Middlemarch, non riescono a leggere William James o Henry James», dichiara Wolf. «Non avete idea di quante persone mi hanno scritto per parlarmi di questa cosa. Gli studenti non hanno più la volontà o la capacità di leggere la sintassi lunga e contorta di George Eliot e Henry James».
Wolf ci tiene a non passare per una luddista: manda email con il suo iPhone tanto quanto fanno i suoi studenti ed è impegnata in un programma per mandare tablet verso i Paesi in via di sviluppo per aiutare i bambini a imparare a leggere. Ma, per fare un esempio del problema, invita a pensare a social come Twitter/X:
Tutta la sintassi si perde, e la sintassi è il modo in cui esprimiamo pensieri complessi. Temo che perderemo la capacità di leggere e scrivere questo tipo di prosa articolata.

Alcune ricerche particolarmente interessate a capire le differenze tra lettura online e offline hanno riguardato gli effetti che il mondo digitale sta avendo sul cervello e si sono avvalse di immagini del cervello di persone che leggevano pagine di testo online e stampate. Uno studio israeliano del 2012 ha paragonato il modo in cui un gruppo di studenti di ingegneria, cresciuti “davanti agli schermi”, leggeva e capiva porzioni di testo analoghe da uno schermo oppure da una pagina stampata, quando venivano cronometrati per completare alcuni test. Gli studenti credevano di aver fatto meglio quando leggevano dal computer. Si sbagliavano: la loro comprensione era stata superiore quando leggevano dalla carta.
I ricercatori, tuttavia, pensano che le differenze tra i due diversi tipi di lettura siano da studiare più approfonditamente, soprattutto nei bambini più piccoli che vanno a scuola. Secondo alcuni c’è la possibilità che si sviluppino menti con uguale dimestichezza per diversi modi di leggere.
«Non possiamo tornare indietro», dice Wolf. «Dobbiamo educare i nostri bambini leggendogli libri e insegnandogli a leggere in modo lento e attento, ma allo stesso tempo dobbiamo aumentare gradualmente la loro immersione nell’èra digitale e tecnologica. Dobbiamo fare tutte e due le cose, parallelamente. Dobbiamo chiederci: cosa esattamente vogliamo conservare?»
Wolf stessa sta allenando la sua mente alle due diverse capacità. La sera dopo il primo tentativo, ha riaperto il libro di Hesse, mettendo un po’ di distanza, sia spaziale che temporale, tra lei e lo schermo del suo computer. «Ho messo tutto da parte. Mi sono detta: “lo devo fare”. La prima sera è stato difficile e anche la seconda sera non è stato affatto facile. Ci ho messo due settimane, ma alla fine mi sono riabituata a leggere e mi sono goduta il libro fino alla fine».
E poi lo ha letto di nuovo:
Volevo apprezzare questo modo di leggere e quando ci sono riuscita è stato come guarire. Ho ritrovato la mia capacità di andare lentamente, gustare quel che leggo e pensare.
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