“Dio-Patria-Famiglia”. Fin dall’insediamento, la premier Giorgia Meloni va ripetendo che la famiglia «è una priorità assoluta». Il sogno nativista della destra appare quello del ritorno a una presunta età dell’oro in cui i popoli nazionali vivevano non commisti, omogenei al loro interno per cultura, lingua, religione e tratti somatici. In questa prospettiva, il proposito di unificare il popolo implica la produzione di un ethnos omogeneo con tratti di “bianchezza”, al cui cuore si trova la famiglia come pilastro di un ordine di genere, sessuale, razziale, che sottomette i diritti individuali — in particolare sessuali e riproduttivi — al dovere di assicurare la sopravvivenza della nazione.
Ma al di là del razzismo epidermico cosa si fa di concreto per questa sagrada familia? Nel suo “Rapporto sui giovani”, l’Istat certifica che una ripresa demografica in Italia oggi non sembra impossibile, visto che il 69,4% dei bambini e ragazzi tra gli 11 e i 19 anni dichiara di volere figli. Una notizia che farebbe ben sperare, ma sulla quale alcune domande nascono spontanee: cosa sta facendo il governo Meloni, che dice di avere tra le priorità la lotta alla denatalità, per sostenere i genitori del presente e del prossimo futuro? Che sta facendo per i giovani italiani “bianchi”, il 34% dei quali dichiara di volersene andare all’estero? Cosa sta facendo per le donne e le ragazze, in un Paese che per la prima volta nella Storia ha una Presidente del Consiglio donna?
La risposta purtroppo è: niente.
In realtà tutto sembra andare nella direzione opposta: ostacolare la nascita di nuove famiglie.

Alla propaganda “Dio-Patria-Famiglia” seguono politiche contro le giovani e i giovani: zero investimenti sull’occupazione giovanile e femminile, nulla per i congedi parentali e gli asili nido, azzerato il fondo affitti e quello per l’acquisto della prima casa, tagli ai fondi per la scuola, per l’università e per sostenere i fuori sede. E in nome della famiglia patriarcale, continui attacchi alla libertà di autodeterminazione femminile.
A giudicare dai numeri reali e non dalle “narrazioni” (l’ormai famigerato storytelling), Meloni sembra addirittura essersi mossa contro le donne. Lo ha fatto concretamente quando, in barba alla (insostenibile) retorica familistica dei suoi discorsi, il suo governo ha aumentato le tasse sui beni di prima necessità per l’infanzia e per l’igiene intima. Lo ha fatto quando ha tolto anche le facilitazioni minimali per la pensione che venivano offerte con “Opzione donna”e “Ape sociale”. Lo ha fatto quando ha tagliato i fondi del PNRR che servivano per costruire asili nido e centri antiviolenza al sud utilizzando beni confiscati alle mafie.
E poi c’è il costo. È un fatto: oggi crescere un figlio è talmente costoso da mandare le persone in bancarotta, specialmente i più poveri. In base a una ricerca 2024 del centro studi Legacoop e di Ipsos, nel 40% dei casi i figli assorbono tra il 30 e il 50% del bilancio familiare; per un altro 15% si sfora la soglia della metà del bilancio e si arriva anche al 70%. I figli dei ceti popolari hanno meno diritti, meno opportunità su studio, sport, salute e cultura. Bankitalita stima in €640/mese il costo di mantenimento di un figlio, circa 138.000 euro per il suo sostentamento dalla nascita ai diciotto anni. Poi ci sono anche problemi sociali: un difficile equilibrio fra tempo per la famiglia e tempo per il lavoro, con un welfare pubblico su cui non si può fare affidamento.
Per esempio, le scuole comunali: se si ha la “fortuna” di rientrare nelle graduatorie, queste iniziano ottimisticamente alla fine di settembre con inserimenti di circa 2h al giorno per almeno una settimana (se non due) e poi «no però prima dell’orario completo almeno per alcune settimane prendete il bimbo alle 16», e anche «ma deve proprio restare fino alle 18?!», frasi accompagnate da sguardo esplicativo (ma cosa li fate a fare i figli se poi ce li lasciate tutto il giorno!). Scuole pubbliche che iniziano a ottobre e finiscono a giugno. Scuole private che costano quanto uno stipendio italiano medio. Tate (quando le trovi e restano) che costano più di uno stipendio medio. Al nostro Paese non importa minimamente di come le famiglie si organizzino: “in qualche modo faranno”. E le famiglie in qualche modo (af)fanno. E tutto ciò per poter lavorare, non certo per poter andare a fare la manicure, o una passeggiata all’aria aperta (ormai solo un mito).

Tuttavia, banalmente, una causa cruciale della denatalità italiana non sta nella inazione politica: è nel ridursi delle persone in grado di mettere al mondo dei figli. Dal 1991 il numero delle nascite è sceso del 32%, quello delle potenziali mamme del 25%. In sostanza ci sono in Italia sempre meno donne — e uomini — in età feconda.
È un tema scientifico: attinente alla statistica e alla medicina. A questo proposito, proprio perché la fecondità è in calo “strutturale” in Italia, bisognerebbe per esempio sostenerla ampliando l’accesso alla procreazione medicalmente assistita. Si va dall’inseminazione semplice, alle tecniche di fecondazione in vitro che includono il trasferimento di embrioni o gameti conservati (anche per anni) a temperature di quasi 200 sottozero in azoto liquido; si arriva, infine, a tecniche di inseminazione più complesse e anche con embrioni o gameti donati (“eterologa”).
Negli ultimi 28 anni tre milioni di europei sono nati grazie a queste tecniche di laboratorio. Nel 2021 più di quattro bambini ogni cento sono nati in Italia grazie a esse (nove su cento in Spagna, circa otto in Grecia, più di sei in Danimarca). Nel decennio dal 2012 al 2022 più di centomila bambini nel nostro Paese sono potuti venire al mondo in questo modo.
La procreazione medicalmente assistita è una delle poche possibilità di contenere il declino delle nascite in Italia nei prossimi decenni, mentre gli italiani in età feconda diminuiscono sempre di più. Le procedure non dànno affatto la certezza di poter arrivare a una gravidanza e, per esempio, non rimediano di per sé ai limiti legati all’età biologica degli ovociti. Ma i progressi nell’efficacia sono stati enormi e continueranno: vent’anni fa meno di un decimo delle coppie sottoposte ai prelievi riusciva a ottenere una gravidanza, oggi sono un quarto.
Senz’altro la procreazione medicalmente assistita sta diventando sempre più importante, anche perché le italiane hanno l’età media al primo parto più alta d’Europa (33 anni). Fra le donne di quarant’anni e oltre, quasi un quinto delle gravidanze in Italia avviene grazie a queste tecniche (un quarto in varie regioni d’Italia centrale e del Nord). Eppure esse sono anche fonte di diseguaglianze, fra ceti e fra territori, e il contrasto al declino demografico non è uguale per tutti. Fra le donne laureate, il 5,6% delle gravidanze avvengono solo grazie alla procreazione medicalmente assistita (in Lombardia, sempre fra le laureate, quasi otto su cento). Fra le donne con un diploma di scuola media inferiore siamo a un bel po’ meno di due su cento.
In parte si spiega proprio con le età delle persone che si rivolgono ai centri di fertilità. È probabile che una laureata arrivi più tardi nella vita alla decisione di avere il primo figlio e potrebbe incontrare più difficoltà a rimanere incinta.

Ma abbiamo un’idea dei prezzi?
Una clinica privata può chiedere 5.600 euro per il primo ciclo di base di fecondazione in vitro, 8.500 per un ciclo un po’ più complesso, più altri servizi in clinica. E la coppia che vi ricorre sa di essere destinata a ripetere l’esperienza più volte. Senz’altro ci si può rivolgere in centri pubblici o privati convenzionati con la Sanità regionale: ma a sud di Roma ce ne sono la metà di quelli presenti nella sola Lombardia, e praticamente tanti quanti in Toscana. Vivere nel luogo sbagliato — ieri, oggi e in futuro — significa restare in lista d’attesa anni: troppo perché rimanga una chance di avere un figlio, quando si verrà chiamati.
Dunque, la scelta è chiara. O si hanno soldi e/o tempo (quasi mai) o si accetta il destino dei migranti sanitari (ma anche loro affrontano alti costi). Ecco due conti su cosa significa questa diseguaglianza di fronte alla procreazione, stimando la quota delle nascite grazie alla fecondazione in vitro in ogni regione:
- La Lombardia ha il 47% in più di nascite da procreazione assistita, rispetto al suo peso demografico in Italia
- La Toscana ne ha il 22,5% in più
- Il Lazio il 6,1% in più
- L’Emilia-Romagna il 4% in più
- Il Veneto il 3,6% in più
- La Campania il 9% in meno
- La Sicilia il 21% in meno
- La Calabria il 63% in meno.
Eppure in Campania per esempio non mancherebbero le cliniche di fertilità private (non convenzionate): ne ha più di quasi tutte le regioni del Centro-Nord. Mancano giusto molte coppie che possano permettersele.

Le politiche dell’assurdo
Dal 2017 una legge prevede che la procreazione assistita vada inclusa nei “Livelli essenziali di assistenza” della Sanità pubblica: un diritto del cittadino, accessibile in centri pubblici e convenzionati senza costi. Oggi lo è, ma solo dove esistono le strutture. In teoria questo diritto sarebbe dovuto diventare effettivo per tutti all’inizio di quest’anno, con il rinnovo dei tariffari del Ministero della Salute per i pagamenti pubblici ai centri convenzionati. Solo che non è successo. Alle strette con i budget, il ministero ha indicato tariffe da 2.750 euro per tecniche che oggi nel privato costano il doppio. Non si sa chi abbia ragione. Si sa che le cliniche hanno fatto ricorso al TAR (Tribunale amministrativo regionale) del Lazio contro le tariffe pubbliche offerte loro per migliaia di prestazioni mediche e cliniche, incluse quelle di fertilità. Il TAR prima ha bloccato il tariffario (dunque l’accesso ai servizi), poi lo ha sbloccato in attesa di pronunciarsi. Ma di fatto la procreazione medicalmente assistita oggi è accessibile quasi solo a chi può pagarsela di tasca propria e la disponibilità per gli altri — quelli che hanno bisogno della Sanità pubblica — resterà scarsa.
Se il TAR confermerà le tariffe del ministero, l’offerta delle cliniche sarà molto ristretta e forse con extra costi più o meno nascosti a carico delle pazienti. Se non conferma quelle tariffe, il ministero non avrà probabilmente altri fondi da metterci. E comunque dove le strutture pubbliche o convenzionate mancano — lontano dalle grandi città e a sud di Roma — continueranno a mancare. (E sicuramente non ne nasceranno di nuove, se l’investimento del Ministero della Salute resterà basso.)
È tutto tremendamente irrazionale, anche solo da un punto di vista economico (per non dire degli aspetti sociali e umani). Crederci e investire di più sulla procreazione medicalmente assistita, alzare queste nascite da 15 mila a 45 mila all’anno in Italia, può costare forse meno di 100 milioni l’anno. Ma secondo l’economista sanitario Mark Connolly aumenterebbe di varie decine di miliardi il reddito che sarebbe prodotto in Italia in futuro da chi oggi nascerebbe così.
In altre parole, investo appena 100 milioni per ottenere poi svariati punti di PIL: in tempi di crescita nazionale asfittica, sarebbe una manna. Lo Stato italiano, per il tramite dei suoi governi, non sa nemmeno farsi i conti. (Ma forse se li fa: «quello che io, governo X, investo oggi, poi se lo intesterà il governo Y fra uno o due decenni, quindi non mi conviene».)
E intanto le biobanche si gonfiano inutilmente
C’è poi un altro aspetto che rende l’Italia un caso unico al mondo. La legge su questa materia è frutto di una stratificazione fra sensibilità cattoliche (da rispettare, certo) e sentenze della Corte Costituzionale, che hanno cercato di sciogliere alcuni nodi. Il risultato è che solo in Italia gli embrioni creati in vitro in sovrannumero e poi non impiantati non possono essere né donati ad altre coppie, né alla ricerca, né distrutti. Continuano ad accumularsi a centinaia di migliaia — in futuro, a milioni — sotto azoto liquido a meno 196 gradi nelle biobanche, con solo una minima parte di essi usati per nuovi trattamenti delle coppie che li hanno formati. Potenzialmente resteranno nelle biobanche per sempre. E le biobanche in Italia si gonfieranno sempre di più, a oltranza. Alberto Virgolino, presidente dell’Associazione Italiana Ginecologi Ostetrici Cattolici, stima che solo nel 2021 si siano aggiunti 61 mila embrioni. «La persona va rispettata nella sua dignità di essere libero fin da quando è generata», dice Virgolino. «Non può essere trattata come ‘oggetto’ da parte di una biotecnologia senza limiti etici, assecondata dalla legge di Stato ed enfatizzata dalla giurisprudenza, così da renderlo un mero ‘prodotto’ manipolabile».
Edgardo Somigliana, responsabile al Mangiagalli di Milano di un’area che include la procreazione assistita, propende invece per il tipico illuminismo milanese: «Dai nostri studi, il fattore determinante in una coppia dopo una prima gravidanza assistita per tornare e avere un secondo bambino è l’avere già degli embrioni congelati. Un simile pensiero è presente nella vita di queste persone, al punto da spingerle un po’ di più, rispetto ad altre coppie, ad allargare la famiglia». Ma aggiunge: «Non credo che sia corretto imporre una visione. Non va rimandato un problema solo perché non sappiamo come risolverlo. Forse sarebbe giusto che ogni coppia potesse decidere cosa fare dei propri embrioni: donarli ad altri, alla ricerca, distruggerli o conservarli».

I bassi tassi di fertilità potrebbero condurre a un declino demografico a partire dal prossimo decennio, con i decessi che supererebbero le nascite per la prima volta. Si prevede inoltre che il rapporto tra popolazione over 65 e popolazione in età lavorativa raddoppi, passando da 30 a 100 nel 2020 a 59 a 100 nel 2060 nell’area OCSE. Il conseguente restringimento della popolazione attiva porterebbe a società sempre più anziane, gravando notevolmente sui governi con crescenti pressioni sociali ed economiche, in particolare per quanto riguarda le spese per pensioni e sanità.
Un secondo trend significativo è il ritardo della genitorialità: in Occidente l’età media delle donne al parto è salita da 28,6 anni nel 2000 a 30,9 nel 2022. Confrontando le donne nate nel 1935 e nel 1975, la percentuale di donne senza figli è quasi raddoppiata in Estonia, Italia, Giappone, Lituania, Polonia, Portogallo e Spagna.
L’Italia ha il tasso di fecondità più basso d’Europa. Secondo i dati diffusi dall’Istat, nei primi sette mesi del 2024 è stato 1,21 figli per donna (era 1,24 nel 2022 e 1,44 nel 2008). Secondo un rapporto pubblicato nel 2019 dall’UNFPA, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di ricerche demografiche e salute sessuale e riproduttiva, metà della popolazione mondiale vive in Paesi in cui il tasso di fecondità è sceso al di sotto del cosiddetto livello di sostituzione, ossia 2,1 (è il tasso che, tenuto conto della mortalità in giovane età e in assenza di migrazione, assicura a una popolazione di rimanere costante nel tempo), che garantirebbe il ricambio generazionale. Le previsioni per i decenni a venire, inoltre, non sembrano mostrare un cambiamento del senso di marcia: entro il 2041 una famiglia su quattro sarà composta da una coppia con figli, più di una su cinque non ne avrà. Da qui al 2070 secondo l’Istat l’Italia perderà 12 milioni di abitanti.
L’infertilità è una condizione che colpisce circa una coppia su sette a livello globale. In Italia si stima che il fenomeno riguardi in un solo anno 584.200 coppie di età compresa tra i 20 e i 44 anni. Ma tra coloro che potrebbero essere interessati a un trattamento medico (appunto la PMA, la Procreazione Medicalmente Assistita) per ovviare agli effetti negativi della patologia, solo il 27% riesce a ottenerlo.
Un governo che fosse davvero “pro-Famiglia” non dovrebbe fare di tutto per eliminare gli ostacoli e per esempio portare questo 27% al 100%?
Lo so, la mia è una domanda con risposta incorporata. E relativo scoramento.
«Sebbene i Paesi OCSE adottino diverse politiche di sostegno alle famiglie, i costi economici e l’incertezza finanziaria a lungo termine legati all’avere figli continuano a influenzare significativamente la decisione di diventare genitori», afferma Stefano Scarpetta, a capo della Direzione Occupazione, Lavoro e Affari Sociali dell’OCSE. «Facilitare le decisioni in merito alla genitorialità richiede un supporto completo e affidabile alle famiglie. Ciò include alloggi a prezzi accessibili, politiche familiari che aiutino a conciliare vita lavorativa e familiare e una coerenza con altre politiche pubbliche che promuovano l’accesso a lavori di qualità e la carriera delle donne».
“Society at a Glance” mostra come l’aumento dei costi degli alloggi a partire dalla metà degli anni 2010 abbia complicato la formazione di relazioni e famiglie a lungo termine, con un numero sempre maggiore di giovani tra i 20 e i 30 anni che vivono con i genitori per motivi economici: l’accesso a soluzioni abitative più accessibili faciliterebbe la formazione di nuove famiglie da parte di costoro.
I Paesi devono inoltre considerare come adattare le proprie strategie politiche a un futuro caratterizzato da bassa fertilità. Ciò include un approccio proattivo a migrazione e integrazione e un più facile accesso all’occupazione per i gruppi sottorappresentati. Aumentare la produttività aiuterebbe inoltre a mitigare le conseguenze economiche e fiscali di una potenziale contrazione della forza lavoro.
Dunque: consentire l’accesso di tutti alla PMA e a soluzioni abitative più accessibili, e favorire una immigrazione controllata e più intelligente. Si potrebbe cominciare da qui. Anche solo per contrastare almeno in parte il drammatico problema — che, va detto, affligge metà del pianeta. Non è facile comprendere se e quanto le misure per incentivare le nascite siano efficaci. Chi le critica tende a far notare che in nessun Paese sono bastate a fermare la progressiva diminuzione del numero di figli per donna (cioè il tasso di fecondità). Chi le difende obietta che non è possibile sapere se il calo delle nascite sarebbe stato ancora più cospicuo senza le misure. In generale è però abbastanza condivisa l’idea che bonus, agevolazioni fiscali e ogni altro mezzo pensato per contrastare la denatalità e introdotto dai governi negli anni abbiano prodotto ovunque risultati molto al di sotto delle aspettative di chi li aveva istituiti.
Noi cosa facciamo? Muri ai confini e “porti chiusi”. Zero politiche abitative. Welfare senza soldi né progetti. Lotte burocratiche fra ministeri e tribunali amministrativi che non portano a niente e nel migliore dei casi congelano l’esistente. Perciò non solo non iniziamo nemmeno la politica di contrasto, ma causeremo un’accelerazione del declino demografico. Anche perché l’oscurantismo promosso dai governi di destra, con soluzioni basate sulla donna “angelo del focolare” chiusa in casa a figliare e allevare, non è una strada praticabile (e meno male!, direi).
Per parafrasare Eugene Ionesco — vero autore della battuta che invece continua a essere attribuita a Woody Allen —, lo slogan della destra sovranista e populista in Italia si può declinare così: Dio è morto (la fede è ai minimi termini), la Patria è morta (annegata nella globalizzazione) e anche la Famiglia non si sente molto bene (abbandonata a sé stessa e ostacolata in tutto).
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