Negli ultimi anni, Mark Zuckerberg e la sua Meta (ex Facebook) sono stati sinonimo di posizioni progressiste, programmi di inclusione e diversità, e un’adesione — quanto meno di facciata — ai valori dell’Identity Politics. Eppure, nell’arco di poche settimane, abbiamo assistito a un ribaltamento quasi totale delle politiche interne di Meta: dall’abolizione del fact-checking in virtù dell’adozione di un modello simile a quello dell’X di Elon Musk al clamoroso taglio dei programmi DEI (Diversity, Equity & Inclusion). Un’inversione di rotta talmente brusca da lasciare interdetti dipendenti, analisti e semplici osservatori.
Chi sarebbero questi fact-checker, “discernitori di fatti” per dirla (male) in italiano? Come è detto anche nelle company policies di Meta, sono quelle figure che si impegnano a contrastare la diffusione della disinformazione su Facebook, Instagram e Threads certificate dalla rete International Fact-Checking Network (IFCN) e dall’European Fact-Checking Standards Network (EFCSN). “Fact checking” è un’espressione diffusa nel mondo anglosassone da molto prima dei social e del dibattito recente sulla disinformazione. Nella sua accezione più ampia indica la pratica giornalistica di verificare i fatti e le fonti delle notizie, che in teoria è parte del lavoro giornalistico stesso. Nel caso di Meta indica il programma che prevede di contrassegnare foto, video o articoli di notizie false con un avviso: è gestito in autonomia da varie organizzazioni, diverse da Paese a Paese, che ricevono finanziamenti da Meta. Oltre all’avviso, i contenuti contrassegnati dai “fact checker” vengono mostrati meno spesso rispetto agli altri suggeriti dalla piattaforma. In Italia, a collaborare con Facebook per il fact-checking è il sito Pagella Politica: e il progetto, come quello nei Paesi che non sono gli Stati Uniti, per il momento è ancora finanziato.
In generale, non ci sono molti dubbi sul fatto che la maggior parte delle verifiche delle notizie sui social si sia concentrata in questi anni su contenuti diffusi da canali vicini alla destra statunitense. E forse proprio perché la richiesta di fact-checking proveniva in modo prevalente dalla sinistra o comunque dall’area cosiddetta liberal, è comprensibile che giornalisti ed esperti impegnati a vario titolo in attività specifiche di contrasto della disinformazione tendessero ad avere perlopiù un orientamento progressista. È un fatto che la disinformazione proveniente da destra riceva più attenzioni rispetto a quella da sinistra: tuttavia la spiegazione è che la prima è molto più diffusa tra le due, anche perché gli utenti conservatori sono più inclini dei progressisti a condividere informazioni da siti di scarsa affidabilità. E questo fa sembrare che i fact-checker siano di sinistra solo perché il fact-checking dei contenuti promossi dalla destra li impegna molto più spesso.

Nei cinque minuti del messaggio urbi et orbi, il gran capo di Meta non ci gira troppo intorno: «tra pochi giorni arriva Donald Trump al potere, è cambiato il vento, anche noi si fa come X». L’ex ragazzo prodigio celebrato in un grande film del 2010 diretto da David Fincher (3 Oscar, 4 Golden Globe e una meravigliosa sceneggiatura del genio Aaron Sorkin), oggi 40enne, potrà trovare brutale la sintesi delle sue parole, ma è inutile girarci intorno. Qualche giorno prima del reinsediamento del tycoon dai capelli arancioni alla Casa Bianca è iniziata l’operazione di riposizionamento. Liquidate in cinque minuti — letteralmente — le battaglie condotte per anni sulla trasparenza del processo di revisione e di moderazione dei contenuti su Facebook e Instagram. Agli oltre tre miliardi di utenti unici mensili sulla prima piattaforma e ai due miliardi della seconda il padrone dà l’annuncio di una svolta politica fondamentale come se stesse raccontando dell’ultimo adesivo da aggiungere alle stories. È la dimostrazione plastica del potere dei signori delle Big Tech: piazzo il telefono, registro il messaggio e voialtri ingoiate, punto. Logiche da sovrano assoluto. Spazi privati, ma ormai pubblici a tutti gli effetti, plasmati a seconda di come gira il vento. Quattro anni fa Trump era “troppo pericoloso” per lasciargli continuare a usare Facebook e Instagram, quattro anni dopo va sostenuto per fare la guerra alla censura.
Che la moderazione su Facebook e Instagram facesse acqua, lo sappiamo tutti. Capezzoli di opere d’arte antica scambiati per contenuti porno. Notizie prese per incitamenti alla violenza o pubblicità sul gioco d’azzardo. Post scomparsi e profili bloccati così, tanto per gradire. Insomma, quando Zuck ammette nel video che la pulizia delle sue piattaforme mieteva un sacco di vittime tra utenti benintenzionati, dice il vero. Ma anziché annunciare un miglioramento del processo, magari con un lavoro partecipato, aperto (ce lo ricordiamo quando Internet era un posto open? No, perché non ce lo siamo sognato: la Rete libera è esistita davvero), si butta via il bambino con l’acqua sporca.
Meta annuncia di voler fare a meno del fact-checking e con che cosa lo sostituisce? Vengono adottate le “Community notes” di X (il fatto che si copierà la fogna a cielo aperto che il social di Musk è diventato lo ha ammesso candidamente Joel Kaplan, nuovo responsabile degli affari globali del colosso di Menlo Park, oltre che ex vice capo di gabinetto di George W. Bush nonché repubblicano di ferro) e ha usato la foglia di fico della libertà di espressione per apportare modifiche allarmanti alle sue regole contro l’incitamento all’odio e le fake news. In più, il gigante dei social media ha nominato Dana White, boss della principale organizzazione americana di arti marziali miste (e alleato di Trump), nel consiglio di amministrazione.
In un comunicato Kaplan ha scritto che il programma di verifica dei contenuti gestito da fact-checker indipendenti era «nato per informare» ma col tempo «è diventato troppo spesso uno strumento per censurare». E lo stesso Zuckerberg, senza citare prove o evidenze, afferma che «i fact-checker sono stati semplicemente troppo schierati politicamente e hanno distrutto più fiducia di quanta ne abbiano creata, specialmente negli Stati Uniti». Per questo «torneremo alle nostre radici per concentrarci sulla riduzione degli errori, semplificare le nostre policy e ripristinare la libertà di espressione sulle nostre piattaforme».
Gli inserzionisti e gli utenti sono fuggiti in massa dall’ex Twitter dopo la svolta operata da Musk: la timeline della piattaforma è sempre più piena di account di estrema destra che sfidano il pubblico e postano una quantità costante di disinformazione. Eppure Meta ha chiarito che è esattamente questo il futuro che vuole per i suoi social.
Capire che si tratta di una captatio benevolentiae nei confronti di Donald Trump non richiede molta arguzia. Peraltro Zucky deve aver sudato freddo quando, in estate, Trump gli promise l’ergastolo («passerai il resto dei tuoi giorni in galera») se nella campagna per le elezioni avesse favorito Kamala Harris con le sue reti sociali. Il tentativo di Mark Zuckerberg di far passare questa decisione come una scelta di libertà potrebbe anche essere legittimo, se non fosse che si è già visto, con ciò che resta di Twitter, a cosa abbia portato tale modello. E se non fosse che Zuckerberg sa bene che non è così.
Con la risoluzione prima di Musk e ora sua di affidarsi alle community notes invece che a «sedicenti esperti con le loro idee e i loro pregiudizi» (© Zucky) per quei post potenzialmente fuorvianti e che necessitano perciò di un contesto che li spieghi, l’ipocrisia che ha retto fino a oggi viene finalmente rivelata in tutta la sua inutilità. I protagonisti alla base del nuovo ordine economico che raccoglie informazioni e dati sui cittadini per farne pratiche commerciali segrete e il movimento di potere che domina sulle nostre vite social-dipendenti sfidando la democrazia e mettendo a rischio le nostre libertà, fanno un passo avanti: è sempre più concentrato nelle mani di pochi il capitale che ci controlla senza che ce ne accorgiamo e che impone il suo dominio sulla società sfidando istituzioni e mercati.
Le Big Tech per decenni hanno considerato la politica irrilevante: si sentivano libere di ignorarla. Poi, quando Microsoft ebbe i primi guai con l’Antitrust, Bill Gates passò dal disprezzo alla diplomazia. Alla fine anche gli altri, da Facebook a Google, si adeguarono aprendo sedi a Washington e costruendo potenti (e ben finanziate) macchine lobbistiche. La politica cominciava a contare, alzava la voce, poteva processare davanti al Congresso, in diretta TV, Zuckerberg per lo scandalo di Cambridge Analytica. Tuttavia alla fine nulla cambiava nella sostanza: tutti a parlare di “regolamentazione indispensabile”, ma mai una legge. Con un Trump molto più forte e determinato di 8 anni fa, cambia tutto. Jeff Bezos, patron di Amazon ma anche del Washington Post, teme rappresaglie di Trump e vuole contratti per la sua nascente azienda spaziale, Blue Origin. Per non parlare di Google minacciata di “spezzatino” dalle authority di Biden a causa delle pratiche monopolistiche usate per imporre il suo motore di ricerca. Ma a spaventare i reucci della Silicon Valley è anche — forse soprattutto — il tribuno, aspirante copresidente, Elon Musk, in lite con diversi suoi concorrenti e non meno brutale e spregiudicato del presidente nell’uso del potere che ritiene di avere.
Gli “inginocchiati” della Silicon Valley — come Musk e i suoi amici imprenditori e venture capitalist dell’autoritarismo tecnologico, da Peter Thiel a Marc Andreessen — probabilmente pensano che digitale e AI sono destinati a trasformare la politica così come hanno cambiato il modo di produrre, il modo di comunicare, i rapporti sociali. Il tutto mentre infuriano le analisi sulla crisi della democrazia liberale, e ci si chiede se e come tecnologie sempre più potenti e teoricamente neutrali potrebbero rendere obsoleti i meccanismi parlamentari e il funzionamento delle istituzioni repubblicane. In realtà, visto che nessuno vuole un’umanità schiavizzata dalle macchine, è chiaro che ci sarà sempre l’uomo, coi suoi pregiudizi e la sua capacità di costruire ma anche di distruggere, a gestire il potere — un potere immenso — di indirizzare l’uso della tecnologia. Con in più il possibile snaturamento del modello economico americano basato sulla competitività e sull’economia di mercato che si verificherà se il successo delle imprese comincerà a essere determinato più dalla vicinanza al potere politico che dall’efficienza e dalla capacità di innovare. Specie se prevarrà l’ideologia economica di Thiel che difende i “monopoli creativi”: la competizione come «spreco inutile» (parole sue) quando si sviluppano tecnologie di punta, costose e impegnative.
(Non è solo “tecnocrazia”: qui si sta parlando di smontare addirittura il neoliberismo e lo stesso capitalismo americano. E intanto cresce il rischio di conflitti USA-Europa: oltre che su NATO e dazi, anche sulle regole per il web che la UE, a differenza dell’America, si è data. Dopo la fine della democrazia liberale, anche la fine dell’Occidente: ne abbiamo di cose da imputare all’avvento dei social media…)
Meta ha anche annunciato che trasferirà dalla California in Texas i team delle divisioni Fiducia e sicurezza, responsabili dell’applicazione delle regole relative a incitamento all’odio e disinformazione. In un post su Threads, Zuckerberg ha dichiarato che la decisione «aiuterà a eliminare il timore che i dipendenti di parte stiano censurando eccessivamente i contenuti». Non ha spiegato perché chi vive in Texas sarebbe meno soggetto ai pregiudizi rispetto ai californiani, ma non è questo il punto: per Meta il parziale trasferimento in Texas potrebbe avere vantaggi che vanno ben al di là di una semplice presa di posizione politica. Il Texas è uno dei due Stati americani (insieme alla Florida, ormai “patria” di Trump) dotati di una legge che di fatto vieta la moderazione di molti contenuti sui social media e ha un sistema normativo eccezionalmente favorevole alle aziende. Peraltro, negli USA ma anche altrove, una volta che un’azienda ha la sede centrale o sta facendo affari significativi in uno Stato, è possibile usare la giurisdizione di quello Stato per qualsiasi futura azione legale.
Come per l’approccio al fact-checking, anche in questo caso è stato Elon Musk ad aprire la strada a Meta. A settembre 2024, il proprietario di X ha ufficialmente trasferito la sede dell’azienda da San Francisco al Texas — che ospita anche gli uffici di Starlink e Boring Company, altre due delle sue società — citando una legge sull’identità di genere della California come motivo alla base del trasloco.
In altre parole, Musk, Zuckerberg e altri stanno guardando avanti e immaginano un ambiente che sarà dominato da un’amministrazione di orientamento conservatore e un po’ estremista, di conseguenza si stanno spostando in posti dove la norma è già questa. Il fondatore di Meta ha limitato la decisione sulla moderazione dei contenuti «per ora» ai soli Stati Uniti: sa che l’abolizione del fact-checking in Europa può avere conseguenze a livello giuridico. La spada di Damocle che pende sopra il capo di Zuck, sotto questo profilo, è il Digital Services Act (DSA) che impone alle grandi piattaforme digitali di implementare strumenti per contrastare la disinformazione online. La miccia è stata accesa già nel 2024, quando l’UE ha multato Meta per violazioni antitrust sotto il cappello del Digital Markets Act (DMA) e per questioni di protezione dati (GDPR). Il 2025 minaccia di essere ancora più pesante: con il DSA la Commissione Europea è pronta a imporre sanzioni durissime — fino all’8% del fatturato globale — per le piattaforme che non rispettino obblighi di moderazione, trasparenza e responsabilità sui contenuti. La California, poi, ha introdotto una serie di leggi piuttosto simili a quelle europee in termini di contrasto alle fake news e alla moderazione dei contenuti online.
In un intervento di tre ore al Joe Rogan Experience — il podcast più seguito d’America — l’ex ragazzo prodigio ha definito la linea dell’UE una forma di “censura” e ha chiesto apertamente all’amministrazione statunitense di difendere l’industria digitale a stelle e strisce dalle normative europee. In altre parole, Zuckerberg auspica una protezione politica di Washington nei confronti di un’Europa considerata troppo invadente e punitiva. In questo senso, la reazione di MZ è solo l’inizio di un potenziale conflitto diplomatico e commerciale. L’UE, stanca di dover fare i conti con i giganti californiani allergici a qualsiasi forma di controllo, sembra disposta a usare tutta la leva normativa e sanzionatoria di cui dispone; d’altra parte, gli Stati Uniti, dove le Big Tech svolgono un ruolo cruciale nell’innovazione e nell’economia, non resteranno a guardare mentre le aziende nazionali si ritrovano a pagare multe miliardarie. L’orizzonte di questa battaglia si allarga inoltre all’AI Act, il regolamento europeo dedicato all’Intelligenza Artificiale, e ad altre misure che Bruxelles sta studiando per governare la cosiddetta “next big thing” tecnologica. È facile prevedere che ogni regolamento europeo incontrerà, d’ora in poi, una resistenza ancora più ostinata da parte di Meta e, con ogni probabilità, del governo statunitense.
Ed ecco un altro modo di spiegare le mosse di Meta: detto in maniera non propriamente elegante, tali mosse servono a Zuckerberg per pararsi il culo dietro il duo Trump-Musk.

L’altra conseguenza riguarda l’informazione: quella tradizionale — prima i giornali, poi anche radio e TV — che per 200 anni ha plasmato il dibattito politico e l’evoluzione delle democrazie, è stata da tempo messa ai margini dallo sviluppo senza regole dei social media. Con la politica incapace di intervenire, l’unico limite è venuto dalle norme interne che queste organizzazioni, obtorto collo e bontà loro, si sono date per ridurre gli eccessi. Regole spesso discutibili, ma comunque basate sul riconoscimento della necessità di filtrare i contenuti immessi in Rete per eliminare almeno le calunnie, l’odio, le falsità più evidenti.
Ma quell’attenzione per il fact-checking che aveva segnato la prima elezione di Trump, si è in gran parte dissolta in questa nuova stagione politica e la decisione di Zuckerberg la seppellisce definitivamente negli Stati Uniti. Così, tutti in pellegrinaggio a Mar-a-Lago: re magi che portano doni per l’inaugurazione della presidenza Trump. Riassunti benissimo dalla vignetta di Ann Telnaes, in passato vincitrice del premio Pulitzer, che si è dimessa dal Washington Post perché il giornale non gliel’ha pubblicata: oltre a Bezos, nella vignetta compaiono il capo di OpenAI (l’azienda di ChatGPT), Sam Altman; quello di Meta, Mark Zuckerberg; ma anche Topolino (simbolo della Disney) e il proprietario del Los Angeles Times, Patrick Soon-Shiong.
«Meta è sempre stata una casa per la disinformazione russa, cinese e iraniana», sostiene Gordon Crovitz, co-amministratore delegato di NewsGuard, meritoria organizzazione che fornisce uno strumento per valutare l’attendibilità delle informazioni online. «Ora, a quanto pare, ha deciso di spalancare completamente le porte». «Da quello che ho visto finora, sembra che sarà un disastro totale», afferma Alex Mahavedan, direttore del progetto MediaWise di alfabetizzazione digitale del Poynter Institute (quello alla base dell’IFCN). Le ricerche di Mahavedan e altri hanno dimostrato che le soluzioni in crowdsourcing non riescono a individuare ampie sacche di disinformazione. «La motivazione dietro tutti questi cambiamenti nelle politiche di Meta e nell’acquisizione di Twitter da parte di Musk è l’accusa secondo cui le aziende di social media sarebbero prevenute nei confronti dei conservatori», ha dichiarato David Rand, scienziato comportamentale del Massachusetts Institute of Technology. «Ma non ci sono prove concrete che sia così». Sebbene X riceva un’attenzione esagerata — in parte a causa di Musk —, la piattaforma ha una base utenti molto più piccola rispetto ai 3 miliardi mensili di Facebook, un aspetto che comporterà delle difficoltà quando Meta implementerà le sue community notes. «C’è un motivo per cui c’è una sola Wikipedia al mondo: è molto difficile far decollare una cosa in crowdsourcing su larga scala», afferma Alexios Matzarlis, direttore della Security, trust and safety initiative della Cornell University e fondatore del citato International Fact-Checking Network che ha contribuito a creare la partnership tra Facebook e i fact-checker nel 2016.
Sezione 230: uno scudo per le piattaforme
Ci sarebbe dunque da ragionare moltissimo — e ai livelli più alti — sulle implicazioni di ciò a cui stiamo assistendo, in uno scenario in cui potere politico e potere economico si allineano, diventando pericolosamente determinanti nella gestione del modo in cui si costruisce l’opinione, e con essa il consenso. E ci sarebbe da riflettere sull’ipocrisia di chi tenta di spacciare per libertà quella che rischia di non essere altro che una vera e propria disinformazione algoritmica travestita da anarchia.
Perché il problema non è tanto rappresentato dal fatto che il fact-checking funzioni meglio o peggio dei modelli basati sulle note della comunità, ma dal fatto che si sta cercando di far passare come un processo di validazione collettiva e democratica un sistema che di democratico non ha nulla.
Ne ho già parlato abbondantemente su questo blog (basta cercare) e ci ho perfino scritto un saggio uscito a gennaio 2024 (questo), ma non mi stanco di ripetere tali concetti perché insieme all’azione dell’internazionale nera quello in atto è il processo sociale e culturale più pericoloso dopo le dittature del XX Secolo.
Tutto dipende da un insieme di fattori strutturali che sono alla base del modello di funzionamento delle piattaforme di social networking. Funzionamento che — legittimato da quella che è la loro natura giuridica negli Stati Uniti — crea una vera e propria tempesta perfetta.
Andiamo con ordine. La questione, qui, non è solo di chi verifica i contenuti, ma anche di come questi vengono distribuiti e, quindi, di come raggiungono quella comunità che dovrebbe validarli. Il meccanismo è una sorta di… combinato disposto tra il Communication Decency Act, ossia la legge che regola i contenuti online negli Stati Uniti, e il fenomeno delle Echo Chambers.
Per comprendere le dinamiche sottese a molte delle decisioni connesse alla responsabilità dei contenuti sui social network si deve far riferimento, negli Stati Uniti, al Communication Decency Act. In particolare alla sua Sezione 230, che rappresenta il fondamento giuridico che ha permesso alle piattaforme digitali di crescere senza assumersi la responsabilità editoriale sui contenuti pubblicati dagli utenti. Questa legge, equiparando i social media agli operatori di telecomunicazione (per i quali questo approccio è stato fondamentale), afferma che le piattaforme non possono essere considerate responsabili dei contenuti generati dai loro utenti. Proprio come se fossero telco, appunto. Questo scudo legale ha consentito a entità come Facebook di crescere e diventare colossali basandosi sul principio di terzietà rispetto ai contenuti veicolati, senza doversi quindi preoccupare delle implicazioni legali derivanti dalla disinformazione o dai contenuti dannosi che ospitano.
Tuttavia, questa mancanza di responsabilità ha favorito un ecosistema in cui le piattaforme hanno un forte incentivo economico a massimizzare il tempo di permanenza degli utenti. E qui entra in gioco il ruolo degli algoritmi.

Algoritmi ed Echo Chambers: la tempesta perfetta
Gli algoritmi delle piattaforme social non sono progettati per ottimizzare la veicolazione dell’informazione, ma per massimizzare l’interazione tra gli utenti. Questo avviene attraverso la creazione delle cosiddette Echo Chambers, ovvero “camere dell’eco”, in cui agli utenti vengono mostrati contenuti che rafforzano le loro opinioni preesistenti. Si tratta di un meccanismo perverso: più l’utente interagisce con contenuti in linea con le sue convinzioni, più l’algoritmo gliene propone di simili. Il risultato? Un circolo vizioso che amplifica, per l’utente, la plausibilità di certe informazioni, indipendentemente dalla loro veridicità. In altri termini, gli utenti si convincono che il proprio punto di vista sia il punto di vista della maggioranza, se non della totalità degli altri utenti. Ma questo solo perché sono gli algoritmi a definire con quali informazioni (e con quali altri utenti) le persone debbano entrare in contatto.
In passato, un presidente degli Stati Uniti si era scagliato con forza contro questa norma, sostenendo che le piattaforme — a differenza delle telco — attuassero discriminazioni e sviluppassero una propria politica editoriale attraverso i loro regolamenti e le loro scelte (umane o algoritmiche). Quel presidente, udite udite, era Donald Trump. E uno degli obiettivi principali dei suoi strali, orientati ad abbattere la Section 230, era proprio Facebook. A partire da questa considerazione la recentissima corsa di Zuckerberg alla corte di Trump — sia nei tempi che nei modi — appare più chiara, ma non per questo meno corretta e meno rischiosa per l’ecosistema informativo.
Se già oggi le Echo Chambers rappresentano un guaio, l’assenza di un controllo professionale peggiorerà ulteriormente la situazione. Le note della comunità, infatti, non avverranno su una piattaforma neutrale rispetto al modo in cui i contenuti vengono veicolati, ma in un contesto in cui a giudicare i fatti saranno tendenzialmente persone che su quei fatti son state portate dall’algoritmo: da un algoritmo che le vuole “on platform” perché da ciò dipende il modello di business (e i fantastiliardi di fatturato) del sistema.
Il tutto partendo da quello che è un enorme controsenso: i social media sono cresciuti grazie al Communication Decency Act, che li ha deresponsabilizzati in funzione della loro terzietà rispetto ai contenuti veicolati. Ma sono cresciuti per mezzo di algoritmi che hanno fatto venir meno quella terzietà. Terzietà che però fa comodo ai gestori, proprio perché li deresponsabilizza. Insomma: Zuckerberg non vuole responsabilità nella gestione dei contenuti, ma vuole i vantaggi che derivano dalla possibilità di gestirli. E vuole far capire a Trump che non è più colui il quale lo silenziò, ma può essere (assieme a Musk) il suo megafono.
In sostanza, la scelta di “restituire” in mano agli utenti la responsabilità delle scelte non è una scelta di libertà, ma di apparente anarchia, ove l’unico intento è gestire, senza assumersene le responsabilità, il modo in cui le persone si informano ed entrano in contatto tra loro.
L’insano matrimonio tra il Communication Decency Act, che deresponsabilizza le piattaforme, e le Echo Chambers algoritmiche, che alterano la percezione della realtà, genera una tempesta perfetta per la disinformazione. In questo contesto, la verità diventa un’opzione e ciò che conta davvero è la plausibilità, ovvero la capacità di un’informazione di apparire coerente agli occhi di chi la riceve. Una vera e propria macchina generatrice di post-verità.
Detto in un altro modo… I social si basano sulle camere dell’eco e sugli algoritmi che amplificano ciò che vogliamo sentirci dire. Questo crea un’asimmetria irrimediabile: nessuno sano di mente andrà alla ricerca delle informazioni vere per accreditarle. Ossia, nessuno cerca le notizie sui viaggi delle missioni Apollo sulla Luna per dire che “sono vere”: al contrario, i complottisti sono molto attivi nel cercare di smentire le notizie dello sbarco sulla Luna e altrettanto attivi nel confermare qualunque indizio farlocco che lo contraddica. Un’analisi condotta nel 2024 ha mostrato che le note della comunità su X — in origine sviluppate per integrare, non sostituire, il fact-checking — venivano aggiunte ai contenuti problematici troppo tardi, in genere quando i contenuti erano ormai ampiamente diffusi; altre analisi indicano che oltre il 70% dei contenuti di disinformazione su X non riceve note dalla comunità. Esiste inoltre il rischio che anche le note della comunità siano viziate da pregiudizi collettivi, e che singoli gruppi di utenti in malafede possano mettersi d’accordo per distorcere il sistema in modo da orientare la valutazione dei contenuti, per esempio screditandone la fonte.
La libertà d’espressione si intreccia con il sistema informativo e funziona come un apparato digestivo: il cervello è lo “stomaco” delle informazioni che raccogliamo. Il funzionamento dipende dalla dieta: uno snack industriale, se sgranocchiato ogni tanto, non fa male; ma una dieta costante di junk food, al posto di pasti sani, fa danni assai seri. Allo stesso modo, un consumo continuo di fake news e notizie senza contraddittorio compromette il nostro sistema mentale di selezione e archiviazione delle informazioni affidabili, con conseguenze deleterie sulle nostre società.
I social, parte integrante del sistema delle news, sembravano risolvere i dubbi sulla “libertà di espressione” dando voce a tutti: ma è un gioco truccato. Sono gli algoritmi e non le persone, a controllare la distribuzione delle informazioni, sono gli algoritmi a stabilire che io leggerò la tal cosa e tu no. Gli algoritmi distribuiscono l’acqua senza rispettare il principio dei vasi comunicanti.
Per inciso, quello che ha fatto Zuckerberg può essere interpretato come una drammatica ammissione di ciò che i più svegli fra noi sospettano da tempo: gli algoritmi sono capaci di deformare i contenuti, ma non sono capaci di sciogliere il caos che contribuiscono a produrre. Servono le comunità di persone che “sorveglino”.
La responsabilità delle scelte
La rinuncia al fact-checking da parte di Meta non può essere letta come una semplice scelta tecnica, ma come una vera e propria decisione politica. Significa abdicare a qualsiasi forma di controllo sulla veridicità dell’informazione, lasciando campo libero a una vera e propria “disinformazione governata”. La libertà di espressione è un valore fondamentale, tuttavia senza responsabilità rischia di trasformarsi in libertà di falsificazione. Ed è proprio questa la grande sfida che abbiamo di fronte: costruire un equilibrio tra la necessità di garantire a tutti la possibilità di esprimersi e quella di tutelare il diritto collettivo a un’informazione corretta.
La tecnologia digitale ha trasformato il nostro modo di informarci, di comunicare, di vivere. Le nostre esistenze sono sempre più plasmate dalla Rete. Serve una riflessione profonda a livello globale sul ruolo delle piattaforme online e sulla responsabilità che queste hanno, e sul tipo di società che stiamo costruendo — società nella quale le piattaforme non sono solo luoghi dove “perdere tempo” o scrollare all’infinito, ma sono spazi di affermazione personale, di dibattito politico, di costruzione della coscienza che si ha del mondo.
La strada imboccata da Meta è quella di una deresponsabilizzazione sempre più marcata, che vuole ipocritamente legittimare tramite gli utenti scelte che vengono invece indotte dall’algoritmo.
Tutto ciò avrà gravi ripercussioni sulla nostra capacità di discernere ciò che è vero da ciò che non lo è. Se vogliamo costruire un futuro digitale sostenibile, dobbiamo operare una scelta fondamentale: vogliamo un ecosistema in cui l’informazione sia governata da algoritmi che condizionano il nostro modo di percepire la realtà, o vogliamo un ambiente digitale che aiuti a costruire una società informata, consapevole e, soprattutto, capace di scegliere? Non possiamo assistere impotenti al tramonto dell’epoca della verità, del valore dei fatti reali.
Peraltro è proprio la perdita di fiducia nel giornalismo e nei media ad avere attirato attenzioni e interesse verso organizzazioni esterne descritte come arbitri neutrali, ha scritto Fergus McIntosh, responsabile del reparto di fact-checking per il New Yorker. È un reparto in cui lavorano quasi trenta persone e che esiste dal 1927, formato da schiere di supervisori incaricati di verificare riga per riga tutto ciò che viene pubblicato dalla rivista: consultano le fonti condivise con loro da autori e autrici, contattano le persone coinvolte nelle storie, conducono ricerche in autonomia e sentono gli esperti del settore. Questo è vero fact-checking: però è archeologia, ormai. Gli algoritmi ci assemblano in nuove classi, sono loro che decidono dove orientare la pubblica opinione. Il dogma secondo cui la Rete sarebbe il simbolo per eccellenza della libertà di espressione viene oggi superato da interrogativi inquietanti: qual è il livello di sorveglianza cui siamo sottoposti? E come possiamo difendere la nostra libertà se è sempre di più influenzata da algoritmi sconosciuti, gestiti da piattaforme che favoriscono gli abusi in un clima di pressoché totale impunità?
Facebook, Instagram e Threads (i dati dicono che il 40% di tutte le persone che nel mondo accedono a Internet, lo fanno per accedere a Facebook, e che il 60% di chi accede a Internet nel mondo, lo fa per accedere a un prodotto di Meta: non è mai esistita una comunità umana di simili dimensioni) si stanno dirigendo verso un mondo in cui chiunque può dire che i gay e i trans hanno una “malattia mentale” e che le donne “devono stare in cucina”, in cui i contenuti di qualità infima creati con l’AI prolifereranno in modo ancora più aggressivo, e dove le affermazioni offensive, razziste, xenofobe, complottiste si diffonderanno senza controllo. Un mondo in cui la verità stessa è malleabile: proprio come già succede su ciò che resta di Twitter, “X”. Il segno dell’incognita.
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