Una delle caratteristiche salienti delle divinità, specialmente nelle religioni monoteiste, è quella di essere invisibili. E l’invisibilità caratterizza anche la divinità di stampo industriale del Terzo Millennio: il “dio microchip”.
La modernità, potenza e sofisticazione tecnologica dei microchip va di pari passo con la loro miniaturizzazione: i più avanzati sono anche i più piccoli — l’ultima frontiera di questa miniaturizzazione ha raggiunto i due nanometri (miliardesimi di metro, simbolo “nm”: solo con potenti microscopi l’occhio umano può coglierne la presenza).
Il microchip è oggi il manufatto tecnologico più determinante sul pianeta. Quello da cui irradiano le traiettorie più rilevanti per i temi decisivi di questo e dei prossimi decenni. Dall’evoluzione dei chip dipende, per esempio, tanto lo sviluppo dall’intelligenza artificiale quanto la fattibilità della transizione energetica. E tuttavia per la produzione di chip sono indispensabili processi estrattivo-produttivi che consumano notevoli quantità di energia fossile, risorse minerali e componenti chimici altamente nocivi. Conoscere il funzionamento dell’industria dei chip e delle sue catene del valore, tra le più complesse e interdipendenti del mondo, è oggi indispensabile non solo per comprendere cosa sia — e come stia cambiando — il sistema della globalizzazione, ma anche per scandagliare rapporti di forza storici tra i principali Paesi del mondo. In particolare quelli tra Stati Uniti e Cina, le due superpotenze che, proprio intorno alla futura evoluzione dei chip, stanno giocando una partita a scacchi decisiva per l’esito della loro rivalità.
L’Occidente qui ha un primato. L’America conserva una superiorità nella progettazione di questi microchip di ultimissima generazione. E l’Olanda, con la sua azienda ASML (cfr. a fine articolo), ha un monopolio in quei macchinari che consentono di produrre i semiconduttori da due nanometri, quelli indispensabili per progredire nell’IA. L’embargo deciso da Biden sulle esportazioni alla Repubblica Popolare (e con il Trump-bis sarà anche peggio) contribuisce a mantenere questo ritardo cinese. Non si sa per quanto, però. Xi Jinping moltiplica gli sforzi per recuperare terreno e conquistare l’autonomia strategica.
C’era una volta il “salario cinese”: così basso da aver sconvolto l’economia mondiale, risucchiando gran parte dell’attività industriale dall’Occidente verso “la fabbrica del pianeta”, la Repubblica Popolare Cinese.
Il nuovo fenomeno che oggi crea allarme in Occidente sono gli “stipendi cinesi” molto più alti dei nostri, così generosi che attirano talenti e know how. È una nuova strategia nella competizione industriale della Repubblica Popolare, una guerra per il reclutamento dei cervelli che non risparmia sui mezzi. Ovvero, una scorciatoia per catturare i nostri segreti industriali, assumendo manodopera che quei segreti conosce.
Huawei, colosso cinese delle telecom, ha lanciato una campagna acquisti per assumere ingegneri tedeschi che collaborano con la Zeiss, nome storico nell’industria ottica ma che oggi è soprattutto un produttore di componenti indispensabili per fabbricare semiconduttori (cfr. più avanti). Gli stipendi che Huawei offre arrivano al triplo di quelli correnti. E il punto di partenza sono stipendi tedeschi, quindi non proprio fra i più bassi del mondo. L’offensiva Huawei preoccupa a tal punto le autorità locali che i servizi di intelligence di Berlino hanno aperto un’indagine sul fenomeno: il sospetto è che si tratti semplicemente di una nuova forma di spionaggio: assumere personale tedesco di alto livello, strapagandolo, per catturare segreti industriali.
In Corea del Sud un ex dirigente Samsung è stato incriminato per aver passato ai cinesi alcuni piani industriali al fine di costruire in Cina una fabbrica che replichi quelle del gigante sudcoreano dei semiconduttori. L’azienda californiana di microchip FemtoMetrix ha rivelato al Congresso USA che tre suoi dipendenti sono partiti per la Cina sottraendo migliaia di dati riservati per creare là un clone in competizione con l’ex datore di lavoro.
Uno dei contatti più usati per avvicinare i talenti stranieri è il social LinkedIn, specializzato nel networking professionale: le aziende cinesi contattano i candidati all’assunzione attraverso filiali situate a Singapore e Hong Kong. L’assunzione di cervelli è considerata come un metodo più rapido, meno rischioso e meno costoso, rispetto allo spionaggio industriale di tipo tradizionale.
Nel frattempo Pechino fa un’altra cosa: rafforza la sua potenza manifatturiera nei microchip meno avanzati, quelli “maturi”. Che sono prodotti più banali, in un certo senso, però sono comunque indispensabili per tanti usi: vanno nelle nostre automobili, nei nostri televisori, nei nostri elettrodomestici. La Cina si assicura oltre la metà di tutta la nuova capacità produttiva che verrà aggiunta in questa fascia “matura” dei microchip, dei quali continueremo ad avere bisogno perché non si vive solo di missili e di intelligenza artificiale. Nel 2027 il 39% di tutta la produzione mondiale di questi microchip “banali” sarà cinese.
Il cellulare è solo un esempio fra i tanti oggetti della nostra vita quotidiana che sarebbero inutili, inerti e inanimati, se non contenessero dei microchip. Che contengono memoria, sono la prima cellula dell’intelligenza artificiale, attivano connettività. Oggi senza semiconduttori non funzionerebbero né l’automobile né l’ascensore né la lavatrice; tantomeno ovviamente il tablet, il computer, lo schermo TV, la consolle dei videogame. Questo per gli oggetti della vita quotidiana. Poi ci sono gli usi “strategici”: dai missili ai droni, dai radar ai satelliti, dalla cabina di pilotaggio di un cacciabombardiere alla sala comandi di una portaerei, i microchip sono ovunque. Aggiungiamo alcune funzioni salva-vita: la sala operatoria di un ospedale moderno, la torre di controllo di un aeroporto che vigila sulla sicurezza dei voli, la centralina del 113 che risponde alle nostre chiamate d’emergenza, la produzione e distribuzione dell’energia elettrica, la rete idrica che fornisce acqua potabile nelle nostre case, tutto funziona perché ci sono delle cabine di regìa piene di semiconduttori.
Un tempo i microchip li produceva soprattutto l’America. La Silicon Valley californiana, che comincia a sud di San Francisco, si chiama così non perché abbia delle miniere di silicio ma perché lo consuma. Il silicio è esso stesso un materiale “semi-conduttore”, termine che in fisica significa “sostanza solida con caratteristiche di conduzione elettrica intermedie fra quelle dei conduttori e quelle degli isolanti”. La Silicon Valley ancora all’inizio del terzo millennio ospitava la più grande azienda mondiale di microchip, l’americana Intel.
Nel 1990 gli Stati Uniti producevano il 37% dei chip; oggi quella quota si è ridotta al 12%, soprattutto per l’ascesa di Taiwan che, con la TSMC e le sue aziende iper specializzate, ormai produce più dei nove decimi dei chip più avanzati, quelli grandi meno di 10 nanometri. Sono quelli cruciali per addestrare le nuove intelligenze artificiali come Chat GPT, Claude, Gemini, Perplexity.
In seguito gli americani, in questo come in altri settori, decisero che per loro era preferibile progettare, non fabbricare. Nulla da eccepire: si guadagna di più, specializzandosi nei mestieri più intelligenti. Sicché per decenni l’America ha continuato a mantenere una superiorità nel disegnare l’architettura — microscopica e complicatissima — di semiconduttori sempre più sofisticati, mentre per farli fabbricare si affidava ad altre nazioni: Giappone, Corea del Sud, Cina, Taiwan.
La Cina per molto tempo ha fabbricato semiconduttori di qualità medio-bassa, con applicazioni di massa, “lasciando” che i più potenti e sofisticati venissero fabbricati altrove in Asia (soprattutto a Taiwan). Agli americani questa divisione dei compiti andava bene, grosso modo fino alla pandemia.
Fra i tanti effetti economici del Covid e dei lockdown, i consumatori americani ed europei hanno subìto delle penurie. Chi voleva comprarsi un’automobile nuova si è visto annunciare una lista d’attesa lunghissima. Lo stesso è accaduto per chi aveva bisogno di cambiare il computer con un modello nuovo. Le consegne ai negozi, o su Amazon, subivano rallentamenti e ritardi enormi. Tra le cause: la scarsità di semiconduttori.
I lockdown e le chiusure delle frontiere in Estremo Oriente diminuivano la produzione delle fabbriche; oppure bloccavano i trasporti dalle fabbriche alle navi, ai treni, agli aerei. Per i trent’anni precedenti la distanza tra noi e i nostri fornitori ci era sembrata irrilevante. Di colpo ci siamo resi conto che poteva essere un problema serio. Si sono aggiunte le tensioni tra America e Cina. La guerra in Ucraina ha provocato conseguenze per gli approvvigionamenti di gas, petrolio, grano; ci ha costretti a immaginare cos’accadrebbe se un conflitto del genere dovesse esplodere in Estremo Oriente, a quante altre cose essenziali verrebbero a mancarci, a cominciare dai microchip. Taiwan ha compiuto un miracolo, conquistandosi una quota di mercato dominante: a seconda delle categorie di semiconduttori, dal 60% fino al 90% vengono prodotti in quell’isola.
Alla fine di marzo 2024 la Cina ha preso una decisione drastica e ha introdotto nuove linee guida che stabiliscono che i microprocessori di Intel e AMD non verranno più usati nei computer e server governativi.
Intel e AMD sono due aziende americane, e questa mossa arriva come reazione di Pechino ad anni di tentativi degli Stati Uniti di impedire che i cinesi riescano ad avere accesso alla tecnologia più strategica della nostra epoca.
È un duro colpo per le due aziende: per Intel la Cina è il mercato più grande, per dire, da lì dipende il 27% dei suoi 54 miliardi di dollari di fatturato; per AMD la Cina vale il 15% dei 23 miliardi di ricavi.
Il prossimo bersaglio della lista di Pechino è nientemeno che Microsoft: nei prossimi anni il suo sistema operativo, Windows, non verrà più usato negli uffici pubblici cinesi, perché nella geopolitica dei semiconduttori chip e software si muovono spesso in parallelo. Se non hai certi chip, non puoi usare certi software.
La guerra del silicio si combatte sul piano della tecnologia, gli eserciti in campo sono composti da ingegneri, chimici, tecnici iperspecializzati e investitori disposti a finanziare investimenti per decine di miliardi di dollari/euro, grazie anche a sostegni pubblici altrettanto massicci.
È una guerra incruenta, per ora, ma decisiva per stabilire se gli Stati Uniti riusciranno a mantenere la propria vacillante egemonia o se invece la Cina riuscirà a imporsi.
Se questa guerra molto fredda diventasse calda e combattuta, è facile prevedere quale sarebbe il campo di battaglia: Taiwan, che conta sulla protezione degli Stati Uniti proprio perché le aziende tecnologiche della Silicon Valley hanno bisogno dei chip prodotti sull’isola da TSMC.
La geografia è determinante per tutti gli attori in gioco, nei secoli scorsi come oggi: chi controlla Taiwan può dettare legge su alcune rotte navali Est-Ovest di vitale importanza per i traffici asiatici. Il fatto che l’ultima invasione esterna, quella del 1949, abbia avuto come protagonisti i nazionalisti cinesi sconfitti da Mao, ha ingigantito il rilievo geopolitico del suo status. Da allora Pechino ha sempre sostenuto che Taiwan è una provincia della Repubblica Popolare, “occupata da forze secessioniste illegali”. Diffida i governi di Taiwan, pur democraticamente eletti, a fare qualsiasi atto che possa preludere a una dichiarazione d’indipendenza. Pechino esercita ogni sorta di pressioni su tutti gli altri Stati del pianeta per impedire che riconoscano Taiwan come una nazione autonoma (nemmeno l’Italia riconosce formalmente Taiwan come Stato sovrano).
L’importanza di Taiwan (nome ufficiale: “Repubblica di Cina”) è triplice. Come simbolo: ospita l’unica popolazione cinese che si è organizzata come una democrazia liberale, rispettosa di tutti i diritti umani, promotrice di ogni libertà, e questo ne fa una spina nel fianco per il regime di Pechino. Come piattaforma strategica e militare, per la sua posizione all’incrocio di rotte navali importanti per tutto l’Estremo Oriente. Infine e più di recente come potenza tecnologica, per la supremazia mondiale che Taiwan si è conquistata nei semiconduttori.
I semiconduttori sono come l’acqua della nuova economia: non si può fare niente senza.
Poiché l’indipendenza non è pensabile, bisogna ridurre i rischi. E questo gli americani provano a farlo in tre modi: con investimenti in patria, con una cooperazione più stretta con partner affidabili come l’Unione Europea, e cercando di impedire che la Cina abbia accesso ai chip di ultima generazione, quelli sotto i 7 nanometri.
Nel 2022, quindi, l’amministrazione Biden ha approvato il “Chips and Science Act”, un piano da quasi 53 miliardi di dollari di incentivi per favorire gli investimenti in chip in America, così da non dipendere troppo da Taiwan. Ma si è andati oltre.
Una politica adottata dagli Stati Uniti è l’embargo su certe esportazioni di microchip, i più sofisticati, quelli in grado di migliorare l’efficacia delle armi o di animare l’intelligenza artificiale. Di questo embargo fa parte anche il divieto di esportare in Cina i macchinari che producono o “stampano” i microprocessori più evoluti, come quelli dell’azienda olandese ASML, unica al mondo oggi in possesso di questa tecnologia (cfr. più avanti). Gli Stati Uniti hanno invitato il governo olandese a bloccare la vendita di macchine ASML; gli olandesi inizialmente hanno risposto ricordando agli Stati Uniti che la politica commerciale europea è decisa a livello UE. A marzo 2023, però, hanno ceduto alle pressioni statunitensi.
Un fondamentale accordo è stato poi raggiunto nel 2024 tra gli Stati Uniti e l’azienda taiwanese TSMC che, in sintesi, farà sì che i chip più avanzati vengano prodotti anche negli Stati Uniti e non più soltanto a Taiwan. Una svolta che non è eccessivo definire storica, data la portata delle sue potenziali conseguenze che non sono solo tecnologiche ed economiche ma anche geopolitiche.
Il “dio microchip” dagli occhi a mandorla si appresta a indossare un mantello a stelle e strisce: attraverso un aumento del 25% rispetto all’investimento iniziale in America fondato su due insediamenti in Arizona, TSMC si è detta pronta a costruire una terza fabbrica per spostare negli USA anche la manifattura dei semiconduttori più sofisticati. È facile intuire il significato e la portata di queste azioni: gli Stati Uniti, già leader mondiali nella progettazione di chip — con aziende come NVIDIA, AMD e Qualcomm —, riguadagneranno percentuali notevoli anche nell’ambito della pura manifattura. Ciò renderebbe gli USA l’unico Paese potenzialmente autosufficiente (o quasi) a livello di produzione e disponibilità di microchip al mondo.
E non finisce qui, perché come nelle più fantasiose storie di spionaggio entra in ballo pure il bottone dell’autodistruzione. Non c’è dubbio che sarebbe molto difficile resistere a un’invasione vera, se e quando Pechino deciderà di lanciarla: in compenso si può avvelenare il frutto della conquista all’aggressore. In caso di invasione cinese di Taiwan, «siamo in grado di bloccare i nostri macchinari sull’isola anche senza essere sul luogo»: è quanto hanno fatto sapere TSMC e ASML, alludendo alla possibilità che la Repubblica Popolare dopo l’attacco militare si ritrovi in mano un “guscio vuoto”, cioè un territorio privato di fatto dei gioielli tecnologici tanto concupiti. E non è tanto per TSMC quanto per gli olandesi di ASML: una loro macchina EUV (cfr. box alla fine) ha la dimensione di un autobus, richiede una manutenzione costante e frequenti aggiornamenti, ma soprattutto a quanto pare è dotata di un “interruttore della morte” azionabile a distanza. ASML ha garantito di aver già fatto delle simulazioni, su richiesta del governo dell’Aia, e di poter neutralizzare da lontano i suoi macchinari attivi sull’isola, in dotazione alla TSMC.
E NOI COMUNI MORTALI GUARDIAMO SENZA CAPIRE: LA FORBICE DEL KNOW-HOW DIVENTA ABISSO
Noi “non esperti” usiamo termini come semiconduttori, microchip, o anche memorie e circuiti integrati, che in realtà sono abbastanza imprecisi o generici. Esistono intere famiglie di semiconduttori diversi, a seconda delle loro caratteristiche tecniche o dei loro usi. Dire “microchip” è un po’ come dire “macchinari”, senza specificare se si tratta per esempio di macchine movimento terra, oppure di robot che in fabbrica assemblano vestiti o automobili, o addirittura costruiscono altre macchine. E ci sono “macchinari” che hanno funzioni di vigilanza e di controllo, anche su noi stessi.
Fino a qualche decennio fa, le tecnologie di massa di uso quotidiano come l’automobile, il frigo e la lavatrice, erano un po’ meno incomprensibili per l’umanità inesperta. In altre parole, un non-tecnico come me o come te aveva un’idea molto vaga di cosa sia un motore a combustione, però passando una settimana in un’officina meccanica insieme a un garagista addetto alle riparazioni, poteva farsi un’idea approssimativa (e i più smart fra noi potevano poi metterci anche mano). Idem se andava a visitare una fabbrica di lavastoviglie e un tecnico paziente gliene spiegava il funzionamento.
Oggi una laurea in fisica non basta per lavorare alla produzione di semiconduttori: per avvicinarsi a questo mondo il neolaureato deve ricevere un addestramento supplementare in azienda. Mesi di formazione sono indispensabili pur partendo da una formazione scientifica di alto livello.
Il comune mortale come me o come te maneggia ogni giorno un telefonino il cui contenuto tecnologico è diventato incredibilmente difficile da capire, al di là delle descrizioni superficiali.
Per usare termini di sapore populista, il divario tra noi massa e l’élite tecno-scientifica continua ad allargarsi.
Anche la “fabbrica” non ha più nulla di ciò che generalmente associamo a questo nome. I suoi “operai” — ossia, nella stragrande maggioranza, ingegneri e laureati in fisica — per le tute protettive che indossano sembrano degli astronauti, oppure dei medici in una zona colpita da una pandemia contagiosa e mortale. Il visitatore può osservarli all’opera solo dietro vetri protettivi.
La miniaturizzazione estrema del loro prodotto finale fa sì che le macchine ad alta precisione (robot, laser) debbano mirare e centrare oggetti visibili solo al microscopio. Guai se una particella di pulviscolo dovesse intrufolarsi nel processo di fabbricazione. Pertanto, l’aria della “fabbrica” è più pulita di quella di una camera operatoria: impianti speciali di condizionamento succhiano ed espellono ogni polvere, purificano continuamente l’ambiente. Se un tecnico deve starnutire, è obbligato a uscire dall’area protetta e, dopo lo starnuto, sottoporsi a una nuova decontaminazione per poter rientrare al lavoro.
Sempre per via di questa miniaturizzazione portata all’estremo, la “fabbrica” non deve subire alcun tipo di vibrazione, neppure di quelle impercettibili a noi umani, perché se ci fosse un qualsiasi microdisturbo robot e laser sbaglierebbero la mira. All’interno sono vietati anche i telefonini. Di conseguenza l’edificio che contiene la “fabbrica” è costruito con tecnologie speciali, su una sorta di moderna palafitta, con un bilanciamento che deve continuamente compensare e annullare le vibrazioni esterne. Per esempio, per la ST Microelectronics di Agrate Brianza (una delle pochissime realtà europee in questo campo) la minaccia più costante è l’autostrada, che pure passa a chilometri di distanza. Immaginarsi quindi avere un impianto di questo tipo in zona sismica: diventa ancor più apprezzabile l’exploit dei taiwanesi, che hanno costruito una leadership mondiale nei semiconduttori su un’isola dove i terremoti sono all’ordine del giorno (l’ultimo sisma a Taiwan, quello del 23 aprile 2024 del 6° grado, ha fatto danni minimi e non ha intaccato la capacità produttiva di TSMC).
L’IMPORTANZA DI TAIWAN E DELLA TMSC
Torniamo a Taiwan: come detto, la storia dell’isola e delle vicende che l’hanno portata a diventare epicentro delle catene del valore dei chip ha a che vedere con la presenza di TSMC, azienda fondamentale nei processi di manifattura dei semiconduttori più avanzati, poiché è l’unica al mondo in grado, al momento, di garantire elevata efficienza anche per i processi produttivi più innovativi.
Il piano di Morris Chang (lo storico fondatore di TSMC) era questo: una fabbrica di semiconduttori che non si occupasse d’altro che della manifattura di chip progettati da terze parti. Quell’idea ha in seguito fatto molta strada ma, all’inizio degli anni Ottanta, era ancora un’eresia: Chang aveva provato a convincere della sua bontà tutte le più grandi aziende di semiconduttori degli Stati Uniti, a cominciare da Texas Instruments, ma aveva incontrato solo porte chiuse e disapprovazione — e in qualche caso derisione —. Nessuno credeva che un simile modello d’impresa potesse funzionare. La leggenda vuole che Gordon Moore (quello della “legge di Moore”) disse a Chang: «Morris, hai avuto un sacco di buone idee durante la tua carriera ma questa non è una di quelle». Chang tuttavia non demorse né abbandonò i suoi propositi, convinto che fosse solo questione di aspettare tempi più maturi e l’occasione giusta. Che arrivò, nel 1985, sotto forma di un incontro col leggendario ministro dell’Economia Kwoh-Ting Li, il “padre del miracolo taiwanese”.
Kwoh-Ting Li offrì a Morris Chang pieni poteri, e un assegno virtualmente in bianco, per lanciare una nuova azienda di semiconduttori che avrebbe fornito supporto produttivo alla galassia di piccole aziende di elettronica taiwanese che non avevano capitali e mezzi per fabbricare in casa tutti i propri componenti. Era esattamente ciò che aveva da tempo in mente Chang, solo su una scala molto più grande, non limitata a Taiwan ma estesa a tutto il mondo. Per far partire il progetto, lo Stato di Taiwan mise il 48% del capitale iniziale e il resto lo raccolse, chiedendolo in modi molto diretti e convincenti, dalle tasche delle più facoltose famiglie dell’isola. Con i suoi primi uffici limitrofi a quelli di UMC a Hsinchu, nel 1987 era pronta a decollare l’astronave di TSMC (Taiwan Semiconductor Manufacturing Company), la fabbrica di semiconduttori destinata a diventare la più importante “foundry” di chip al mondo. Per il lancio mancava solo una cosa: i clienti.
Ora che aveva una propria azienda da mettere sul piatto della bilancia, Chang tornò negli USA e fece il giro delle sette chiese dell’industria tecnologica americana, nella speranza di trovare qualcuno che volesse appaltargli la produzione dei propri chip. Ma esattamente come negli anni precedenti, quando aveva cercato qualcuno che credesse nel potenziale teorico della sua idea, non trovò nessuno disposto a prestargli ascolto, neppure ora che aveva un’azienda in mano. TSMC rischiava insomma di morire ancora prima di nascere o, quantomeno, di dover rivedere pesantemente i concetti da cui era partita.
Come si sa la Storia ha un modo tutto suo di regolare i propri conti e così, in uno dei momenti chiave della realtà recente di Taiwan, trecento anni dopo la VOC, le vicende dell’isola tornarono a incrociarsi con quelle di una multinazionale olandese. Fu infatti Philips, il noto marchio dell’elettronica con sede a Eindhoven, la prima — e inizialmente anche l’unica — grande azienda a decidere di scommettere su TSMC. Con un accordo di joint venture molto ambizioso siglato nel 1987, Philips non solo investì 58 milioni di dollari in TSMC ma condivise con l’azienda di Chang strumenti, specifiche tecniche di produzione e proprietà intellettuali dei suoi chip. Per TSMC fu il momento della svolta: riuscendo a dimostrarsi qualitativa e affidabile dal punto di vista del rispetto delle proprietà intellettuali dei clienti, convinse altre aziende ad affidarsi al suo modello di fonderia “pure play”. La crescita di TSMC fu da allora costante per tutti gli anni Novanta ma il vero cambio di passo arrivò sul finire del decennio successivo, con l’esplosione del mercato degli smartphone. In quel frangente Morris Chang ritornò addirittura dalla pensione per arringare i dipendenti di TSMC — con tanto di citazioni dall’amato Shakespeare — alla conquista della balena più ambita del mare: Apple e la fornitura di chip per iPhone e iPad. Due prodotti che Intel, con un errore di valutazione grossolano del suo boss Paul Otellini, aveva rinunciato a servire e che comportavano volumi di produzione inauditi. Al punto che, a metà anni Dieci, TSMC ha investito 9 miliardi per la costruzione di una fab interamente dedicata a un singolo cliente, l’azienda di Cupertino per l’appunto.
Per capire quanto TSMC sia cruciale è d’uopo sciorinare numeri e percentuali. Per esempio, 92%: la quota della manifattura globale di chip ai nodi più avanzati detenuta da TSMC. Un terzo: la percentuale di semiconduttori, di qualunque tipo, complessivamente prodotti nel mondo fabbricati da TSMC. 60mila: i dipendenti di TSMC, 20mila dei quali impiegati nella ricerca di difetti dei chip, difetti di dimensioni tali per cui se un semiconduttore fosse il pianeta Terra, il difetto sarebbe una pallina da tennis. (È anche grazie a questo tipo di attenzioni, e al bagaglio di esperienza accumulato, che l’azienda taiwanese riesce a garantire uno yield elevatissimo anche per i chip più sofisticati e sperimentali: parliamo di una resa otto volte superiore a quella del concorrente più vicino. Che è anche la ragione per cui, per esempio, nel 2022 NVIDIA ha spostato l’intera produzione dei suoi chip da 3 nanometri da Samsung a TSMC.) 56mila: i brevetti internazionali attivi detenuti da TSMC. 536 miliardi: la capitalizzazione complessiva di mercato dell’azienda taiwanese a fine 2023 (ma nel 2024 si avvicina a 900!). 100 miliardi: il piano d’investimenti, spalmato su un periodo di tre anni, che TSMC ha avallato a fine 2021 per ampliare le proprie capacità produttive, anche attraverso la costruzione di nuovi stabilimenti fuori da Taiwan.
Sono statistiche impressionanti che giustificano metafore e iperboli con cui sono spesso abbellite le cronache su TSMC. Una delle più ripetute viene attribuita al Ceo di NVIDIA, secondo il quale per chi vive di chip «per prima cosa viene l’aria e poi viene TSMC». Il che aiuta a capire perché, sebbene in pochi fuori dal settore l’abbiano sentita nominare, secondo parecchi osservatori, inclusa la rivista Time, il “brand anti-brand” di TSMC sia da considerare il più importante al mondo. E del resto basta guardare (clic sul box a sinistra) quali sono le altre undici aziende che al momento fanno compagnia a TSMC nella classifica globale delle cosiddette “Magnifiche 12” per capitalizzazione complessiva. Con l’eccezione di Aramco (petrolio) e Berkshire Hathaway (holding), sono tutte aziende che fanno un uso iper-intensivo di chip prodotti dalla stessa TSMC. Non è insomma eccessivo affermare che l’azienda di Chang sia IL MOTORE NASCOSTO DEL CAPITALISMO TECNOLOGICO GLOBALE, e non soltanto di quello strettamente tecnologico. Questo poiché, in generale, quella dei semiconduttori è oggi più che mai “l’industria delle industrie”, il settore abilitante di ogni attività produttiva avanzata.
Se il contributo di TSMC scomparisse dall’oggi al domani, o per qualche ragione la foundry non potesse più esportare i propri chip, le aziende più importanti del pianeta subirebbero un contraccolpo pressoché incalcolabile. Se consideriamo che TSMC produce il 37% dei chip logici contenuti nei nostri laptop, cellulari, data center, elettrodomestici, automobili, un’interruzione totale della sua produzione significherebbe ritrovarsi di colpo con un 37% in meno di potenza di computazione “basilare” sul pianeta (e la percentuale sarebbe molto più alta se prendessimo in considerazione la computazione avanzata). Come ha scritto lo storico dell’economia Chris Miller:
Di questi tempi quando scrutiamo cinque anni avanti speriamo di essere alle prese con la costruzione di reti 5G e di Metaversi, ma se Taiwan venisse sconnessa potremmo ritrovarci a far fatica ad acquistare lavatrici.
Ci vorrebbero almeno cinque anni per riassorbire interamente altrove la quota di produzione di chip di TSMC. Per l’economia mondiale, nel frattempo, i danni non si calcolerebbero nelle decine o centinaia di miliardi ma nelle migliaia o decine di migliaia.
IL PARADOSSO DEL DIO INVISIBILE
E qui veniamo all’antinomia della divinità. Il paradosso del dio microchip è che, a fronte di una domanda che cresce man mano che sempre più manufatti tecnologici si spostano dal campo del funzionamento meccanico a quello del funzionamento digitale, la continuità dello sviluppo tecnico da cui dipende il futuro dei semiconduttori è tutto fuorché assicurata. Nulla infatti garantisce che scienziati e ingegneri riusciranno a proseguire nel processo di miniaturizzazione dei chip, o meglio dei transistor che contengono, alla stessa velocità a cui ci hanno abituato nei sette decenni che ci separano dalla costruzione del primo circuito integrato. Questo costante processo di miniaturizzazione è stato finora il presupposto di ogni aumento di potere computazionale a nostra disposizione. Tuttavia esso è oggi appeso a un filo, fatto di innovazioni sempre più difficili da implementare, di macchinari iper-complessi che possono richiedere decenni di progettazione e investimenti multi-miliardari in ricerca — oltre che di guai geopolitici.
Macchinari che sono composti da centinaia di migliaia di pezzi e che sono quindi, a loro volta, dipendenti da catene produttive estremamente lunghe, intricate e politicamente sempre più sensibili. La traiettoria di sviluppo dei chip è talmente frastagliata e complessa che Ursula von der Leyen, Presidente della Commissione Europea, durante il suo discorso sullo “European Chips Act” nel febbraio 2022 ha definito la sua continuazione «un afflato di ottimismo condiviso». E, in ogni caso, ammettendo che si riesca a estendere tale afflato per un altro decennio, sappiamo già che ad attenderci c’è una frontiera insormontabile: quella dell’atomo. Al di sotto della dimensione atomica, le leggi fisiche a cui rispondono gli elettroni, e che consentono il funzionamento dei chip, smettono di funzionare e si entra nell’ambito della fisica quantistica, delle “interazioni bizzarre” che meravigliavano — e angustiavano — Einstein. Come, e soprattutto se, riusciremo a continuare a incrementare il potere di computazione globale oltre questa frontiera, e che cosa prenderà il posto dei chip nel futuro della tecnologia, è semplicemente al di là della nostra immaginazione.
ANCHE UN DIO PUÒ AVERE DIPENDENZE
Dunque questa divinità è una delle più instabili e fragili che l’umanità si sia trovata finora ad adorare. E non è tutto: anche quanto a… luoghi di culto non è il massimo. Perché malgrado tutto quanto s’è visto finora, non è solo a Taiwan che il “culto” ha il suo “Vaticano” (o La Mecca, o Gerusalemme che dir si voglia).
Nella periferia industriale di Eindhoven, nei Paesi Bassi, sorge infatti ASML: oggi è la società tecnologica europea più di valore, con una quotazione che raggiunge i 350 miliardi di euro. Può contare su un organico composto da più di 39.000 dipendenti, opera in oltre 60 sedi in 16 Paesi in giro per il mondo, e detiene a tutti gli effetti il, chiamiamolo così, “monopolio del condizionamento” del mercato dei semiconduttori. È dalle sue fabbriche che escono i complessissimi e costosissimi macchinari da cui dipendono le sorti di colossi quali TSMC, Samsung e Intel, ben disposti a emettere bonifici a otto o nove zeri per ognuno dei suoi sistemi più pregiati. Ma come ha fatto un’azienda per molti sconosciuta a raggiungere un prestigio tale?
Più di tutte le altre nazioni europee, l’Olanda ci vide lungo nel capire l’importanza che avrebbero avuto i semiconduttori, anche per merito di un’azienda innovatrice come Philips, che dobbiamo ringraziare per una lunga lista di invenzioni: lampadina, nastro magnetico, musicassetta, CD, DVD, videoregistratore, rasoio elettrico, giusto per citarne alcune. Tutte idee che nacquero all’interno dei Philips Natuurkundig Laboratorium, meglio conosciuti come NatLab, paragonati non a caso a quei Bell Labs dove gli Stati Uniti inventarono i transistor e dettero via alla rivoluzione dei microchip.
Quella che segue (a dire il vero un po’ noiosa e per impallinati, ma tant’è) è la storia di come si arrivò a uno dei rarissimi settori tecnologici in cui l’Europa eccelle e “tiene il mondo sotto al pacchero”, come dicono a Napoli. Sì, perfino il dio microchip di Taiwan sta sotto schiaffo. Ma quanto è meravigliosamente complicato questo pianeta?
Philips decise di capitalizzare sul settore dei semiconduttori, e con oltre 2.000 dipendenti creò la divisione dedicata Elcoma (Electronic Components and Materials, ancora oggi esistente sotto forma di NXP). Nel 1975 acquisì poi Signetics, fondata da ex membri Fairchild e una delle realtà fondanti della Silicon Valley per la sua importanza nello sviluppo dei primi circuiti integrati; con questa mossa, Philips divenne il secondo produttore di semiconduttori al mondo e ritrovandosi con un’esigenza primaria: investire nei macchinari litografici.
Fra gli Anni ’60 e ’70, soltanto gli Stati Uniti con Applied Materials e il Giappone con Nikon e Canon avevano maturato l’expertisse necessaria per poter costruire e vendere apparati tecnologici di tale complessità. All’epoca, però, la fabbricazione dei microchip avveniva con la litografia a contatto, procedura piuttosto primitiva rispetto ai sistemi odierni: prevedeva che il disegno del circuito da stampare venisse impresso sul wafer di silicio tramite la pressione di piastre, un’operazione che non soltanto non era particolarmente precisa ma era anche costosa, dato che le piastre si usuravano dopo pochi utilizzi e andavano sostituite.
Fu grazie alla statunitense PerkinElmer e agli investimenti ricevuti dall’apparato militare USA che venne sviluppato il primo sistema ottico per stampare microchip: nacque nel 1973 Micralign, impianto in cui una serie di specchi proiettava il circuito da stampare sul wafer. Si rivelò un’invenzione a dir poco fondamentale, perché non solo le piastre non dovevano più essere sostituite ma il tasso d’efficienza di stampa passò dal 10% al 70%. Questo abbassò notevolmente i costi di produzione e quindi anche quelli di vendita, passando da chip di punta come il Motorola 68000 a 250$ al MOS 6502 a soli 20$.
NatLab ebbe la stessa intuizione — spostarsi verso il mondo dell’ottica — ma con un approccio diverso: concepire una macchina che proiettasse ripetutamente l’immagine da stampare su più parti del wafer e consentire così una maggiore miniaturizzazione (Micralign si fermava a 2 micrometri). L’obiettivo era tanto ingegnoso quanto ambizioso, in quanto richiedeva una precisione elevatissima nel posizionare, localizzare e spostare i wafer. Fu così che nel 1973 venne realizzato il sistema Silicon Repeater, tipologia di macchina che in futuro sarebbe divenuta celebre come stepper.
Nel frattempo, altre aziende avevano intrapreso la stessa strada, come nel caso di Nikon o dell’americana GCA Corporation, compagnie che batterono Philips sul tempo commercializzando le proprie macchine per prime; tuttavia, l’azienda olandese stava lavorando a un macchinario più complesso, preciso ma anche difficile da piazzare sul mercato. Era basato su un sistema idraulico, e questo significava dover adoperare oli e petrolio per farlo funzionare correttamente, materiali per niente ideali da avere nei delicati ambienti di stampa.
Nonostante nel 1982 l’azienda partner IBM avesse iniziato a testare il sistema PAS 2000 (nome commerciale del Silicon Repeater), la situazione non era delle migliori. Philips era intenzionata a scorporare le divisioni più difficili da gestire, Elcoma in primis, e fu a questo punto che si fece avanti l’altrettanto olandese ASM (Advanced Semiconductor Materials), fondata nel 1964 e seriamente intenzionata a diventare un’azienda importante nel settore. Le ambizioni tuttavia non bastavano a Philips, che reputava ASM una compagnia troppo piccola per poterle cedere a cuor leggero una divisione che, al netto delle difficoltà, era comunque molto promettente.
Al netto dei dubbi, nel 1984 Philips e ASM decisero comunque di avviare una joint venture sotto il nome di ASML (Advanced Semiconductor Materials Lithography). Fra l’altro, inizialmente avrebbe dovuto chiamarsi ALS (Advanced Lithography Systems), ma il nome venne bocciato perché uguale a quello della malattia SLA, in inglese proprio ALS (Amyotrophic Lateral Sclerosis). Battesimi a parte, l’inizio non fu dei migliori per ASML, la cui sede iniziale era un capannone fatiscente a Eindhoven — per l’insoddisfazione dei dipendenti, alcuni dei quali vivano in capanne di legno fuori dagli uffici.
Che l’azienda più grande fosse scettica lo si evinse anche dal fatto che, mentre ASM mise 2 milioni di dollari cash per creare la joint venture, Philips contribuì con 17 unità degli invendibili PAS 2000. Quei macchinari funzionavano ancora a olio, ed è ancor più paradossale se si pensa che nei laboratori Philips NatLab esistevano già dei prototipi elettrici anziché idraulici, ma ai quali ASML non aveva accesso; affinché ASML potesse sviluppare un proprio stepper elettrico stimò che le sarebbero serviti almeno 100 milioni di dollari, cifra ben lontana dalle possibilità del tempo.
E c’era un altro problema: per poter sviluppare nuovi macchinari più raffinati nelle capacità di miniaturizzazione servivano lenti più avanzate. Fino a quel momento era la parigina CERCO a fornirle le lenti, ma le rivali erano un passo avanti: Nikon usava lenti Canon e GCA della tedesca Carl Zeiss.
A fine Anni ’80 arrivò la doppia svolta che salvò ASML dal baratro: prima di tutto, Philips accettò di fornirle i brevetti del suo stepper elettrico; subito dopo Carl Zeiss accettò di entrare in partnership con le sue pregiate ottiche. Questi due avvenimenti furono la chiave per lo sviluppo dello stepper PAS 2500 a 0,9 µm (ossia 900 nm), obiettivo sostenuto anche dal “progetto MegaChip” con cui l’Europa volle sfidare il dominio litografico di USA e Giappone.
Il primo cliente fu la stessa Philips, con la quale però i rapporti continuavano a essere conflittuali: nel 1988, la crisi del settore litografico portò ASM a essere a corto di fondi e Philips a voler tagliare posti di lavoro. Ma anche grazie agli accordi economici raggiunti con nuovi partner, come la storica Cypress Semiconductor, la joint venture ASML resistette e, nel 1989, creò il nuovo sistema PAS 5500/50, il primo a funzionare a luce ultravioletta.
L’azienda olandese fu la prima al mondo a creare macchinari capaci di reagire a luci con lunghezza d’onda così ridotta: ci riuscì inventando un sistema basato su lampade al mercurio, in grado di raggiungere la risoluzione record (per l’epoca) di 0,5 micron. Nel 1990 fu il turno del PAS 5500/70 con tecnologia DUV (Deep UltraViolet): serviva che la lunghezza d’onda della luce usata nel macchinario scendesse da 365 nm a 100 nm, perciò iniziarono a essere impiegati materiali più avanzati come laser al fluoruro di krypton e di argon, con lavorazioni fino a 0,35 micron.
La serie PAS 5500 fu la chiave di volta per il successo di ASML, che attirò a sé le attenzioni di un numero crescente di chipmaker leader, necessari per generare un profitto tale da poter continuare a investire ad alti livelli. I suoi macchinari DUV erano i più avanzati del settore ma erano anche molto costosi, e ciò rischiava di tagliar fuori una serie di aziende che richiedevano sistemi più economici. Un modo per miniaturizzare senza utilizzare la tecnologia DUV fu aumentare l’apertura numerica (NA) dell’ottica del macchinario: come nelle fotocamere, più è alta l’apertura più luce entra, a beneficio della risoluzione. Il risultato fu che nel 1993 ASML realizzò il primo stepper I-Line a 0,35 micron, paragonabile alla tecnica DUV del PAS 5500/100.
Gli anni nei capannoni disastrati e dell’incertezza del domani erano sempre più lontani: in quello stesso 1993, ASML iniziò a espandersi in Asia, e nel 1995 divenne una società ufficialmente indipendente, nonché quotata in borsa.
Il mondo della tecnologia assistette a un ribaltone: Stati Uniti e Giappone persero la leadership del settore litografico a beneficio di ASML, la quale capitalizzò sulla crisi del mercato del Sol Levante: se nel 1995 il 70% dei microchip venivano stampati in Giappone, nel 2005 il 50% era nelle mani dell’Olanda.
Alla fine degli Anni ’90 ASML portò avanti lo sviluppo della serie PAS 5500, reinvestendo i crescenti profitti per innovare e creare nuove tecnologie. Esplorando il concetto di “microscopia nella litografia”, per esempio, creò la tecnologia AERIAL, tecnica di illuminazione fuori asse (modificava l’angolo di incidenza della luce) usata dai microscopi ad alta risoluzione per avere una risoluzione più alta dell’immagine proiettata sul wafer; creò anche un nuovo sistema Step & Scan con cui sfruttare un’area più grande ma usando una lente più piccola ed economica, che combinata alla tecnologia DUV permetteva di stampare fino a 0,18 micron.
Fu tutta una serie di trovate che le permisero di entrare nelle grazie di nuovi colossali clienti, fra cui HP, Siemens e Samsung, e di espandersi ulteriormente nel mondo (in Italia aprì la sua prima sede nel 1998). Nel 1996 sbarcò ufficialmente sull’isola di Taiwan, laddove “l’amica” TSMC stava anch’essa divenendo una dei giganti dell’industria dei semiconduttori, grazie ad altrettante “trovate”. Fra gli Anni ’70 e ’80 il taiwanese Burn-Jeng Lin, all’epoca fra le fila di IBM, aveva concettualizzato la tecnica della litografia a immersione: l’uso di un liquido tra lente e wafer permetteva ai fotoni di avere una lunghezza d’onda più corta e quindi di ottenere dettagli più precisi, consentendo di scrivere strutture più piccole e complesse sui wafer, aumentando la densità dei transistor. Nel 2000 Burn-Jeng Lin iniziò a lavorare per TSMC, e non ci volle molto prima che l’alleanza fra le due compagnie permettesse ad ASML di lavorare ai suoi primi macchinari litografici a immersione.
Nel 2001 fu ideato il sistema TWINSCAN dalla rivoluzionaria tecnologia a doppio stadio: mentre un wafer viene lavorato, quello successivo viene già predisposto per la lavorazione, il che significa più precisione ma anche più produttività. La prima macchina di questo tipo, il TWINSCAN AT:750T, esordì nel 2001 con capacità di stampa a 130 nm, scendendo a 100 nm con il successivo AT:850; a proposito di litografia a immersione, nel 2004 debuttò la prima macchina di quella tipologia, la TWINSCAN XT:1250i, capace di stampare a 65 nm.
Per diversi anni, all’incirca fino al 2010, la tecnologia DUV fu l’asse portante dell’economia di ASML, che col passare del tempo si impose come l’azienda numero 1 su scala globale. Arrivò così il momento di passare al capitolo successivo nell’evoluzione della “legge di Moore”, ovvero la tecnologia EUV (Extreme UltraViolet): rispetto a quella DUV, la lunghezza d’onda scende ulteriormente, passando da una media di 190/250 nm a soli 13,5 nm, quasi al pari dei raggi X. Per farlo, un laser viene sparato attraverso una goccia di stagno, vaporizzandola e creando una luce EUV, processo che viene ripetuto fino a 50.000 volte al secondo, dopodiché la luce viene fatta rimbalzare su vari specchi multistrato fino a impressionare il wafer.
Il passaggio da DUV a EUV non fu facile: richiese investimenti per oltre 6 miliardi di euro, ben 17 anni di ricerca e sviluppo, l’acquisizione di Cymer (produttore americano di sorgenti luminose litografiche) e la partecipazione di partner come Intel, che negli anni investì in ASML oltre 4 miliardi per lo sviluppo EUV.
Nel 2010 venne creato il primo prototipo EUV, il TWINSCAN NXE:3100, a cui seguì la prima macchina commercializzata su larga scala, l’NXE:3400: tutti macchinari necessari affinché TSMC, Samsung e Intel possano stampare a 7/5 nm e oltre, e di riflesso consentire ai vari “chipmaker fabless” — Apple, AMD, NVIDIA, Qualcomm e MediaTek — di creare i propri microchip.
Un chipmaker fabless è un’azienda che progetta e vende microchip o semiconduttori, ma non possiede impianti di produzione (le cosiddette “fab”, abbreviazione di fabrication plants). Invece di produrre i chip in proprio, queste aziende si affidano a produttori specializzati chiamati foundries (come TSMC o GlobalFoundries), che realizzano fisicamente i chip basandosi sui loro progetti.
Uno degli ultimi esemplari ASML, l’NXE:3600D, è talmente complesso da richiedere per l’acquisto di un singolo esemplare una spesa di 200 milioni di dollari (per tacer del fatto che per spedirlo servono 40 container, 20 camion e 3 Boeing 747). Nel mentre, fra 2023 e 2024 sono partite le spedizioni dei primi macchinari ASML High-NA, con cui verrà alzata l’asticella da parte di chipmaker come Intel, pronti a passare ai 2 e 1,8 nm. Tutti compimenti che non possono che allietare il programma EU Chips Act, con cui l’Europa sta cercando di riaccentrare la fabbricazione dei semiconduttori entro i propri confini.
Non sarà facile, ma il fatto che l’olandese ASML abbia raggiunto un grado così elevato di know-how gioca senz’altro a favore.
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