In attesa del possibile (e incredibile!) ritorno del Cialtrone-in-Chief nello studio ovale della Casa Bianca, in questo momento è lui l’uomo più letale dell’intero pianeta. Più pericoloso perfino di Vladimir Putin.
L’attacco dell’Iran a Israele, neutralizzato dalla coalizione internazionale scattata a difesa dello Stato ebraico, è ciò che il primo ministro cercava per uscire dall’impasse in cui si trova dal 7 ottobre 2023. Un’impasse in cui ha trascinato Israele, nell’ovvio equivoco personale secondo cui le sue sorti di statista si identificano con quelle dello Stato. Un equivoco che si trascina da vari lustri, e che va pazientemente chiarito, sminato. Denunciare gli errori e le politiche del governo più di destra della storia di Israele è l’esercizio più corretto per difendere Israele, proprio perché consente una loro collocazione esatta e toglie argomenti a chi vorrebbe demonizzare l’intero Paese, la sua storia, la sua ragione d’essere.
Benjamin Netanyahu ha seppellito Israele sotto una quantità di equivoci e disastri praticamente inedita nella storia del mondo moderno.
Ha visto che la sua politica tesa a consentire il rafforzamento di Ḥamās in modo da indebolire specularmente l’Autorità Nazionale Palestinese — e così sabotare in partenza qualsiasi intento di Stato palestinese — ha prodotto un mostro capace di sterminare 1.200 ebrei in poche ore. Pensava che Ḥamās si accontentasse dei soldi che, con il suo consenso, gli passava il Qatar, e del potere nella Striscia di Gaza. Invece Ḥamās è mosso da un’ideologia che concepisce come unico scopo la distruzione di Israele. E lui l’ha favorito.
Ha appurato che indebolire il controllo dei confini con Gaza per rafforzare la presenza di truppe in Cisgiordania — in modo da assecondare l’ambizione dei suoi alleati fondamentalisti, che vogliono espandere le colonie e annettere prima o poi quelle terre — è stato il corollario militare del suo errore politico.
Ha capito che sarebbe passato agli annali come il peggior premier della storia di Israele, e non solo il più longevo. Sapeva che a molti predecessori — giganti come Golda Meir e Menachem Begin — era bastato molto meno per passare la mano, dopo la guerra del Kippur e quella in Libano. Ma lui non ha accettato e non accetta di farsi da parte.
Ha infine intravisto un modo per ribaltare questa débâcle. Non solo perché non vuole consegnarsi alla giustizia — lo aspettano da anni tre processi per corruzione, che lui rimanda stando al potere con gli israeliani peggiori, che in cambio gli consentono di scamparla —, ma perché anzitutto non vuole consegnarsi alla Storia. Non vuole passare alla Storia come l’uomo che ha tradito la missione di Israele, che è quella di proteggere gli ebrei. Vuole rovesciare questa sentenza, vuole scrivere una storia in cui il suo sia il ruolo di chi ha distrutto per sempre i nemici di Israele: Ḥamās, Ḥizbullāh e la testa della piovra, l’Iran.
Ecco dunque che l’attacco iraniano — da Bibi cercato e sollecitato con il colpo senza precedenti del 1° Aprile, in cui Israele, bombardando in Siria il consolato iraniano e uccidendo Mohamed Reza Zahedi, figura di spicco delle Guardie Rivoluzionarie, ha di fatto violato il territorio dell’Iran raggiungendo sue sedi diplomatiche a Damasco — è per lui un balsamo.
È un toccasana perché già da tre giorni non si parla più di Gaza: né degli ostaggi israeliani, né tantomeno delle vittime civili palestinesi, che continuano a cadere ogni giorno a decine. Per lui è la conferma di un dogma che ha coltivato a lungo e che a lungo a funzionato: l’Iran è un magnifico diversivo per far dimenticare l’epicentro di ogni conflitto mediorentale. Che è la questione palestinese. Atteggiamento in fondo speculare a quello dei regimi arabi che da decenni, tramite il vittimismo e la ricerca di capri espiatori (l’Occidente, il Sionismo), insabbiano i propri fallimenti.
È un elisir perché Israele è uscito improvvisamente dall’isolamento internazionale in cui la carneficina di Gaza l’aveva fatto precipitare. L’aiuto ricevuto non solo dalle potenze occidentali, ma anche da quelle regionali — gli arabi moderati sunniti, a cominciare dalla Giordania — ha ristabilito la deterrenza dello Stato ebraico, che si è confermato semplicemente inattaccabile.
È una grazia di Yahweh perché adesso Netanyahu può — o pensa di potere — cercare il grande colpo: allargare il conflitto. In questo modo, rimanderebbe — anzi cancellerebbe — tutte le ipotesi che lo disturbano. Quella di una resa dei conti con il suo elettorato prima della scadenza naturale (il lontanissimo 2026). E quella di un processo di pace vero, già abbondantemente teorizzato e pianificato dall’amministrazione Biden. Per vero si intende un processo di pace che vada alla radice del conflitto e dunque porti a uno Stato palestinese, non limitandosi a un impossibile idillio regionale in cui Israele e gli Stati arabi, compresa l’Arabia Saudita, si abbracciano e prosperano mentre i palestinesi vivono nel migliore dei casi sotto occupazione e nel peggiore vengono deportati in massa. Impossibile perché inaccettabile sia dai palestinesi (non solo i peggiori tra loro) sia dagli Stati arabi (anche i più moderati tra loro).
Questi sono i punti chiave alla base delle analisi più lucide di queste ore. Tra le quali svetta come sempre quella di Alon Pinkas, il diplomatico israeliano, già consigliere di Shimon Peres, che in questi mesi ha mostrato un metodo e una conoscenza che dovrebbero ispirare ogni aspirante commentatore.
Il metodo, semplicemente, consiste nella consapevolezza che il modo migliore per difendere le ragioni storiche di Israele è separarle dagli errori politici dei suoi governi. Mostrandoli sistematicamente, quegli errori. E dunque, scrive Pinkas:
«Da novembre, gli Stati Uniti hanno gradualmente raggiunto la conclusione che non solo il primo ministro Benjamin Netanyahu cerca deliberatamente un confronto aperto con il presidente Joe Biden su Gaza, ma vuole anche ampliare la guerra e regionalizzarla. Ciò sembra controintuitivo e irrazionale, ma è coerente con la narrazione alternativa inventata da Netanyahu, secondo cui tutto ciò riguarda l’Iran e non il 7 ottobre».
«Inoltre, a Washington è sorto il sospetto, basato su prove circostanziali, che Netanyahu voglia che gli americani siano trascinati in una guerra con l’Iran. In questo modo, la débâcle del 7 Ottobre diventerebbe miracolosamente un trionfo strategico di cui Netanyahu potrebbe prendersi il merito. Non succederà».
«All’indomani del 7 Ottobre, gli Stati Uniti hanno individuato alcune verità scomode su Israele. La sua deterrenza era diminuita, la sua intelligence aveva fallito, le sue capacità militari di terra erano mediocri, la sua leadership politica manipolativa ma debole e inetta; e il suo primo ministro era tutt’altro che un alleato degli Stati Uniti. Sono impressioni molto difficili da accettare da parte di un alleato, ma questa è l’opinione comune nell’amministrazione Biden».
Una guerra con l’Iran avrebbe implicazioni profonde e di vasta portata per le alleanze regionali, il prezzo del petrolio, le alleanze e le priorità dell’Indo-Pacifico, le rotte marittime commerciali e le catene di rifornimento, nonché le risorse impegnate nella guerra in Ucraina.
Eppure una guerra totale conviene a Bibi e il perché lo spiega perfettamente uno dei massimi esperti italiani, Ugo Tramballi, sul Sole24Ore:
«Da tempo — molto prima della guerra di Gaza — il premier stava dimostrando che la sua determinazione di restare al potere a ogni costo è più forte dello stesso interesse nazionale israeliano. Nel gabinetto di guerra i due ministri nazional-religiosi, gli estremisti Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, pretendevano una dura reazione all’attacco iraniano (che era una reazione a un attacco israeliano). Nella loro visione millenaristica, simile a quella dell’ISIS musulmano, un autodafé mediorientale agevolerebbe la realizzazione del Grande Israele dal Mediterraneo al Giordano. Per mantenere la maggioranza parlamentare e dunque il potere, Netanyahu ha bisogno di loro. Fino a che c’è una guerra, lui resta premier. E fino a che è al potere, ci sarà una guerra. Quella eventuale con l’Iran sarebbe un super conflitto».
Sulla stessa linea è (da sempre ) Thomas Friedman. Il columnist del New York Times cita l’analista Nader Mousavizadeh, secondo cui uno sforzo globale per isolare l’Iran «è il modo migliore per separare il regime dal suo popolo, rassicurare Israele e gli israeliani sulla loro sicurezza e rimuovere la necessità di un’ulteriore escalation militare regionale, che sarebbe un regalo all’Iran e ai suoi proxy», ovvero i suoi alleati. E questo, aggiunge, Friedman, «è anche il modo migliore per garantire che Netanyahu non trascini gli Stati Uniti in una guerra regionale per sostenere la propria base politica in disfacimento».
Anche Gad Lerner descrive la “linea Bibi” in termini estremamente duri (e lucidi):
«Dopo aver già cacciato Israele in una condizione di isolamento internazionale mai conosciuta prima d’ora, e dopo aver costretto i suoi stessi alleati a prendere le distanze dai crimini commessi a Gaza, Netanyahu ha pensato che non gli rimanesse altro che l’arma del ricatto: spingere l’Iran allo scontro diretto, nella convinzione che a quel punto gli Stati Uniti e l’Unione Europea, sia pur recalcitranti, sarebbero costretti a seguirlo nell’avventura militare. Tanto peggio tanto meglio, insomma. Allargamento del conflitto. Scontro finale con obiettivo — niente meno — l’abbattimento per via militare del regime degli ayatollah al potere dal 1979. Bibi ci ha messo del metodo, in questa follia».
A questo punto, un’altra questione centrale, che andrà aggiornata e sviscerata nelle prossime settimane, è se, dopo che Paesi arabi moderati come la Giordania hanno contribuito clamorosamente alla difesa di Israele, si possa davvero parlare di una nuova alleanza in funzione della pace e della prosperità, e contro l’Iran. La risposta è «sì» se alle condizioni americane — un processo ben concepito e che contempli l’autodeterminazione palestinese — e «no» alle condizioni di Netanyahu — un’alleanza che progetti il futuro facendo finta che i palestinesi non esistano. Ma in ogni caso, nessuno dei membri dell’alleanza in fieri, USA e arabi e moderati, è disposto a seguire Bibi in una guerra totale.
Spiega non a caso Nora Landau su Haaretz che a questo punto la destra israeliana (e i suoi supporter in Occidente) dovrebbero anzi scusarsi con Biden e con i giordani, umiliati e ignorati in questi mesi nonostante avessero fatto presente in modo chiaro quanto la guerra di Gaza sia per loro inaccettabile, non solo per la strage in corso ma perché l’obiettivo esplicito degli alleati più facinorosi di Netanyahu è cacciare i palestinesi della Cisgiordania oltre il fiume, a Est, nel regno hashemita, che ne sarebbe ovviamente destabilizzato in modo irreparabile. Scrive l’analista israeliana:
«Avere sventato l’attacco iraniano è soprattutto la prova evidente dell’importanza di un’alleanza regionale di moderati, compresi i palestinesi. Nei giorni precedenti il 7 Ottobre, la destra bibista [da Bibi, ndr] ha ripetutamente affermato che la questione palestinese era “caduta dall’agenda” e che Israele poteva normalizzare le relazioni con l’Arabia Saudita senza occuparsi della Cisgiordania o della Striscia di Gaza. Hanno trascurato e minato i legami di Israele con il Partito democratico USA e le relazioni strategiche con la Giordania. Hanno insistito nell’indebolire l’ANP e nel rafforzare Ḥamās. Se c’è qualcuno che dovrebbe essere “disilluso” ora, non è “la sinistra” che ha avvertito più e più volte di tutto questo».
Si torna sempre al punto essenziale. Di certo, dopo avere meritoriamente difeso Israele, Biden e gli arabi moderati eviteranno di farsi trascinare in una guerra offensiva devastante. Di certo, “Bibi” ci proverà in ogni modo. Ed ecco perché, in questo momento, è lui l’uomo più pericoloso del mondo intero.
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