Un secolo fa, il 13 luglio 1923, sopra un’anonima collina nei dintorni di Los Angeles, si inaugura una grande scritta bianca contornata da quattromila lampadine. Illuminandosi a blocchi in sequenza, tambureggiano un messaggio contro la macchia selvosa: prima HOLLY, quindi WOOD, infine LAND.
Lungi dall’avere a che fare col cinema, la scritta promuove un progetto edilizio: una proto-suburbia per il giovane ceto benestante californiano. Solo per caso, proprio da quelle parti, comincia a muovere i primi passi anche l’industria americana dell’«abbagliante spettacolo delle immagini in movimento».
Nei suoi primi decenni, la “settima arte” è praticata soprattutto in Europa da cineasti francesi e tedeschi, i quali vi si applicano con sperimentazioni pregne di velleità artistiche. Lo loro pellicole riflettono, direbbe Tocqueville, i sofismi del gusto che il retaggio dell’aristocrazia impone a tutto ciò che si realizza nel Vecchio Continente. Gli Americani non conoscono e anzi disconoscono tale retaggio. E così, quando il neonato cinema europeo finisce sotto le macerie della Prima Guerra Mondiale, sono ben felici di aprirgli le porte. Lo spogliano degli anacoluti e lo fanno proprio. Lo rendono arte popolare e, soprattutto, commerciale.
Passano gli anni Venti, gli anni Trenta, passa anche la Seconda Guerra Mondiale, e il simbolo HOLLYWOODLAND è ancora lì, anche se ormai in rovina. A fine anni Quaranta bisogna decidere se rimuoverlo o restaurarlo. Si opta per la seconda cosa, ma senza più LAND: solo HOLLYWOOD.
Mito collettore di miti, nasce così, quasi per caso, il marchio della più potente macchina per immaginari della Storia.
Nel dopoguerra, il cinema è l’arma segreta — una delle più decisive, peraltro — degli Stati Uniti nel confronto con l’Unione Sovietica. È il veicolo attraverso cui l’America esporta i propri valori, con un’efficacia a cui non può ambire alcuna “dottrina” politica, modello economico o propaganda esplicita. Hollywood è la fabbrica in cui gli USA forgiano il proprio stesso mito, a uso e consumo dell’intero pianeta. Al punto che numerosi occidentali degli anni del boom conoscono meglio la storia del West di quella del proprio Paese.
Tra anni Cinquanta e Sessanta, i film di Hollywood scolpiscono le versioni definitive di eventi fondamentali della storia americana, a cominciare dalla WWII. Per i milioni di persone che la “rivivono” attraverso film come Il giorno più lungo, essa viene vinta… dai soli Americani. Per ragioni legate alla Guerra Fredda, si rimuove quasi del tutto il contributo dell’Unione Sovietica sul fronte orientale (la propaganda dell’URSS, a ogni buon conto, fa lo stesso nei territori sotto il proprio controllo).
Un filo rosso che attraversa i decenni lega John Wayne a John Rambo (denuncia ma anche riscatto dal Vietnam in piena Reagan-èra), il Tom Cruise di Top Gun all’Arnold Schwarzenegger di True Lies, il Will Smith di Independence Day (un grande classico dell’«unipolar moment») al Robert-Downey Jr. di Iron Man.
“Potere morbido”
Tutto questo ha un nome: “soft power”. Il potere morbido che, attraverso le immagini e l’immaginazione, plasma la visione del mondo di milioni (a volte miliardi) di individui. Dando a sua volta vita a quella grande costruzione socioculturale che è il “senso di realtà” dei cittadini e delle collettività, quel che Antonio Gramsci chiamava “egemonia culturale”.
La capacità di influenza di Hollywood non è mai stata una proprietà accidentale del cinema americano. È noto come, già nel 1927, in occasione della realizzazione del pluripremiato Wings, si saldi un legame tra l’industria cinematografica di Los Angeles, in quegli anni in ascesa, e vari apparati della sicurezza e della difesa di Washington. Un legame che, ovviamente, si intensifica durante la guerra, sotto l’auspicio del War Information Office. Il cui direttore scrive queste parole a Roosevelt nel 1942:
Gli intrecci tra Hollywood e il potere politico-militare americano, tra soft e hard power, non sono del resto mai stati negati né nascosti. È per esempio di dominio pubblico il fatto che, a metà anni ’90, la CIA creò un dipartimento impegnato nella cura della sua immagine filmica. Più di recente, è noto il coinvolgimento di varie branche dell’esercito americano in saghe multimiliardarie come Transformers e lo sconfinato Marvel Cinematic Universe. I cui numerosi film tendono a “suggerire” alcuni precisi panorami geopolitici. Nei primi anni Dieci furono, per esempio, proprio i film della Marvel a reintrodurre al pubblico l’idea che il mondo russo/slavo (ritratto con una palette cromatica grigio-marrone), rappresentasse una minaccia per l’Occidente superiore a quella del terrorismo islamico.
Nel genere supereroistico, il potere degli Stati Uniti viene presentato sotto vesti quasi messianiche, e i supereroi americani come l’ultima linea di difesa da minacce planetarie totalizzanti. Un personaggio come Capitan America rappresenta, fin dal nome, l’apoteosi più smaccata di tale narrazione salvifica. E non potrebbe essere altrimenti, data la sua storia editoriale: Capitan America nasce infatti nel 1940 come strumento di propaganda anti-nazista e, durante la Seconda Guerra Mondiale, la sua immagine è usata per sollecitare l’arruolamento.
Tuttavia, oggi, la capacità di creare “mitologie” collettive e di dare la sensazione del grande evento cinematografico — ingredienti fondamentali per sprigionare soft power — ha ormai un costo troppo elevato. Dei cento film con un budget superiore ai 150 milioni di dollari, solo due sono usciti prima del 2000 e solo 13 prima del 2010. Un film come Avengers: Endgame del 2019 è costato ben 356 milioni di dollari. Certo, ne ha incassati molti di più: ma cosa sarebbe successo se, contro ogni aspettativa, avesse floppato (come per esempio accaduto quest’anno con il sequel di Avatar)?
L’aumento dei costi dei super-film dell’ultimo decennio, unito agli anni di crisi dovuti alla pandemia, ha spinto Hollywood fino al ciglio del burrone di una potenziale rottura degli equilibri finanziari su cui, finora, si era retta la sua capacità di sedurre. Per sopravvivere, gli Studios hanno iniziato un processo di “integrazione verticale” che ha portato all’emergere di cinque grandi conglomerati (Universal, Paramount Pictures, Warner Bros., Disney e Columbia), ciascuno sostenuto da leve finanziarie colossali e caratterizzato perciò da obblighi estremamente pressanti verso il mercato: ogni volta che uno dei Big Five degli Studios scommette nella produzione di “un grande film”, i ritorni devono essere altrettanto grandi. E perché ciò accada, da almeno un decennio, non è più sufficiente sbancare il botteghino solo in Occidente, bisogna farlo anche nei mercati globali emergenti. Su tutti la Cina, ormai il primo mercato anche per quanto riguarda il consumo di film. Negli ultimi anni, dalle parti di Hollywood è perciò diventata d’obbligo una grande attenzione alla sensibilità del governo di Pechino (i film stranieri devono passare il vaglio della censura prima di approdare nelle sale della Cina e il numero dei film americani che la supera è, anno dopo anno, sempre più esiguo).
Nel 2019 ha fatto scalpore la rimozione delle bandiere di Giappone e Taiwan dal giubbotto di Tom Cruise in un trailer di Top Gun: Maverick; e più di recente, dopo che qualcuno aveva notato che nel film Barbie si vedeva una mappa del Mar Cinese Meridionale che rappresenta un famigerato contenzioso geopolitico, il Vietnam ha vietato la distribuzione del film (problema poi risolto sostituendo la mappa nella relativa scena).
Questi sono solo due tra i molti esempi nel vasto bestiario di compromessi tra Hollywood — e in generale le imprese occidentali — e la censura cinese. Catalogo destinato ad allargarsi via via che le tensioni tra Stati Uniti e Cina continueranno a crescere (o, chissà, magari bestiario destinato a estinguersi del tutto se in futuro il cinema americano venisse totalmente bannato dagli schermi cinesi).
Proprio il successo di Top Gun: Maverick, che nel 2022 è riuscito a incassare un miliardo di dollari senza passare dalla Cina, secondo alcuni ha mostrato che Hollywood potrebbe produrre super-film facendo a meno del pubblico cinese. In realtà, però, senza la possibilità di contare sull’enorme scala del mercato cinese, i super-film cui Hollywood ci ha abituati sarebbero giocoforza molto più rischiosi e difficili da finanziare, ergo rari. Il che, è evidente, decreterebbe di per sé un indebolimento della capacità americana di plasmare l’immaginario globale.
Streaming VS soft power
La co-dipendenza di Hollywood dal Paese che, a tutti gli effetti, è il principale rivale geopolitico di Washington, non è l’unica ragione per cui, rispetto al passato, il soft power cinematografico americano appare appannato. L’altro grande fattore in gioco è la comparsa, nell’ultimo decennio, di un nuovo grande player nel campo dell’intrattenimento visivo: Netflix — e, più in generale, le piattaforme di streaming.
Per via del suo modello di business — basato, tra l’altro, sull’ammortizzare globalmente i costi di produzione nei singoli territori —, Netflix ha ampliato i confini di ciò che centinaia di milioni di spettatori guardano in tutto il mondo. Alcuni dei suoi programmi più visti in assoluto sono coreani (Squid Game, Kingdom), spagnoli (La casa di carta), tedeschi (Dark). Sono perciò portatori e rappresentanti di culture, narrazioni e sensibilità che incarnano prospettive eccentriche, “altre”, rispetto al baricentro americano e alla sua capacità di controllare le rappresentazioni del contemporaneo.
Questo aspetto ha per giunta dei risvolti secondari ugualmente impattanti. Internet e i social media hanno trasformato in modo profondo il mercato dell’attenzione e il modo in cui, in Occidente e non solo, si fruisce l’intrattenimento. Al posto della “monocoltura” dell’epoca televisiva, per cui tutti guardavano le stesse cose, sempre di più oggi ognuno di noi vive immerso in bolle, più o meno ampie e condivise, di interessi specifici. E se fino a qualche anno fa serie come Game of Thrones e film seriali come appunto le saghe dei supereroi erano riusciti a creare una qualche forma di interesse collettivo, più ci si allontana dall’età televisiva e dalle sue abitudini (anche per ragioni anagrafiche e demografiche) e più si fatica a immaginare prodotti in grado di generare quel livello di coinvolgimento collettivo che, come detto, è ingrediente senza il quale il soft power più difficilmente può esprimersi.
Del resto, la ragione per cui oggi i super-film che puntano a essere “grandi eventi cinematografici” devono riuscire a essere davvero sensazionali — diventando proporzionalmente super-costosi — ha a che fare anche con la segmentazione del pubblico introdotta dai nuovi media e dalla concorrenza delle piattaforme. Una segmentazione per cui ogni briciolo supplementare di attenzione costa oggi esponenzialmente di più che in passato. Nell’epoca della “economia dell’attenzione” e dell’engagement, siamo di fronte al più classico caso di “rendimenti decrescenti”. Con effetti che non solo colpiscono gli stessi cine-comics e la capacità americana di produrre immaginario politicamente e culturalmente fungibile, ma anche l’economia delle stesse piattaforme di streaming.
Un articolo di Vulture sulle recenti difficoltà economiche di Netflix racconta come la mega-piattaforma, che ha finora campato proprio sul mercato dell’attenzione post-televisivo e post-monoculturale, starebbe in realtà cercando di sperimentare forme di intrattenimento più tradizionali, quasi vintage, come brevi sit-com in stile Seinfeld e Friends, o talk show. Questo perché in Netflix si sono resi conto che quei tipi di prodotto rappresentano fonti d’incasso più affidabili e durature, sono cioè scommesse più sicure in termini finanziari, rispetto alla “pesca a strascico” internazionale di contenuti cui la stessa Netflix si dedica da sempre.
E tuttavia, nota sempre l’articolo, una volta che le abitudini della massa vengono «disrupted», è quasi impossibile fargliele recuperare. Bisogna accettare che il mondo ha voltato pagina. Questo vale per le vecchie televisioni, per lo streaming ma anche per il “potere morbido” esercitato da Washington per più di novant’anni tramite Hollywoodland.
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