Costume, moda, nuove abitudini mentali hanno da tempo fatto vacillare il monolitico — e, diciamolo, ridicolo — maschio alfa, costringendolo se non a una resa incondizionata quantomeno a cedere il passo a esseri umani per cui l’aggettivo “virile” è di per sé fuori asse.
«Spero – dice rivolgendosi al figlio – mi insegnerai a piangere le cose che non ho mai pianto», così lo scrittore argentino Andrés Neuman nelle pagine di “Ombelicale” (1977). E Paolo Giordano chiude in questo modo il suo libro “Tasmania” (2022): «Scrivo di ogni cosa che mi ha fatto piangere», ed è la frase a cui approda l’io narrante-alter ego dopo avere messo alla prova sé stesso, le proprie certezze, dopo averle viste ondeggiare nel privato tanto quanto nell’orizzonte collettivo.
Curiosa, l’evocazione dei dotti lacrimali in tali contesti distanti fra loro mezzo secolo, quasi che al pianto adulto il maschio contemporaneo assegni ancora un valore di rivelazione, di esposizione radicale, di liberazione.
Non sono lacrime da eroi greci, né da supereroi coi poteri scaduti: ma brillano come sintomi di una messa in gioco di sé più integrale. Che dura appunto da almeno mezzo secolo (45 anni fra il romanzo di Neuman e quello di Giordano). E che è soprattutto — novità delle novità — indifesa.
Dice, «ma gli uomini non sono più quelli di una volta», «Si è persa la mascolinità», «Ma come e quando è successo?».
Eh, come e quando è successo, dice?, ma vatti a risentire le canzoni degli anni ’60 e ’70 e lo capisci, quando e come!
“…No, cosa sono adesso non lo so/ Sono come, un uomo in cerca di sé stesso…”
(Impressioni di settembre — Premiata Forneria Marconi, 1972)
“…E mia madre sempre qui/ Che ripete «non lasciarti andare»/ E la gente intorno a me/ Come un gufo vuole guardare/ Ma di strano cosa c’è/ Questa casa ha visto amore/ Oggi vede un uomo che muore…”
(Vendo Casa — Dik Dik, Battisti, 1971)
“…E io, tra di voi, se non parlo mai/ Osservo la vostra intesa/ E io, tra di voi, nascondo così/ L’angoscia che sento in me…”
(Ed io tra di voi — Charles Aznavour, 1971)
“…Quella sera/ Ballavi insieme a me/ E ti stringevi a me/ All’improvviso/ Mi hai chiesto «lui chi è?»/ «Lui chi è?»/ Un sorriso/ E ho visto la mia fine sul tuo viso/ Il nostro amor dissolversi nel vento/ Ricordo, sono morto in un momento…”
(Mi ritorni in mente — Mogol/Battisti, 1969)
E si potrebbe continuare a lungo.
La gente si preoccupa perché i ragazzini giocano con le armi, gli adolescenti guardano film violenti, nei più giovani finisce per imporsi la cultura della violenza; ma in quell’epoca lì, a cavallo fra i Sixties e i Seventies, nessuno che si preoccupasse dei ragazzini che ascoltavano migliaia di canzoni — migliaia, letteralmente — e guardavano centinaia di film che parlavano di popolazione maschile afflitta da cuori spezzati, e abbandoni e dolore e sofferenza e perdita, e FINE DEL MACHO.
I maschi più infelici erano anche quelli pazzi per la musica pop; e non sono sicuro che la musica pop sia stata la causa della loro infelicità, ma so per certo che sono persone che hanno ascoltato canzoni tristi più a lungo di quanto non siano durate le loro tristi storie amorose.
Sembra quasi che se metti la musica (e i libri, probabilmente, e i film, e il teatro, e qualsiasi cosa procuri emozioni) al primo posto, non riuscirai mai a chiarire la tua vita amorosa, non arriverai mai a considerarla come un prodotto finito. Ci troverai sempre qualcosa da ridire, starai sempre in subbuglio, e continuerai a criticare e a cercare di dipanare la matassa finché non va tutto a rotoli e devi ricominciare daccapo. E di conseguenza il carattere (e talvolta il pene) ti si rammollirà.
I maschi degli anni ’60 e ’70 hanno cominciato a vivere troppo protesi verso un “apice”, assorbendo EMOZIONI da mattina a sera, e di conseguenza non sono più riusciti a sentirsi semplicemente contenti, realizzati: da quel momento in poi bisognò essere o disperati o al settimo cielo, e questi sono stati d’animo difficili da raggiungere in una relazione stabile e solida.
Da quel momento in poi quella sensibilità esagerata, mutuata male dall’altro sesso, si è trasmessa a tutte le generazioni maschili venute dopo, ed ecco il motivo del patatrac del machismo. Addio «l’uomo è uomo».
Forse Lucio Battisti e Woody Allen sono responsabili di molte più cose deleterie per i maschi di quante ci siamo mai resi conto?

Quel dannato folletto di Manhattan
Fin qui l’ho messa sul sarcastico e attingendo a piene mani da Nick Hornby, ma le cose sono un attimino più complesse di così. Cominciamo a vederle partendo proprio da lui, lo Schlemiel inseparabile dalle rive del fiume Hudson.
Non è un segreto che la qualità della produzione artistica del regista newyorkese sia andata progressivamente abbassandosi col passare del tempo, tipizzandosi sempre più e appiattendosi al canovaccio della commedia “à la Woody Allen”, tuttavia è anche vero che questo artista, umanamente molto discusso, ha creato nel corso della sua carriera — e principalmente all’inizio, in quei fatidici Seventies — immensi capolavori che hanno raccontato l’identità di una particolare epoca culturale, e che poi hanno influenzato a livello globale le nuove generazioni di creativi e creative a disagio nel mondo, offrendo loro un vero e proprio modello di sguardo a cui aderire.
Soprattutto negli anni Settanta, Allen aveva una visione più aperta di quella di molti altri registi e sceneggiatori che l’hanno seguito, e la capacità di fotografare un mondo e un ambiente culturale ben preciso, senza falsi moralismi, paternalismo o censure. Allen stesso si mise in scena, recitando la parte del creativo in crisi esistenziale, a tutti gli effetti un inetto nevrotico. Il suo personaggio, quasi un cliché, contribuì a creare e a diffondere nel grande pubblico lo stereotipo dell’uomo colto, cinico e brillante che sconta tutto il peso della sua intelligenza e fa delle proprie idiosincrasie un vanto (quando poi col passare del tempo si scoprono essere semplici limiti e armature).
In realtà da vantarsi non c’è nulla e, mettendo in scena l’Alvy Singer o Isaac Davis che sia, Allen muove piuttosto una profondissima critica — tuttora valida — al maschio bianco, etero, cisgender e appartenente all’élite culturale che egli stesso impersona. Il meccanismo che entra in gioco e che rischia di non essere compreso a fondo dagli spettatori, portati a identificarsi facilmente senza poi fare il passaggio successivo di disvelamento e di consapevolezza delle criticità del personaggio, è lo stesso della saga del ragionier Fantozzi e di certi film di Monicelli e della commedia all’italiana.
Ogni “maschio” interpretato da Allen soccombe alla vera protagonista, una “femmina” che puntualmente da insicura si trasforma in una donna indipendente, certa delle proprie capacità, da musa ad artista: il Virgil Starkwell o Miles Monroe di turno ha le sue stesse debolezze, ma a differenza di lei — che ha il coraggio di ammetterle — viene schiacciato dal peso di dover aderire a uno stereotipo machista.
Attraverso la narrazione di questi personaggi maschili deboli, Allen muove una critica profonda alla visione del maschio (specialmente americano, ma in quanto tale trasmesso a tutto l’Occidente) forte e vincente, che va a inserirsi in un solco tracciato da molti narratori che l’hanno preceduto, tra cui J. D. Salinger, John Cheever, Richard Yates, ma anche in diversa misura Raymond Carver e Francis Scott Fitzgerald. Viene mostrata in tutta la sua chiarezza la frattura psicologica che questo stereotipo compie sugli uomini che non riescono o non vogliono riconoscervisi, rivendicando la possibilità di un’alternativa, di una figura maschile sensibile – ipersensibile magari – debole come ogni essere umano avrebbe il diritto di essere, e bisognosa d’amore, bisogno che quando non viene ascoltato porta alla nevrosi e allo squilibrio mentale.

Oggi sembra che i ruoli si siano invertiti e la donna, come reazione a secoli di narrazioni vittimiste, debba sempre essere rappresentata come forte, sicura di sé, padrona delle proprie azioni, consapevole, resistente, ostinata ed energica. Pena il non “essere” abbastanza. Questa narrazione steroidea, nata in risposta a intere epoche di oggettificazione e mercificazione mediatica, risulta però altrettanto tossica. Donne eccessive, dai toni esagerati, caratterizzate dal “troppo”: troppo programmate, o troppo dedite al lavoro, o agli affari, o alla famiglia. Eppure sempre insoddisfatte della vita, che attribuiscono al partner la responsabilità dei propri fallimenti, che cambiano idea di continuo, mai contente del proprio corpo, schiave delle figlie adolescenti, sempre scontente di uomini mai all’altezza — mai abbastanza colti, mai abbastanza divertenti, mai ricchi a sufficienza, che devono essere tutto e il contrario di tutto: tenebrosi e solari, intellettuali e pratici, perché se si rompe qualcosa in casa devono saperla aggiustare. Uomini che «devi prendere contatto con la parte femminile che è in te, ma anche rimanere uomo vero». Donne infelici, attratte dal dolore, in lotta con non-sanno-neanche-loro-cosa. Donne che «più pazze sono, più le amo», e perché le ami non lo sai, ma loro dicono che «il pazzo sei tu», e forse hanno ragione.
«Ma tu almeno sei felice?», «L’amore e i rapporti erotici non sono mai felici: l’amore scoppia, mica scivola, e lo scoppio provoca sempre una ferita. E la ferita fa male. Detto ciò, queste donne secondo me fanno sesso meglio», «Ohibò, e perché mai?», «Perché sono disperate, e cercano la felicità. E la felicità fisica, in fondo, è l’unica cosa che valga la pena».
I recenti e quasi contemporanei abbandoni di ben tre donne premier, volontari quelli della neozelandese Jacinta Ardern e della scozzese Nicola Sturgeon, dopo una sconfitta alle elezioni quello della finlandese Sanna Marin, e della top manager di YouTube, Susan Wojcicki (ma 6 mesi prima si era dimessa anche Sheryl Sandberg da Facebook), segnalano inequivocabilmente che anche il “sistema femmina” è vicino al crac.

IL RIMPALLO
Un casino, insomma. Ma tranquilli, colleghi maschi: ora Allen è soltanto un rincoglionito ultraottantenne che non fa più ridere né riflettere (peraltro trascinato nella cacca, per il tramite di una ex-musa irosa e manipolatrice, da quella stessa cancel culture politicamente corretta che lui stesso ha contribuito a edificare), e arriva in nostro soccorso l’Alt-right, l’estrema destra americana. Tra i cui commentatori e ideologi spicca Jordan Peterson, psicologo e conferenziere canadese sessantenne, da alcuni anni considerato parte del cosiddetto intellectual dark web: un gruppo eterogeneo di accademici e studiosi con storie e orientamenti politici diversi, ma diventati popolari tra le altre cose per le loro tesi sul presunto dominio del politicamente corretto, della cancel culture e della identity politics nelle istituzioni e nel dibattito pubblico statunitensi.
Peterson, il cui account Twitter era stato bloccato nel 2022 per alcuni tweet considerati transfobici riguardo all’attore transgender Elliot Page, è descritto come uno dei principali intellettuali di riferimento della destra americana. Gran parte delle sue idee sono fondate su una critica radicale della moderna cultura progressista, da lui ritenuta una minaccia alla stabilità sociale e un tentativo di sovvertire ordini naturali e valori secolari dell’Occidente: valori di cui farebbero parte l’affermazione della mascolinità e il rispetto dei ruoli di genere tradizionalmente assegnati a maschi e femmine.

Dal 2018, l’anno in cui i media cominciarono a occuparsi estesamente di lui, i video delle conferenze pubbliche di Peterson e delle sue partecipazioni come ospite in popolari podcast sono stati visti su YouTube da milioni di persone. E i suoi libri di auto-aiuto, 12 regole per la vita (2018) e Oltre l’ordine (2021), letti e apprezzati da un pubblico prevalentemente maschile, hanno ottenuto uno straordinario successo commerciale.
La popolarità di Peterson — che ha insegnato psicologia a Harvard e alla University of Toronto, ed era noto in Canada già dai primi anni Duemila — è stata per lungo tempo piuttosto trasversale. Ed è stata in parte favorita dal suo carisma, dalle sue abilità retoriche e dai suoi toni il più delle volte pacati: diversi da quelli di solito apprezzati nella destra americana. Fino a un certo momento l’eterogeneità dei suoi interessi e le sue idee sulla società e sulla politica — da molti considerate semplicistiche e piuttosto vaghe, nella migliore delle ipotesi — lo hanno portato a dialogare e discutere anche con studiosi autorevoli. Tra questi ci sono lo psicologo statunitense Jonathan Haidt e il neuroscienziato inglese Karl Friston, e altri pensatori popolari e influenti, come il filosofo sloveno Slavoj Žižek, uno dei più importanti intellettuali della sinistra contemporanea.
Ma la popolarità di Peterson in anni recenti è principalmente cresciuta in seguito a una radicalizzazione delle sue idee in chiave ultraconservatrice e un’evoluzione molto netta della sua reputazione: evoluzione considerata problematica dall’ordine degli psicologi dell’Ontario, che potrebbe revocargli la licenza (Peterson ha comunque smesso di insegnare dal 2017).
Da accademico eclettico ed eccentrico, spesso contestato ma comunque ascoltato e disposto al confronto, e quasi mai intemperante, Peterson ha progressivamente mostrato un’inclinazione crescente a rivolgersi principalmente al suo pubblico e a utilizzare argomenti faziosi, misogini e vittimistici largamente condivisi da molti altri commentatori statunitensi di estrema destra, come il giornalista Ben Shapiro, ma anche dal popolare conduttore di podcast Joe Rogan. Questa evoluzione, che si è espressa anche attraverso un’estesa disinformazione su temi importanti come la violenza sulle donne e il cambiamento climatico, è da tempo considerata molto pericolosa dalla sinistra proprio per l’influenza che Peterson era ed è ancora in grado di esercitare sulla parte del suo pubblico formata da persone giovani e studenti universitari che lo seguono da molto.
Allo stesso tempo una parte consistente del suo successo è stata attribuita da una parte dei media ai limiti della identity politics da anni molto radicata a sinistra: gli approcci politici che si rivolgono all’elettorato definendo e interpretando la realtà e i suoi problemi principalmente sulla base delle identità etniche, religiose, di genere e di orientamento sessuale. Proprio questi approcci, secondo alcuni, sarebbero una delle concause della frammentazione della società e del dibattito politico, di cui anche la polarizzazione riguardo a Peterson può essere considerata una delle innumerevoli espressioni. Altri commentatori, pur critici, nel tempo hanno suggerito più cautela nell’interpretare e distorcere le posizioni di Peterson, a cui talvolta sono state attribuite cose che non ha davvero sostenuto, o ha sostenuto in modo più sfumato, in modo da farle apparire più assurde e disdicevoli.

Peterson ricevette molte attenzioni mediatiche una prima volta e in modo abbastanza clamoroso nel 2016. In una serie di suoi video su YouTube criticò apertamente un disegno di legge – poi approvato dal parlamento canadese nel 2017 – volto a esplicitare e includere l’«espressione di genere» e l’«identità di genere» (vd. addendum a fondo pagina) tra i motivi di discriminazione vietata in base al Canadian Human Rights Act (CHRA) e al codice penale.
Peterson affermò che il disegno di legge riduceva la libertà di parola perché avrebbe implicitamente reso obbligatorio riferirsi ad alcune persone utilizzando determinati pronomi, come per esempio il singular they (“they singolare”) per le persone trans e non binarie che lo preferiscano rispetto ai pronomi di genere maschile e femminile. Diversi esperti legali chiarirono che l’utilizzo improprio di un pronome non avrebbe potuto costituire una discriminazione ai sensi del Canadian Human Rights Act. E che sarebbe stato necessario che il rifiuto di attribuire un determinato pronome a una persona fosse parte di un’attività discriminatoria «ripetuta e coerente». Centinaia di studenti e docenti della University of Toronto chiesero formalmente il licenziamento di Peterson, mentre altri manifestarono sostegno nei suoi confronti.
Le numerose critiche rivolte a Peterson in ambienti accademici e progressisti in anni recenti, come il rifiuto di lavorare con lui da parte della Cambridge University, sono state più volte utilizzate da Peterson come prova della validità dei suoi argomenti: una prova cioè della diffusione della «spaventosa ideologia della diversità, dell’inclusione e dell’equità», oltre che dell’avversione per il merito, all’interno delle istituzioni. Questo gli ha permesso di costruirsi una reputazione da dissidente e di estendere la sua popolarità attraverso canali personali.
Peterson, al momento della redazione di questo articolo, ha 4 milioni di follower su Twitter e 6 milioni di iscritti al suo canale YouTube. Attraverso il suo sito Internet promuove la vendita dei suoi libri, dei biglietti per le sue conferenze e di test della personalità a pagamento basati su modelli statistici la cui validità è riconosciuta in molti ambiti (test che richiederebbero tuttavia di essere somministrati da uno o una specialista in un ambiente controllato, per essere considerati attendibili). L’esperienza accumulata attraverso la pratica clinica e le sue conoscenze di psicologia, oltre ai suoi argomenti, sono considerate una delle ragioni del successo di Peterson sia come conferenziere che come autore di libri.
Quello pubblicato nel 2018, 12 regole per la vita, è quello che gli ha procurato maggiore successo commerciale — oltre 5 milioni di copie vendute in tutto il mondo — e l’accusa di sostenere indirettamente gli argomenti degli Incel (dall’espressione involuntary celibates, “single non per scelta”). È il nome con cui vengono definiti i gruppi di uomini che affermano la supremazia maschile e accusano le donne di non rispettare il proprio ruolo privando gli uomini di un loro presunto diritto ad avere rapporti sessuali.
(Vi viene da ridere? Vi sembrano discorsi da pazzi disadattati che non scopano mai? Sbagliate: gli “incel” sono roba serissima, e siccome tutto quello che accade oltreoceano presto o tardi arriva anche da noi, fareste bene a smettere di ridere.)
Parlando con il New York Times Peterson disse che «lo spirito mascolino è sotto attacco», e utilizzò l’espressione «monogamia forzata» per descrivere sia le pressioni sociali che favoriscono le relazioni monogame sia le conseguenze sociali determinate dal violarle. Questo tipo di struttura sociale, secondo Peterson, è razionale e ha senso perché produce stabilità: renderebbe gli uomini meno violenti e più probabile così per loro avere una relazione con una partner.
L’idea di base è che negli ultimi decenni una certa debolezza abbia progressivamente portato gli uomini a essere partner deludenti, e che questo provochi danni e infelicità alle donne a cui si legano. Affinché gli uomini e le donne abbiano relazioni reciprocamente appaganti, secondo Peterson, è necessario che gli uomini diventino padri migliori e mariti migliori: che riacquisiscano il proprio ruolo all’interno di gerarchie stabili che la «sinistra radicale» vorrebbe eliminare e che per Peterson sono invece parte dell’ordine «naturale» delle cose.

Il modo in cui le società sono strutturate, in altre parole, sarebbe secondo Peterson una conseguenza diretta e immutabile del modo in cui gli esseri umani sono fatti biologicamente. Un animale da lui citato come esempio di comportamento sociale simile a quello umano è l’aragosta, così nota ai molti fan di Peterson da essere riprodotta su indumenti, tazze e altri gadget in vendita sul suo sito. Peterson sostiene che, come tra gli esseri umani, anche tra le aragoste esistano precise gerarchie. E che il sistema nervoso di questi crostacei renda disponibile più serotonina — un neurotrasmettitore che, tra le altre cose, regola il tono dell’umore — man mano che si sale lungo la scala gerarchica, e massimamente tra le aragoste dominanti. A regolare la distribuzione gerarchica nelle aragoste, così come negli esseri umani, sarebbe quindi un dato biologico incontrovertibile.
Diversi analisti e scienziati hanno obiettato che gli effetti della serotonina sono vari e a volte contraddittori in uno stesso organismo, e che le strutture su cui questo neurotrasmettitore agisce nel cervello dei vertebrati — e degli esseri umani soprattutto — sono molto più complesse e malleabili delle terminazioni nervose delle aragoste. In generale, hanno messo in dubbio che una sostanza presente nel cervello possa bastare a spiegare l’organizzazione delle società umane. Altri, più indulgenti, ritengono quella delle aragoste più che altro una metafora da non prendere troppo alla lettera.
Quanto all’ipotesi della «monogamia forzata» come soluzione storica alla violenza maschile, Peterson non fornisce alcuna spiegazione convincente della quantità di violenza e abusi che questo sistema ha storicamente legittimato e prodotto. Né si sofferma sulle differenti conseguenze sociali della violazione della «monogamia forzata» da parte delle donne rispetto a quella da parte degli uomini. L’opinione largamente diffusa tra molti osservatori e sostenuta dai dati empirici è che proprio la mascolinità – non la mancanza di mascolinità – sia un elemento centrale nei casi di abusi sessuali e violenze domestiche. E che i ruoli di genere contribuiscano a sostenere e rafforzare le violenze contro le donne, anziché diminuirle.
Peterson è poi noto per essere un difensore della cultura capitalistica occidentale, a cui attribuisce il merito di aver generato stabilità sociale pur non essendo uno schema perfetto e inattaccabile. La definisce una cultura ereditata dal passato e riconducibile, anche in questo caso, a una «costante archetipica». E definisce i sistemi politici ed economici «relativamente incorrotti», la tecnologia e le opportunità nell’Occidente «un dono dei nostri antenati».
L’attuale debolezza delle società occidentali, secondo Peterson, sarebbe piuttosto una conseguenza dell’affermazione di tendenze «postmoderniste» e «neomarxiste», che considerano i principî occidentali della libertà individuale e del libero mercato un modo di «camuffare» le condizioni reali dell’Occidente: «disuguaglianza, dominio e sfruttamento». L’obiezione di Peterson è che queste tendenze, di cui il politicamente corretto sarebbe una delle espressioni più potenti, cercano illusoriamente di sovvertire schemi che sono universali.
Questa idea di Peterson fu peraltro uno degli argomenti del dibattito del 2019 con Žižek, che a sua volta obiettò che non c’è niente di marxista nel politicamente corretto, ma soltanto una «ipermoralizzazione impotente» interna al capitalismo: nessuna reale ambizione di cambiamento della società. Secondo Peterson cambiare la società nel senso «utopico» di sradicare qualsiasi gerarchia è semplicemente impossibile, perché nuove gerarchie tenderanno a emergere ogni volta da capo sulla base di altri fattori. Fenomeni come il populismo e l’ascesa di Trump e dei politici di estrema destra in Europa sarebbero proprio una reazione a certe tendenze postmoderniste neomarxiste della sinistra progressista, secondo Peterson, e parte di un processo inevitabile: perché «se gli uomini subiscono troppe pressioni perché si femminilizzino, allora diventeranno sempre più interessati a un’ideologia politica dura e fascista».

Nel corso degli ultimi anni, in seguito al suo larghissimo successo commerciale e alla crescente popolarità dei suoi argomenti tra gli estremisti di destra, Peterson è stato inevitabilmente oggetto di più critiche di quante ne avesse ricevute in passato. In molti ritengono che la lunga campagna mediatica di attacchi da lui subiti, insieme ad alcuni suoi problemi di salute dovuti a una dipendenza da benzodiazepine, abbiano contribuito nel tempo a radicalizzare alcune sue convinzioni e rendere più incerte e fragili le sue argomentazioni.
Peterson, per esempio, è da tempo convinto che il cambiamento climatico sia una questione «controversa» e con «troppa ideologia coinvolta», e che questo renda impossibile fidarsi dei dati e di chi li fornisce. In un’intervista a GQ nel 2019 disse peraltro di seguire un’alimentazione solo a base di carne bovina, definendo «spazzatura» le conoscenze sui danni che questo regime alimentare provoca alla salute.
Pochi mesi prima del tweet per cui fu sospeso da Twitter nel luglio del 2022, in cui definiva «medico criminale» il medico autore di uno degli interventi di transizione dell’attore Elliot Page, Peterson ricevette molte attenzioni e critiche per un altro tweet. «Spiacente. Non è bella. E nessuna quantità di tolleranza autoritaria potrà cambiare niente», disse della copertina di Sports Illustrated con Yumi Nu, prima modella plus size statunitense di origini asiatiche a finire sulla copertina della rivista.
Di Peterson si è infine parlato in tempi recenti anche in relazione al film Don’t Worry Darling, diretto dall’attrice e regista statunitense Olivia Wilde. Descrivendo la trama e i personaggi del film, ambientato in un quartiere americano degli anni Cinquanta in cui le mogli restano a casa a cucinare e gli uomini vanno a lavorare, Wilde citò esplicitamente Peterson come fonte di ispirazione e lo definì «eroe pseudo-intellettuale della comunità incel».

Intervistato poi dal giornalista britannico Piers Morgan nel suo programma televisivo, Peterson si commosse nel rispondere alla critica rivolta a lui da Wilde. «Le persone mi prendono di mira da molto tempo perché mi sono rivolto a giovani frustrati. Che cosa terribile da fare! Pensavo che gli emarginati dovessero avere una voce», disse Peterson.
Cosa diavolo è questo “woke”
Nell’ampio dibattito che ha interessato i paesi anglosassoni negli ultimi anni sulle rivendicazioni delle cosiddette minoranze, che si parli di orientamento sessuale o identità di genere, di origini etniche o di disabilità, sono emerse diverse nuove parole che hanno poi cominciato ad affiorare nelle discussioni anche in Italia, prima nelle nicchie e poi in modo sempre più trasversale.
Woke è una parola che in realtà non si è mai davvero affermata nel dibattito italiano, nel quale solitamente si fa ricorso ad altre espressioni che rientrano più meno nello stesso campo semantico, come “politicamente corretto” oppure “cancel culture”. Peraltro, negli stessi Stati Uniti l’aggettivo woke e il sostantivo wokeness sono parole sempre meno usate, se non con una chiara connotazione dispregiativa: a complicare ulteriormente la spiegazione non solo del suo significato, ma anche degli sviluppi nelle sue accezioni e usi.
“Woke” non è davvero traducibile in italiano (vuol dire qualcosa come “consapevole”) ma indica — o almeno indicava originariamente — l’atteggiamento di chi presta attenzione alle ingiustizie sociali, legate principalmente a questioni di genere e di etnia, e non ne rimane indifferente, solidarizzando ed eventualmente impegnandosi per aiutare chi le subisce.

Nel Novecento l’espressione “woke” esisteva già ed era usata soprattutto tra gli afroamericani, sia con l’accezione di “stare all’erta” rispetto a un pericolo, sia con quella più generica di essere a conoscenza di qualcosa. La sua diffusione col significato attuale però risale allo scorso decennio, quando fu usata nell’ambito delle proteste di Black Lives Matter per esprimere il concetto a cui è stata poi associata negli ultimi anni: cioè la consapevolezza su una serie di questioni e problemi legati al razzismo e al sessismo sistemico — nel senso di radicati nelle istituzioni e nelle dinamiche sociali — della società americana (e per estensione di quelle occidentali). Un termine quindi con un’accezione positiva, per chi lo usava riferendosi a un obiettivo e un’ambizione: si definivano woke per esempio le persone — perlopiù della cosiddetta generazione dei “millennial”, cioè i nati tra gli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta — che facevano attivismo in piazza e sui social network, che partecipavano alle proteste antirazziste o alle marce per i diritti delle donne, che sensibilizzavano sull’importanza di utilizzare un linguaggio rispettoso e inclusivo per riferirsi alle minoranze.
Man mano che la diffusione della parola è uscita dalle proteste di Black Lives Matter, ha iniziato a essere usata in altri modi. Con l’aumentare del coinvolgimento dei giovani americani nelle battaglie per i diritti, woke è diventata un’espressione riferita spesso a persone che sono considerate “alleate” delle minoranze ma che appartengono a categorie identitarie ritenute in una posizione di maggiore potere. Per esempio perché bianche, di sesso maschile, eterosessuali, cisgender (cioè che si riconoscono nel genere associato al sesso di nascita) o ricche, tutte caratteristiche che nell’ambito dei discorsi su questi temi vengono associate spesso al concetto di “privilegio”, inteso come vantaggio nella società contemporanea occidentale.
(Ai più smaliziati verrà da comporre un aristotelico paragone: Woke=tipici personaggi di Woody Allen; personaggi di Woody Allen=maschi deboli; Woke=fine del “maschio”. Magari un po’ azzardato e forzato, ma attendiamo che si sviluppi un filone letterario o cinematografico e poi ne riparliamo.)
Più recentemente, però, woke è diventata sempre meno una parola rivendicata dalle persone che teoricamente dovrebbe descrivere, e sempre più usata invece dai loro critici e dai conservatori americani per indicare quella che considerano una pericolosa tendenza della sinistra, dei progressisti e più in generale dei Democratici. Con woke, cioè, la destra americana intende solitamente quello che identifica come un atteggiamento di dogmatismo intollerante e censorio, applicato nei confronti delle parole e delle idee che vanno contro le più moderne sensibilità sulle questioni delle minoranze e dei diritti civili.
Woke quindi è diventato un termine perlopiù negativo, usato con l’intento di ridicolizzare e attaccare i movimenti giovanili progressisti, associandoli alle loro espressioni più intransigenti e aggressive, presenti principalmente sui social network.
Per esempio le campagne portate avanti in diversi campus universitari americani per allontanare professori accusati — spesso pretestuosamente o ingiustamente — di aver usato parole offensive, oppure quelle che chiedono il licenziamento di personaggi pubblici di vario tipo per via di dichiarazioni considerate controverse, o che mobilitano grandi e bellicose masse di account contro qualcuno che abbia detto una cosa considerata disdicevole rispetto alle suddette sensibilità.
Queste dinamiche, che sono oggetto di riflessioni e studi anche preoccupati, soprattutto in ambito accademico, fanno più precisamente riferimento al fenomeno della “cancel culture”, e sono legate secondo molti non tanto all’impostazione ideologica woke quanto alle modalità con cui le piattaforme dei social network hanno reso il confronto tra idee diverse spesso violento, intollerante e polarizzato.

Questi aspetti non sono soltanto discussi e criticati dai conservatori, tutt’altro: è in corso un vivace dibattito anche tra progressisti e persone di sinistra sui problemi che derivano da questo tipo di approccio al confronto politico e alla ricerca accademica. Anche tra opinionisti liberal, la parola woke viene talvolta usata per riferirsi genericamente a questo atteggiamento ritenuto in contrasto con i valori di tolleranza e dialogo a cui si ispira storicamente la sinistra.
Ma insieme all’intenzione offensiva, negli Stati Uniti i principali utilizzatori del termine woke oggi se ne servono anche spesso come strumento di propaganda e polemica, evocando con un termine efficace un pericolo disegnato come universale e prevalente, una “ideologia estremista” che governerebbe il pensiero progressista. È una minaccia che sfrutta la particolare e minacciosa visibilità degli atteggiamenti e dei toni aggressivi e perentori usati nelle polemiche virali sui social network, e ha permesso in più occasioni di mobilitare il complesso di persecuzione e la reazione di parte dell’elettorato conservatore (una pratica di comunicazione simile è quella familiare anche in Italia attivata dai predicatori contro “la teoria gender”).
Anche l’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama aveva criticato alcuni aspetti dell’atteggiamento di chi «si sente sempre politicamente woke», e ha «quest’idea di purezza, che non si debba mai scendere a compromessi». Aveva invitato i giovani a superare questo approccio:
«Il mondo è incasinato, ci sono ambiguità, le persone che fanno cose molto buone hanno dei difetti, le persone contro cui combattete possono amare i loro figli e avere cose in comune con voi. Penso che un pericolo che vedo nei giovani e in particolare nei campus, accelerato dai social media, è l’idea che il cambiamento passi attraverso l’essere il più giudicante possibile verso le altre persone, e che questo basti.
Se twitto o uso un hashtag su come hai fatto qualcosa di sbagliato, o hai usato la parola sbagliata, allora posso sedermi e sentirmi molto bene con me stesso perché avete visto quanto sono woke? Ti ho sgridato. Non è attivismo. (…) Se tutto quello che fai è lanciare pietre, probabilmente non vai molto lontano. È facile fare così.
TROVARE UN PO’ DI EQUILIBRIO
Lo scombussolamento socio-culturale su sesso, genere e ruoli cui abbiamo assistito dal Novecento in poi produce inevitabilmente reazioni in una parte della società, specialmente nei Paesi più avanzati. È il Principio di Archimede applicato alle comunità umane. Ciò spiega per esempio quanto avviene con fenomeni come l’inedita alleanza reazionaria rappresentata dalla convergenza fra destre mondiali, complottismo e radicalismo cristiano elaborata molto estesamente in quest’altra sezione del blog.
Nella storia del femminismo ci sono stati momenti, intermittenti, in cui le attiviste sembravano convinte che l’unica strada politicamente corretta e da percorrere fosse quella di diventare tutte lesbiche. Ma, in generale, in quanto uomini e donne ma soprattutto esseri umani, tutti abbiamo bisogno gli uni degli altri. E andrebbe riconosciuto che la maggior parte delle donne, nel corso della Storia, ha lottato per raggiungere l’uguaglianza: mai per imporre la sopraffazione.
Quanta lotta nel Belpaese…
In Italia il percorso è stato lunghissimo.
Fu la Legge 66 del 9 febbraio 1963, che il Parlamento della Repubblica varava a ben 15 anni dall’entrata in vigore della Costituzione (la quale all’Art. 3 recita: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”), a statuire l’ammissione della donna a tutte le cariche, professioni e impieghi pubblici. Cassando la Legge 1176 del 17 luglio 1919 (nonché il regolamento applicativo 39 del 4 gennaio 1920) e le altre ridicole norme che tenevano fuori le donne da magistratura, diplomazia, prefettura — perfino incarichi per mansioni di normali addette alla segreteria in tribunali e prefetture.
Oggi la donna può teoricamente accedere per legge a ogni lavoro e carriera. Le discriminazioni pregiudiziali però resistono nella riproposizione della favola dell’angelo-del-focolare-donna-madre-e-sposa “per vocazione” onde ostacolare anche l’indipendenza economica delle donne e la parità salariale, sia pure combattute già dal 1977 con la Legge 903 — la quale vieta qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l’accesso a lavoro, retribuzione e carriera.
Ma fu negli anni Settanta che avvenne la rivoluzione copernicana femminile, emancipazione che incrinava irrimediabilmente il modello patriarcale. Era la rivendicazione giuridica di un habeas corpus contro modelli stereotipati di cui il controllo della sessualità sulla donna è stato il principale “sacralizzato” tassello (la verginità della donna era stata per secoli un fatto di onorabilità sociale, e spettava al maschio di famiglia difenderla anche con l’omicidio). Il “delitto d’onore” fu eliminato solo nel 1981 con la Legge 442 del 5 agosto, che abrogava anche il cosiddetto “matrimonio riparatore”.
Nel vecchio diritto di famiglia, baluardo del codice fascista e mantenuto nell’Italia repubblicana, la “moglie”, considerata eterna minore, poteva essere picchiata a scopo “correttivo” dal marito capo-famiglia: questa barbarie fu abrogata nel 1975 con la Legge 151. L’anno prima c’era stata la vittoria dei No al referendum promosso dai clerico-fascisti per l’abrogazione della legge sul divorzio; e sempre nel 1975 venivano istituiti i consultori familiari (Legge 405, 29 luglio).

Intanto la pillola anticoncezionale era ormai realtà. Venduta nelle farmacie dal 1967 — camuffata da cura ormonale per la fertilità o anche farmaco per regolarizzare il ciclo mestruale—, finalmente legalizzata nel 1971 (sebbene fino al 1976 rimarrà il divieto per le farmacie di venderla senza ricetta) irrompeva come una rivoluzione nella società patriarcale italiana, scardinandone il simbolico della donna “fattrice”.
Eppure il Vaticano vi si oppose con tutte le forze. Pure nel contesto della rivoluzione sessuale del ’68, con l’affermazione della possibilità della donna di autodeterminarsi, di esercitare un potere sul proprio corpo da sempre “luogo” nel quale si sono resi visibili i reali rapporti di potere tra i due generi, il pontefice Paolo VI con l’enciclica Humanae vitae (25 luglio 1968) ribadiva il dogma cattolico nella legittimazione del coito esclusivamente all’interno del matrimonio e a scopo procreativo. E lo faceva incardinando l’Humanae vitae sulla riaffermazione del miracolo creazionista di ogni vita a opera del Dio Padre «da cui ogni paternità, in cielo e in terra, trae il suo nome […] comporta ancora e soprattutto un più profondo rapporto all’ordine morale chiamato oggettivo, stabilito da Dio […] l’esercizio responsabile della paternità implica che i coniugi riconoscano i propri doveri verso Dio, verso sé stessi, verso la famiglia e verso la società, in una giusta gerarchia dei valori».
Una gerarchia valoriale “imposta da Dio” (sic!) che resuscitava il capo-famiglia per il controllo del corpo della donna, che quella pillola rendeva troppo libera. Ma quel che il clero proprio non voleva era la legge sull’interruzione volontaria di gravidanza, varata dopo decenni di lotta: la celebre 194 del 22 maggio 1978 che l’obiezione di coscienza dei medici continua ancora oggi a mettere in crisi nella pretesa di equiparare il diritto delle donne (per cui essa è nata) a quello del medico obiettore.
La sacralizzazione dell’ovulo fecondato è stata del resto alla base della famigerata Legge 40 del 19 febbraio 2004 (“Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”), sbriciolata poi sotto un profluvio di sentenze della magistratura sia italiana che (soprattutto) europea. Ciò nonostante, il vento reazionario continua a soffiare, comprese le paventate infornate di pro-life in consultori e ospedali, mentre vengono ripresentate sistematicamente proposte di legge per l’attribuzione della personalità giuridica all’ovulo fecondato: nel tentativo di cassare definitivamente ogni possibilità di interruzione volontaria di gravidanza.
Perfino contro la violenza fu necessario battersi e attendere a lungo.
Un’intera giurisprudenza rubricava la violenza sessuale a reato contro la “pubblica morale”: come se il corpo delle donne, o meglio le parti intime delle donne, fossero un problema di decoro sociale e di ordine pubblico… Quella violenza di Stato venne infine fatta fuori con la Legge 66 del 15 febbraio 1996, la quale una buona volta stabiliva che la violenza sessuale era un crimine contro la persona.
Per non parlare del famigerato “debito coniugale”, soppresso con sentenza della Cassazione (n. 14789 del 26 marzo 2004): «Ogni forma di costringimento fisiopsichico, idonea in qualche modo ad incidere sull’altrui libertà di autodeterminazione, se finalizzata al compimento di un atto sessuale, costituisce – anche all’interno del rapporto di coppia, coniugale o paraconiugale che sia – condotta punibile».
Sentenza capitale, che estendendo il giudizio anche alle unioni di fatto (coniugale o paraconiugale che sia) non fa più del rapporto di coppia una zona franca per la violenza: «L’esistenza di un tale rapporto o di altro di contenuto similare […] non autorizzano alcun uso irrispettoso – e tantomeno “proprietario” o violento – del corpo altrui né limitazioni che valgano in alcun modo a deprimere la libertà della persona o a umiliarne la dignità. Non esiste cioè – all’interno del rapporto di coniugio – un “diritto all’amplesso” né il potere di esigere o d’imporre una prestazione sessuale non condivisa. Non esiste nel rapporto di coppia un’area di esenzione diversa o distinta da quella governata dal reciproco consenso. Neppure l’ingiustificato e persistente rifiuto del così detto “debito coniugale”».
Il corpo è sempre stato il “luogo” nel quale si sono resi visibili i reali rapporti di potere tra i due generi. E attraverso il corpo, il controllo del corpo della donna nella sua subordinazione all’uomo. Una questione atavica per cui anche la violenza in famiglia è difficile da far emergere, rimanendo un fatto nascosto, problematico da raccontare, e che quindi si denuncia poco. Quasi si tratti di questioni private tra coniugi, una violenza “di importanza secondaria”.
La legge quadro contro questo tipo di violenza fu la 1544 del 4 aprile del 2001 (“Misure contro le violenze familiari”). Mentre la Legge 38 del 23 aprile 2009 istituiva servizi e campagne di prevenzione capillari. Fondamentale poi quella chiamata “codice rosso” (Legge 69 del 19 luglio 2019) perché affianca all’immediatezza di misure giudiziarie quelle di immediata tutela e protezione della vittima per metterla al riparo dal suo carnefice.
Tutto ciò malgrado, le donne sono ancora costrette a tenere la guardia alta, se non altissima. Perché mentre il maschilismo violento si smaschera facilmente e le sue azioni sono reato, quello più difficile da scardinare è il maschilismo paternalistico, che nella mistificazione misogino-sessista rispolvera la favola dell’«eterno femminino», in esercizi di stile sulle “connaturate” doti delle donne: dolcezza, sentimento, amabilità, grazia — che in realtà significano soggezione, sopportazione, obbedienza, rassegnazione. Un vero e proprio servizio sacrificale, quasi un sacerdozio, costruito su presunte attitudini maschili e femminili, ma che celano logiche di sopraffazione e dominio.
In Occidente il patriarcato non ha futuro
“Addio, mio testosterone”. Sottotitolo: La fine di un certo tipo di uomo e l’inizio di un altro. Ecco come si potrebbe intitolare un’analisi più serena, lontana dai social e dal Woke e dalla Cancel Culture e compagnia cantante.
È un fatto: gli uomini così come li abbiamo conosciuti finora, gli uomini del “patriarcato”, in Occidente sono veramente finiti. Questo è quanto sta accadendo e in questo senso la “fine dell’uomo” non è un mito. Le donne dovrebbero fermarsi ad assaporare questo momento storico: hanno raggiunto tanti traguardi che sono costati anni di lotta e di fatica ad altre generazioni. È sbagliato, persino controproducente, concentrarsi sulle statistiche punitive e sui settori dove ancora stravince il divario tra i generi. Non è in discussione il fatto che oggi le donne godano di maggiori opportunità e che le qualità femminili siano molto più apprezzate, rispettate, se non direttamente ricercate in molti luoghi dove si prendono decisioni importanti per la vita economica, politica, sociale. È chiaro che, nella transizione, si creano situazioni scoraggianti. Sempre più donne crescono i figli da sole, per esempio, e questa non è certo una situazione ideale. Non possiamo non vedere che, almeno in Europa, le ragazze si diplomano e laureano meglio dei compagni maschi, ma questo divario colmato — o addirittura ribaltato fino all’università — non si trasferisce nella vita professionale.
Quando sono venuti a cadere gli interdetti che reggevano il mondo prima della rivoluzione sessuale — dai rapporti extra-matrimoniali all’estremo della pedofilia — si sono inevitabilmente presentati nuovi problemi, nuovi squilibri di potere e nuove esigenze di regolazione. È ovvio. Ma la cosa da fare è rimboccarsi le maniche, non voltarsi indietro frignando.
Le alterazioni nelle dinamiche del potere sono ancora troppo recenti per produrre mutamenti drastici. Tuttavia sono già in campo almeno 3 fattori che è utile analizzare, e sui quali lavorare. Primo: non solo gli uomini, ma tutta la società in genere è ancora a disagio davanti al potere femminile; inquietano l’ambizione e l’aggressività delle donne perché vengono vissute come minacciose per il ruolo tradizionale della madre protettrice della famiglia. Secondo: sono assai pochi i Paesi che offrono strutture adeguate per venire incontro alle donne nella cura dei figli. Terzo: malgrado tutto e contrariamente al sentire comune, le donne in realtà non hanno ancora alzato a sufficienza la voce per reclamare i diritti di base, per negoziare le condizioni salariali di ingresso sul mercato del lavoro e per far riconoscere poi le proprie esigenze sul posto di lavoro.
La spinta dietro gran parte delle donne oggi è la consapevolezza di essere state emarginate e di dover lavorare il doppio per raggiungere gli stessi obiettivi degli uomini. Da qui la notoria flessibilità femminile nel barcamenarsi.
È interessante notare come nei test sulla personalità le donne si definiscano portatrici di caratteristiche femminili e anche maschili, pertanto sono solidali e dominanti al tempo stesso. Probabilmente con il tempo saranno capaci di mostrare un’aggressività più naturale e sapranno difendere i loro interessi senza falsi pudori. Inoltre, forse impareranno dagli uomini a ignorare i condizionamenti sociali e a dominare la paura di non farcela. In genere le donne cercano il consenso, puntano a farsi apprezzare da tutti e ancora oggi pagano un prezzo pesante se riducono la propria disponibilità.
L’uomo, storicamente, si è mostrato restio a cambiare o ad adattarsi alle mutate circostanze socioeconomiche. Tuttavia proprio ora, almeno in Occidente, ci sono le condizioni per affrontare una transizione più condivisa e puntare a un futuro migliore che vedrà gli uomini poter scegliere in una gamma di opportunità allargate. Come, per esempio, guadagnare meno della moglie e godersi di più i figli. Senza per questo sentire minacciata la propria virilità.
In questo momento storico gli uomini sono sotto stress per l’incrocio dei mutamenti socio-economici. Tantissimi faticano o rinunciano a farsi carico delle responsabilità aumentate che derivano dall’essere lavoratori, mariti, padri. È una fase di crisi. Verosimilmente è in corso la nascita di un nuovo modello matrimoniale — quanto meno tra le élite occidentali — che si potrebbe chiamare “la coppia altalena”, nella quale uomini e donne si scambiano i ruoli tradizionali di chi porta a casa lo stipendio e di chi si occupa della casa e della famiglia, alternandosi nell’uno e nell’altro ruolo. È un inizio di vera modernità.
Come vivremo tra cento, duecento anni? Il mio pronipote guadagnerà meno della sua compagna, resterà a casa il venerdì per lavorare sui suoi progetti artistici e andare a riprendere i bambini a scuola: e nessuno ci farà caso.

Rimuovere il maschilismo residuo
Per arrivare a questo equilibrio è prima necessario uno sforzo supplementare proprio da “noi maschi”. Che siamo i primi ad alimentare la tossicità dei rapporti.
Perché ci sarà pure un indicibile femminile — quante donne preferiscano farsi mantenere dai mariti, quante scelgano di non lavorare, quante si siano accomodate in una società fatta per le mantenute, dagli alimenti dopo il divorzio alla pensione di reversibilità —, ma è niente in confronto all’indicibile maschile costituito non solo da millenni di fallocrazia ma per esempio dai femminicidi.
I movimenti maschilisti negli ultimi anni sono stati inclusi nella definizione di MRA (Men’s Right Activism, “attivismo per i diritti degli uomini”), termine generico che comprende una varietà di posizioni: atei, razionalisti e ultraliberisti, nazifascisti, fondamentalisti cristiani ma anche persone che si presentano falsamente come “moderate” per darsi un’aura di rispettabilità di fronte a frange più estreme — come per esempio i citati Incel, rancorosi uomini che si organizzano e radicalizzano su posizioni misogine in Rete, riversando la loro rabbia contro i “maschi alfa” e contro le donne che preferirebbero questi ultimi a loro.
Mentre gli estremisti come gli Incel si esprimono soprattutto nel web, nei forum dove alimentano la loro rabbia — che tuttavia è non di rado sfociata in stragi rivendicate politicamente come antifemministe —, il resto del movimento che si spaccia come “moderato” si esprime sia in diversi siti internet di riferimento che in occasioni pubbliche, per lo più convegni a porte chiuse.
Non mancano altresì azioni volte ad attirare l’attenzione mediatica, come le performance “spettacolari” di alcuni gruppi di padri separati che mirano a veicolare messaggi minacciosi nei confronti delle donne. Infine, meno visibile ma molto efficace è l’attività di lobbying che punta a convincere i politici a modificare le normative — in particolare quelle sulla famiglia — per ristabilire la posizione dominante della figura del marito. In Italia ne abbiamo un esempio coi tentativi portati avanti da Pillon, senatore della Lega.
Serve uno sforzo, come detto. “Noi maschi” dobbiamo arrivare a capire che:
l’ideologia maschilista è pienamente inserita nel quadro del pensiero reazionario, quello che nega l’esistenza dei rapporti di dominio (di genere, razza, classe e così via) e contesta il diritto delle persone oppresse a combatterli.
Buona parte del discorso maschilista si basa su due idee.
La prima è quella del femminismo che avrebbe “esagerato”, che starebbe andando “troppo lontano”, evocando verso di esso lo stesso clima di sospetto e paura che circonda nei media di massa certe scoperte o esperimenti scientifici che sembrano essersi spinti “troppo in là”. In questo caso, il femminismo viene dipinto come frutto “malato” della modernità, una novità da valutare e analizzare con cautela dal punto di vista sociale (partendo dal presupposto che per i maschilisti la società è ovviamente fondata sul patriarcato e sulla centralità del soggetto maschile).
Secondo questo ragionamento distorto, quindi, la possibilità per una donna di decidere autonomamente sulla propria vita non è considerata un diritto in sé, ma viene subordinata al rispetto di valori che vengono presentati come tradizionali e “universali” — mentre sono, al contrario, fondamenti storici di un’oppressione di genere.
La seconda idea fondante della militanza maschilista è esattamente l’oggetto di questo blogpost: la cosiddetta “crisi della mascolinità”, un tema che, facezie su Woody Allen, Aznavour e Battisti a parte, si ripropone ciclicamente ogni volta che il dominio maschile si sente in pericolo.
Dai tempi della Rivoluzione Francese (periodo storico in cui ha iniziato a formarsi quel pensiero politico di rivendicazione femminile che è il preludio del femminismo moderno), libri e saggi sono stati scritti per lamentare la “femminilizzazione” del maschio, la demolizione della sua identità, la ridicolizzazione del suo ruolo tradizionale. Messaggi catastrofisti mai rivelatisi fondati ma che hanno in definitiva l’effetto di giustificare e incentivare forme di violenza e minaccia nei confronti delle donne che scelgono di lottare per la propria libertà.

Questi due temi funzionano (ossia, fanno presa sulle persone) perché si richiamano all’idea di un passato mitico nel quale “le cose funzionavano come dovevano”, e non c’erano problemi. Quello della nostalgia per il passato è un discorso che ha sempre caratterizzato la modernità, ma che oggi, attraverso i social e la possibilità di riviverne alcuni aspetti (attraverso video e foto d’epoca, e attualizzazioni in film e serie tv) ottiene grande risalto.
Questa età dell’oro immaginaria — quella dove tutto era più “vero”: il cibo era più buono, la musica era migliore, i rapporti erano più sinceri, i soldi valevano di più — è tutt’al più frutto di una rimozione collettiva. Gli anni ’80 e ’90, per fare un esempio, sono proprio quelli in cui la democrazia sociale crolla, la politica (sono i tempi dei liberisti Thatcher e Reagan e dell’ascesa televisiva di Berlusconi) inizia sempre più chiaramente a minare gli statuti dei lavoratori, la sanità e l’istruzione pubblica.
Nessuna idealizzazione di “come eravamo” ha senso. Ridiscendendo giù giù nel tempo passato fino alle mitiche famiglie contadine, decine di persone e tre o quattro generazioni sotto lo stesso tetto, non è difficile visualizzare le prepotenze e le umiliazioni che regolavano l’esistenza: “Padre padrone”, libro di Gavino Ledda del 1975 e film dei Taviani di due anni dopo, continuano a testimoniare quanto la nostra idea di libertà individuale discenda dalla rottura netta, irriducibile, con molti di quei vincoli e di quelle soggezioni. Io sono mia, io sono mio (bene, ci voleva, almeno questo l’abbiamo conquistato).
In generale, comunque, non esiste un periodo del passato privo di contraddizioni e conflitti che ne hanno messo in discussione i valori e le gerarchie.
Ma la rimozione è ancora più efficace se riguarda una condizione considerata “naturale” come la sottomissione della donna: diventa quindi ancora più immediato considerare magari il secondo dopoguerra come un periodo in cui “si stava meglio”, anche se lo stupro era ancora considerato reato contro il decoro e non la persona, l’onore era un’attenuante per l’omicidio, e aborto e divorzio erano illegali.
I maschilisti-reazionari, avendo accesso privilegiato a tutte le piattaforme di espressione, dalla televisione alla radio, dai social al cinema, dalla stampa all’editoria, nelle quali occupano posti di dominio sia come dirigenti che come autori, utilizzano questi spazi per lamentarsi della fantomatica dittatura del “politicamente corretto”.
È un inganno: un concetto subdolo messo in piedi per silenziare le lotte dei soggetti oppressi, con un’immagine che riduce le richieste di un linguaggio non discriminatorio a fastidiose ossessioni per il bon ton che minerebbero la libertà di espressione.
Anche in questo caso, si tratta di un rovesciamento della realtà: la “libertà” di usare espressioni violente e minacciose viene messa sullo stesso piano — quando non considerata più importante — del diritto alla sicurezza e all’autodeterminazione delle persone.
QUEL TRAUMA CHIAMATO DESIDERIO
Se c’è una cosa che ci hanno mostrato i dibattiti degli ultimi anni, quelli che girano attorno al #MeToo, è che il desiderio è una forza potente e distruttiva, che le società cercano di incanalare in ogni modo per proteggersi. In particolare, ma non solo, il desiderio sessuale. In un modo o nell’altro è sempre apparso il desiderio — principalmente maschile — il problema centrale con cui ogni società si confronta. Gli Incel fanno passare l’idea che il sesso sia una cosa affatto innocua e banale: lo rivestono di importanza capitale, lo considerano anzi proprio un capitale, e il loro risentimento riguarda il non poterne disporre, da una posizione che è più simile a quella che un tempo era quella delle donne che non quella di un vecchio patriarca. Il quale poteva, volendo, disporre come preferiva degli altri membri della famiglia, e dove le istituzioni morali si reggevano proprio su questo non detto.
L’idea centrale della rivoluzione sessuale degli anni Sessanta/Settanta era che il solo e unico criterio di liceità di una relazione sessuale fosse, secondo una logica contrattualistica, il consenso. Mezzo secolo più tardi, abbiamo spostato la riflessione sugli innumerevoli casi in cui il consenso potrebbe non essere realmente libero — condizione psico-fisica, potere, lavoro, età —. Questa consapevolezza sembra chiudere l’epoca della rivoluzione sessuale in quanto pare reintegrare il desiderio nei cardini di una morale.
Tuttavia, se si fa coincidere al desiderio tout court il desiderio maschile nella sua accezione più violenta o predatoria, questa posizione Incel — o comunque scettica verso la sessualità — e un certo femminismo mainstream molto concentrato sulla denuncia di questa violenza da una posizione vittimista, rivelano di avere paradossalmente qualcosa in comune: condividono l’identificare nel desiderio una minaccia, una causa di ingiustizie e un mezzo per ottenere del potere. Dimenticano entrambi che il fatto che il desiderio possa essere utilizzato per questi fini è legato a un sistema più vasto, in primis economico.

Oggi stiamo vivendo una fase di “correzione” del desiderio, quasi di repressione: e questa è proprio la via sbagliata, che si porta dietro quella nostalgia che trapela dal rimpianto per tempi più “tradizionali”, senza tenere conto di cosa implicava questa tradizione proprio per quei soggetti che si pretende oggi invece di proteggere “contenendo” il desiderio, reprimendolo.
I rapporti extraconiugali erano la prassi per gli uomini nella cosiddetta famiglia tradizionale, e per esempio la pedofilia ha quasi sempre avuto luogo principalmente al suo interno. Quello che ha fatto la rivoluzione sessuale è stato iniziare a parlarne, includendo soggetti che erano esclusi in precedenza nella discussione, che emergevano per la prima volta come voci della sfera pubblica grazie alla loro inclusione nel mondo del lavoro e del consumo.
Il problema con cui le società si confrontano non è un desiderio deterministicamente violento. E non è vero che il desiderio sia per sua natura buono, positivo o progressista, o che sia l’immagine di un qualche eden al quale dovremmo ritornare — non si possono trarre conclusioni generiche in senso antropologico —. Piuttosto, la Storia è fatta di tentativi di organizzare la società in modi più o meno favorevoli alla maggioranza dei suoi individui. La rivoluzione sessuale è stato un passaggio fondamentale nella direzione di venire incontro a queste esigenze individuali: anche grazie a quella fase c’è stato un cambiamento della mentalità che ha portato a conquiste come contraccezione, aborto, divorzio.
Casomai il suo problema è stato di non essere stata abbastanza radicale, e infatti il sistema capitalista è riuscito a sussumere buona parte di questi passi avanti (si pensi all’industria del porno): ma credere che quelle idee fossero intrinsecamente sbagliate è come credere che “l’ipotesi comunista” sia errata o fallimentare in sé perché c’è stato Stalin. Vuol dire fare derivare da una contingenza una necessità, che è una fallacia logica — e peraltro storicamente confutabile.
E dunque: primo, attenzione a non ridurre il desiderio a quello maschile; secondo, attenzione a non ridurre il desiderio maschile alla sua dimensione tirannica; terzo, attenzione a non ridurre la modernizzazione ai suoi soli effetti collaterali.
D’altro canto ogni “apologia del desiderio” non deve dimenticare che quella dimensione tirannica è sempre presente, continuamente riprodotta socialmente, e che in un modo o nell’altro la società è chiamata a regolare i rapporti che riproduce — dal sesso occasionale, nel quale rischiano di collidere ordini morali anche molto diversi, ai contributi previdenziali delle lavoratrici del sesso.
Certo che è presente una dimensione di rischio nel desiderio: esso ha una dimensione che si potrebbe definire conflittuale, più che tirannica, perché coinvolge una negoziazione (sia tra due soggetti che interna al soggetto stesso, con conseguenze non sempre rosee). E sicuramente non bisognerebbe essere contrari a forme di tutela, a patto che non nascondano paternalismo, infantilizzazione dei soggetti e limiti alla loro autodeterminazione.
Anche il maschio, in qualche misura, è vittima
L’identità maschile si è storicamente basata su una serie di rigide norme disciplinari, dal divieto dell’omosessualità (peraltro totalmente contraddittorio — o forse per questo così necessario — in fasi storiche in cui gli unici altri autenticamente pari di un uomo da un punto di vista sociale erano altri uomini) all’incoraggiamento della sua performatività sessuale, fino all’educazione sistematica all’aggressività, alla violenza, etc. Quindi questo fantomatico desiderio maschile è stato il frutto di un condizionamento legato a un’organizzazione sociale, non ha niente di intrinsecamente minaccioso in sé, né è mai stato qualcosa di “troppo libero”, semmai qualcosa di costantemente mutilato.
In un certo senso il maschio è una “tecnologia sociale” sfuggita al controllo, perché alcune delle funzioni per cui è stato progettato risultano, nel contesto attuale, dannose e antisociali. Quindi questa “tecnologia” merita di essere “decostruita” — e la stiamo già decostruendo, risolvendo vecchi problemi e naturalmente creandone di nuovi. È un tema centrale per antropologi e sociologi: che fare con le conseguenze disfunzionali della rivalità reputazionale, che trasforma la società in uno spazio di guerra di tutti contro tutti. Come minimo, siamo costretti a “regolare gli effetti di vecchie regolazioni”. La storia dell’umanità è una estenuante sequenza di problemi e soluzioni che creano nuovi problemi, scorie da smaltire, e forse quella cosa che chiamiamo “maschio” è una di queste.
Permane, certamente, qualche dubbio sulla nostra capacità di controllare e pilotare queste trasformazioni. Inoltre, proprio come non ha senso rimpiangere il passato, non ha nemmeno senso confidare nel futuro: si passa inevitabilmente da una situazione di squilibrio a un’altra, senza nessuna origine a cui far riferimento (il desiderio prima della perversione) né destinazione ideale verso cui tendere (il desiderio dopo la rivoluzione). Se vengono abolite vecchie leggi e aggiornati gli standard morali, non per questo il desiderio viene “liberato”, ma inevitabilmente sottoposto a nuovi vincoli, perché, come dire, senza vincoli è un casino.
Oggi nelle nostre società si testano incessantemente dei nuovi dispositivi di regolazione degli effetti del desiderio, e ciò appare a tutti gli effetti come un “correre ai ripari” rispetto a certe conseguenze impreviste della rivoluzione sessuale. Ma va bene: tutto è in divenire, nessuna sintesi è definitiva, dobbiamo soltanto esserne consapevoli. Nei fatti, il sesso si svolge all’interno di un mosaico di regole divergenti, non condivise, conflittuali, e continuamente oggetto di discussione anche aspra. E quel “trauma chiamato desiderio” impone necessariamente, anche a chi non vuole sentire quella parola, una riflessione sostanzialmente morale.

Veder passare le oche selvatiche
La tematica fondamentale e più sottostimata di tutti i tempi è quella che riguarda i valori e le motivazioni che muovono le persone.
Per una persona come un nostro nonno, per esempio, non è stato il lavoro a dare un senso alla sua vita, ma il senso che lui dava alla vita a giustificare il suo lavoro. Viene difficile scindere la situazione attuale dal declino in atto già da più di un secolo dei valori cristiani, per dire. Questi valori e obblighi morali avevano sicuramente le sembianze di una gabbia, ma avevano allo stesso tempo la funzione di protezione e incubatrice di senso. Per esempio, un uomo nato all’inizio del secolo scorso probabilmente avrebbe trovato nello spezzarsi la schiena lavorando una parte dell’espiazione terrena dei peccati dell’uomo, e nel sacrificio per un bene collettivo terreno e la salvezza spirituale, il vero senso e la motivazione delle sue azioni.
Nel 1969, mentre a Woodstock si teneva un festival musicale impresso nella memoria storica, si era già iniziato a inneggiare all’alba di una nuova epoca priva dei dettami di una società dogmatica e retrograda, fossilizzata in forme vetuste. Si iniziava a uscire in massa dalle gabbie citate prima, ci si liberava dall’alienazione di sistemi oppressivi trasversali. Per quanto si possa sostenere che il Sessantotto sia ormai un periodo consegnato alla Storia, la sua eredità è sottovalutata: alle persone nate dopo è stata data in dono la possibilità di determinarsi come a nessun altro prima. Siamo però così sicuri che questo poter determinare noi stessi sia qualcosa per cui siamo fatti? Non è forse questa libertà solo uno specchio sulla nostra inutilità dentro il gioco dell’esistenza?
In altri termini, il terrore che si prova nell’affacciarsi su questo mondo, troppo grande perché la nostra presenza possa fargli anche solo un po’ di solletico, potrebbe essere la causa scatenante della generale disillusione che le nuove generazioni provano? Si stava meglio dentro gabbie di cui conoscevamo spazi e limiti, sgravati dal fardello di scelte che quando si è troppo liberi hanno un peso capitale?
Ancora più in sintesi: a cosa accidenti serve, tutta questa libertà? Era meglio la vecchia gabbia dalla quale siamo evasi?
Di fronte a questi quesiti enormi (che poi sono gli argomenti cui si aggrappano tutti i sostenitori della falsa narrazione del “prima si stava meglio”) servono prima una piccola grande precisazione, poi una piccola grande risposta.
La precisazione: quella gabbia non era fatta solamente di “valori cristiani”. A formarla era una potente lega di diversi metalli. C’era il patriarcato (molto attivo, e lo vediamo anche nelle civiltà non cristiane); c’era la divisione del lavoro del capitalismo tradizionale, con una distinzione molto nitida tra padrone e operaio, tra comando e obbedienza, tra status quo e rivoluzione; c’era una soggezione molto maggiore (pre-tecnologica) al bisogno, alle malattie, al freddo e alla fame. C’era, certo, il “senso del peccato”, e dunque della colpa, a costruire soggezione — ma, a modo suo, anche significato. La gabbia imprigionava, ma anche sorreggeva. Ci si sentiva dentro un ordine. Ora ci sentiamo dentro un dis-ordine. Tutti, dal venticinquenne al settantacinquenne.
La risposta. Che comincia con una domanda: chi, dentro quella gabbia, ci tornerebbe volentieri? Ovvero, rinunceremmo all’idea (certo, ansiogena) di una libertà quasi illimitata, in favore dell’idea a suo modo rassicurante — ma anche umiliante — di non essere all’altezza di tutta questa libertà?
Il senso è qualcosa che dobbiamo ricostruire: ma non può più essere il senso di prima. Non è neanche così decisivo stabilire se il senso di prima fosse peggiore o migliore: quello che davvero conta è sapere che non funzionerebbe più, perché quella gabbia è scassata per sempre. Per non sentirci sospesi nel nulla dobbiamo ritrovare i limiti e dobbiamo ritrovare i doveri (diritti e doveri sono come lo yin e lo yang). Ma non quelli di ieri: quelli di oggi e di domani.
Non c’è scampo: tocca mettersi all’opera. Magari pensando che se invece che una gabbia fosse un pontile, una struttura aerea che sostiene ma non imprigiona, sarebbe bellissimo. «Si potrebbe tutti insieme star sul ponte a veder passare le oche selvatiche che migrano».

E a proposito di oppressione…
Non contento di aver camminato su un terreno sdrucciolevole come il rapporto fra i due sessi, mi inoltro su un autentico campo minato come il “gender”. Perché accanto agli assestamenti nella “guerra maschio-femmina”, negli ultimi decenni si è prodotta una nuova consapevolezza portando interamente alla luce tutto quello… che “sta in mezzo”. Che già esisteva — è sempre esistito — ma se ne stava quatto quatto nel sottovoce e nel sentito dire, o al massimo su qualche romanzo. E che inevitabilmente è oggetto e discrimine negli argomenti (e, spesso, nella violenza) Woke, Cancel Culture, Politically Correct e quant’altro.
Il fatto è che la maggior parte delle persone si riconosce nelle caratteristiche psicologiche del proprio sesso biologico, ma ci sono molte persone che invece si identificano con l’altro genere, con entrambi i generi o con nessuno dei due.
Identità di genere
È la percezione intima, profonda e soggettiva di sé stessi dal punto di vista sessuale. Molte persone descrivono l’identità di genere come un senso intrinseco e profondamente sentito di essere un ragazzo, un uomo o un maschio; una ragazza, una donna o una femmina; o un genere non binario (per es., genderqueer, gender-nonconforming, gender-neutral, agender, gender-fluid). Anche se statisticamente è più frequente, l’identità di genere può non corrispondere al sesso assegnato alla nascita o ai propri caratteri sessuali. In questi casi si parla di non conformità di genere.
→ L’identità di genere è distinta dall’orientamento sessuale; queste due dimensioni non devono essere confuse. L’identità risponde alla domanda «Chi sono io?», mentre l’orientamento risponde alla domanda «Cosa mi attrae?».
Bisogna sforzarsi di capire che l’identità di genere, il sesso e l’orientamento sessuale sono tre cose diverse.
Quando un bambino nasce gli viene “assegnato” un sesso — maschio, M, o femmina, F — in base ai suoi organi genitali esterni, cioè pene e testicoli da un lato, vulva dall’altro. Un tempo con “sesso” si indicavano anche altre qualità di una persona, attinenti al suo comportamento e non solo alla forma del suo corpo. Poi a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta la ricerca psichiatrica, sociologica e antropologica ha cominciato a usare il termine “genere” per distinguere i due aspetti.
Oggi con la parola “sesso” ci si riferisce esclusivamente all’anatomia di una persona, mentre con “genere” si indica sia la percezione che ciascuno ha di sé in quanto maschio o femmina (cioè l’identità di genere), ma anche il sistema socialmente costruito intorno a quelle stesse identità (cioè il ruolo di genere). Molte persone nascono e crescono in una condizione di discontinuità tra sesso e identità di genere: per esempio ci sono — e ci sono sempre state, sarebbe infantile negarlo — persone che sono anatomicamente donne ma si sentono uomini, oppure né donne né uomini, oppure donne in alcuni periodi e uomini in altri. Per venire incontro ad alcune di queste persone alcuni Paesi hanno introdotto diverse varianti di “terzo genere” per identificare le persone.
Un’altra cosa ancora è l’orientamento sessuale, cioè il tipo di persone da cui una certa persona è sessualmente attratta. Consideriamo per esempio qualcuno attratto esclusivamente da persone che si identificano come uomini: questo non ci dice nulla su quale sia il sesso di questa persona o la sua identità di genere.
Una cosa da tenere presente è che però la visione di sesso, identità di genere e orientamento sessuale non è univoca, anche tra chi giustamente distingue i tre concetti. Si tende ancora a considerare sesso, identità di genere e orientamento sessuale come tre categorie in cui ci sono due opzioni da scegliere, cioè M/F, uomo o donna, “mi piacciono le donne” o “mi piacciono gli uomini”. In realtà le cose sono assai più complicate, secondo numerosi studiosi di varie discipline. Il sistema classificatorio sesso-genere-orientamento sessuale è semplicemente imperfetto, insufficiente e contraddittorio.
Ci sono molte sfumature diverse dell’essere maschi o femmine dal punto di vista biologico (c’entrano i cromosomi sessuali, che non sono sempre e solo XX o XY, gli ormoni, la presenza e la forma dei genitali esterni e interni). Ci sono sfumature anche quando si parla di orientamento sessuale: per esempio, ci sono le persone bisessuali e quelle asessuali, che non provano attrazione sessuale per altri individui pur essendo capaci di innamorarsi e avere delle relazioni. Ci sono anche donne che hanno una relazione con donne transgender non operate e che con le loro compagne hanno rapporti sessuali che prevedono la penetrazione: i termini “lesbica” ed “eterosessuale” sembrano entrambi imperfetti per descrivere l’orientamento sessuale di queste persone.
Per quanto riguarda l’identità di genere le cose sono ancora più complicate, se possibile, visto che il genere non c’entra con l’anatomia. Uno dei mantra più comuni della comunità LGBT è che «il genere è uno spettro», cioè che non esistono solo un genere femminile e un genere maschile, ma uno spettro continuo di generi tra questi due estremi. Non c’è una posizione definita su questo tema da parte della comunità scientifica internazionale, ma la visione dello spettro del genere è sicuramente utile per descrivere le diverse esperienze di moltissime persone che non si riconoscono nell’identità di genere “assegnatagli” alla nascita insieme al sesso anatomico. Ultimamente il concetto di spettro ha cominciato a essere usato anche dai biologi, in riferimento al sesso.
In ambito psichiatrico si è detto per molto tempo che le persone che si identificano in un genere diverso da quello corrispondente al sesso assegnato loro alla nascita soffrissero del “disturbo dell’identità di genere” e che questo fosse un disturbo mentale. Non esistono convenzioni universali sulle definizioni e i sintomi dei disturbi mentali, ma ciò che c’è di più vicino a un testo del genere, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali dell’American Psychiatric Association (in gergo ci si riferisce con la sigla DSM), ha da poco smesso di considerare il “disturbo dell’identità di genere” tra questi. Non usa nemmeno più questo termine: dal 2013 si parla di “disforia di genere”, e l’espressione si usa solo per indicare il disagio sperimentato da alcune persone che non si riconoscono nel sesso dei loro organi genitali.
Ora, non si intende disquisire sulla bontà o meno dell’«ideologia gender», come viene offensivamente e sarcasticamente chiamata. Il punto, anche qui, è come nel caso della “guerra maschi-femmine”, riassumibile con questa battuta:
Ehi, gente, il “problema” esiste; non c’è ancora accordo nel pensiero scientifico, e chissà se mai ci sarà, però in attesa che lo risolviamo non cadiamo nel solito errore dell’oppressione: Identità di genere e Orientamento sessuale non sono “devianze da curare”!
Mappa per orientarsi nella Terra di Mezzo
La tassonomia oggi accettata — e che per delicatezza e rispetto verso il nostro prossimo andrebbe memorizzata (e non si tratta di essere woke o di aderire alla cancel culture) — è la seguente.
Cisgender (“cis”)
Una persona la cui identità di genere è in linea con il sesso assegnato alla nascita, una persona non-TGNC.
Spesso è utilizzato come sinonimo di “eterosessuale”, ma si tratta di un uso errato perché l’identità e l’orientamento sono due dimensioni differenti (per es., un gay che ha sesso biologico maschile e si identifica come uomo è cisgender).
Il termine cisgender indica sia la congruenza tra sesso e identità di genere che tra sesso ed espressione di genere. Questo uso in realtà non è molto preciso, perché una persona cisgender può non riconoscersi nell’espressione di genere (per es., metrosexual, androgini, travestiti).
Binarismo di genere
Il mondo si divide in due: maschi e femmine. O sei l’uno o sei l’altra; o ti piace l’uno o ti piace l’altra. Questa divisione netta in due categorie discrete, basata sul dimorfismo sessuale, si chiama binarismo di genere.
Non binary. Tutto ciò che non rientra nel binarismo di genere viene definito non binary. Viene abbreviato in “enby”.
Genderqueer (queer)
Espressione riferita a quelle persone la cui identità di genere non si conforma alla concezione binaria del genere. Le persone queer possono pensare a sé stessi:
- sia come uomo che come donna: bigender, pangender;
- né come uomo né come donna: agender, genderless, gender neutral, neutrois;
- con un’identità che fluttua tra i generi: genderfluid;
- come un “terzo genere”.
TGNC (Transgender and Gender nonconforming)
L’espressione “non conformità di genere” indica in modo generico tutte quelle persone la cui identità di genere o espressione di genere differisce dalle norme di genere legate al sesso assegnato alla nascita.
→ vedi anche transgender
LGBT+
L’acronimo sta per: Lesbiche, Gay, Bisex (non conformi al genere nella dimensione dell’orientamento) e Trans (non conformi al genere nella dimensione dell’identità). Il segno + indica l’inclusione delle diverse realtà di non conformità di genere. L’accento viene posto soprattutto sulla dimensione dell’orientamento sessuale.
Inizialmente l’acronimo era LGB (Lesbiche, Gay e Bisessuali). A partire dagli anni ’80 si sono aggiunti via via altre iniziali fino ad arrivare a LGBTQ (LGB + transessuali e queer) e a sigle impronunciabili come LGBTAQQI (LGB + transessuali, asessuali, questioning, queer, intersessuali).
Transgender
Termine ombrello che include qualsiasi persona la cui identità di genere e/o espressione di genere non si allinea al sesso assegnato alla nascita. Non tutte le persone TGNC si identificano come “transgender”, sebbene questo termine sia comunemente accettato.
È molto importante utilizzare in modo corretto il genere linguistico. Quando si parla di un transessuale FtM bisogna parlare al maschile («ho incontrato lui e altri suoi amici transessuali», «il mio collega è un transessuale») mentre se ci si riferisce a una MtF si parla al femminile («ho conosciuto una transessuale», «ho visto alcune transessuali che si prostituiscono»). Le persone trans sono molto sensibili al linguaggio, è necessario parlare in modo non superficiale per mostrare rispetto e riconoscimento.
Non necessariamente le persone transgender sono non binarie: alcune si identificano con un genere binario (uomo o donna), altre possono essere gender-fluid, bigender, agender, etc..
Alcune volte le donne transgender (persone a cui è stato assegnato il sesso maschile alla nascita ma che si identificano come donne) e gli uomini transgender (persone a cui è stato assegnato il sesso femminile alla nascita ma che si identificano come uomini) vengono indicati anche con le sigle MtF e FtM generando confusione tra trangender e transessuali.
Trans
È l’abbreviazione sia di transgender, che di transessuale e gender nonconforming. Sebbene non tutte le persone transessuali e gender nonconforming si identifichino come “trans”, questo termine è comunemente accettato.
In Italia il termine “trans” indica quasi esclusivamente la persona che adegua parzialmente o totalmente il fisico all’identità di genere opposta al sesso assegnato alla nascita. Per utilizzare un termine ombrello che includa tutte le persone non cisgender sono preferibili le espressioni “non conformità di genere” o “genderqueer”.
Transessuale
Una persona TGNC che ha apportato o sta apportando cambiamenti al proprio corpo attraverso interventi medici per adeguare l’aspetto fisico e funzionale alla propria identità di genere, diversa dal sesso assegnato alla nascita.
Il processo medico di adeguamento consiste in interventi di tipo ormonale (terapia ormonale sostitutiva con estrogeni ed antiandrogeni per le MtF e testosterone per gli FtM) e/o interventi di tipo estetico-chirurgico (penectomia, orchiectomia e vaginoplastica per le MtF; mastectomia, istero-annessiectomia, falloplastica o metoidioplastica per gli FtM).
Non tutte le persone transessuali si definiscono TGNC, alcune si identificano come maschi o come femmine sia biologicamente che psicologicamente.
- FtM (Female-to-Male). Da donna a uomo. Sono persone a cui è stato assegnato alla nascita il sesso femminile e che hanno cambiato, stanno cambiando o desiderano adeguare il proprio corpo all’identità di genere maschile. Le persone FtM spesso sono anche definite come uomini trans.
- MtF (Male-to-Female). Da uomo a donna. Persone a cui è stato assegnato alla nascita il sesso maschile e che hanno cambiato, stanno cambiando o desiderano adeguare il proprio corpo all’identità di genere femminile. Le persone MtF sono anche definite come donne trans.
Distinzione tra transgender e transessuale
In base alle distinzioni tra sesso e genere illustrate, è sicuramente più facile capire la distinzione tra transessuale e trangender: chi non ha conformità rispetto al sesso è transessuale. Chi non ha conformità rispetto al genere è transgender.
Per i clinici
L’utilizzo del termine “transgender” come visto è molto vario e può riferirsi alla transessualità, al non binarismo, alla non conformità di genere. L’APA raccomanda agli psicologi di assicurarsi, quando redigono un documento, di utilizzare etichette di identità in accordo con le identità dichiarate dalle persone che stanno descrivendo e di definire chiaramente come stanno utilizzando tali etichette all’interno del documento.
Transizione
Il processo di transizione non si riduce all’adeguamento chirurgico del corpo al genere. Primariamente si tratta di un percorso di tipo psicologico, di riconoscimento e accettazione della propria identità e di maturazione del desiderio di conformare il fisico al genere. Durata, scopo e processo di transizione sono peculiari al singolo individuo. Oltre agli aspetti psicologici e anatomici, il percorso di transizione coinvolge la dimensione sociale (per es., coming out, mutamenti nell’espressione e nel ruolo di genere) e la dimensione giuridica (per es., cambio di nome, documentazione fiscale, etc.).
Gender fluid (genere fluido)
Una persona con fluidità di genere rifiuta etichette definitive e percepisce la propria identità e il proprio orientamento in continuo cambiamento tra tutte le possibilità (per es., riguardo all’identità può passare dall’identificarsi come donna all’identificarsi come uomo, come transgender o agender; riguardo all’orientamento può definirsi come etero, bisessuale, transessuale, variando nel tempo).
Agender (senza genere)
Persona che non si riconosce in nessun genere o rifiuta qualsiasi definizione di genere.
Sinonimi: genderless, gender neutral, neutrois, a-gender.
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