«L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia segna una svolta decisiva nella storia europea», ha detto il 1° Marzo 2022 il presidente del Consiglio Mario Draghi introducendo un suo discorso in Senato in cui ha successivamente citato anche lo storico e politologo americano Robert Kagan: «la giungla della storia è tornata».
L’espressione di Kagan utilizzata da Draghi e il riferimento al “ritorno della Storia” potrebbero risultare poco comprensibili senza un richiamo alla letteratura storiografica da cui provengono: il saggio di filosofia politica La fine della Storia, scritto nel 1992 dal celebre politologo americano Francis Fukuyama, e le numerose riflessioni che ha generato nel corso degli ultimi trent’anni. Nel saggio, uscito dopo la caduta del muro di Berlino e preceduto dalla pubblicazione di un breve testo (immagine a destra) sullo stesso tema, Fukuyama formulò un concetto divenuto poi centrale — e molto spesso contestato — in molte analisi della contemporaneità nei Paesi occidentali.
L’invasione dell’Ucraina è in questi giorni trattata da molti teorici e analisti politici come il più recente, e per certi aspetti il più clamoroso e problematico, di una serie di eventi storici che nel corso degli ultimi trent’anni hanno smentito o quantomeno ridimensionato le tesi di Fukuyama, rivelando limiti e contraddizioni del concetto di fine della Storia. Le guerre nei Balcani, l’attacco terroristico dell’11 settembre alle Torri Gemelle, la successiva guerra in Iraq e quella in Afghanistan, conclusa con il caotico e criticato ritiro delle truppe americane nel settembre 2021, sono prove irrefutabili di insensibilità e resistenza di estese parti del mondo alla diffusione della democrazia liberale.
Finiscono nelle strade di Kiev i trent’anni a cui non abbiamo dato nemmeno un nome, perché li abbiamo vissuti nella convinzione che non fossero un’epoca a sé stante ma coincidessero con il destino del secolo finalmente risolto, in un’Europa convertita definitivamente alla pace dopo la sconfitta dei due totalitarismi e la fine della Guerra Fredda. Oggi possiamo battezzarli come i tre decenni dell’illusione.
La caduta del Muro di Berlino abbatteva la vera frontiera del Novecento e anche l’idea primitiva ma tenace che la pietra e il filo spinato potessero segnare l’inizio e la fine di due mondi antagonisti, l’Est e l’Ovest; divelta quella pietra angolare, che sorreggeva l’intera corazza ideologica del comunismo fatto Stato e trasformato in impero, tutta la costruzione del socialismo reale è crollata e i popoli satelliti hanno ripreso la loro libertà; infine l’onda di un’Europa ritrovata è arrivata a Mosca cancellando l’Unione Sovietica, mentre la bandiera rossa scendeva per sempre dalla cupola del Cremlino e la mummia eterna di Lenin sulla piazza Rossa tornava uomo. Lo sconvolgimento politico e culturale aveva un vincitore apparente: la democrazia liberale, unica credenza sopravvissuta tra le polveri del Novecento, dunque con la legittima ambizione che la nuova èra di pace la rendesse universale.
L’invasione e la guerra ucraina aprono scenari di lunghissimo termine per la geopolitica e spazzano via un trentennio di assurde narrazioni in Occidente e in particolar modo in Italia. Trent’anni segnati da movimenti politici improvvisati, privi di ogni aggancio storico e culturale e sostanzialmente incapaci non tanto di governare, che è un traguardo improponibile per Lega e 5 Stelle, ma anche solo di partecipare in modo adeguato al semplice dibattito in corso.
Alcuni rilevanti cambiamenti sono ormai già evidenti.
È acclarato che la Russia — peraltro militarmente poco pericolosa, alla luce di quanto si è potuto vedere —, e soprattutto la Cina, vedono l’Occidente come un nemico storico, da contrastare in ottica di rapporti di forza per ottenere l’egemonia economica e militare sul resto del mondo.
Difficile intuire cosa significhi veramente “egemonia” nel XXI Secolo. Come dimostrato acutamente in numerosi saggi, oggi la conquista o l’egemonia su un territorio, quando il mondo è determinato da un’economia mobile e focalizzata sui servizi, significa veramente poco o nulla se non è condivisa dalla popolazione. Nulla però potrà cancellare agli occidentali la memoria di questa barbarie, insieme con la presa di coscienza delle aspirazioni egemoniche di Russia e Cina, dopo che per anni i cantori dell’imperialismo americano e di altre facezie nostrane avevano distratto l’opinione pubblica dalle mosse già molto evidenti dei sistemi geopolitici a noi ostili.
A chi va dicendo inopinatamente «né con la Nato né con Putin» si contrappone il buonsenso generale che vede nella Nato l’unica, fondamentale, preziosa difesa da Putin (benché lontana dalla Cina). E più gli sciagurati eredi del comunismo de noantri continueranno a esprimere opinioni tanto dissennate, più avveleneranno i pozzi dei loro stessi alleati politici interni.
Ci sarà da ridere a vedere le contorsioni del Partito Democratico quando, in una competizione elettorale, dovrà correre con alleati come Articolo 1 o altri partiti di estrema sinistra. Verrà facilmente attaccato e spiazzato da chi farà notare che essere al governo con chi dice «né con la Nato né con Putin» rappresenta una posizione che, nel nuovo mondo, è estremamente pericolosa: apre una falla in cui la Russia potrebbe tentare di inserirsi.
Ne consegue che presso una larghissima maggioranza di italiani la linea di politica estera europeista, atlantista e con la Nato non è più in discussione nemmeno per lontana ipotesi. Di Battista, Bersani, Fratoianni, Landini e compagnia sono, politicamente, come la peste. Chi li tocca muore (sempre politicamente) all’istante, in forza di ragioni evidenti anche all’opinione pubblica meno informata. Rimarranno come novelli Bertinotti, con un consenso sempre inferiore al cinque per cento e nessun peso politico sostanziale.
È ormai evidente che la transizione ecologica vada affrontata con gradualismo e intelligenza. Per prima cosa bisogna uscire dalle importazioni di petrolio e gas dalla Russia, e serviranno realisticamente due o tre anni e molti soldi. Spariscono spazzati via come la neve ad aprile i dibattiti su trivelle, gasdotti, TAP e quant’altro, dimostrando anche qui plasticamente quanto fossero in passato ridicoli e infondati. A valle di questo obiettivo, ci si dovrà porre il tema dei costi e dei benefici della transizione ecologica.
Improvvisamente i tempi diventeranno parte integrante del dibattito, perché banalmente non avremo abbastanza soldi per gettare miliardi di euro in obiettivi forse anche necessari, ma conseguibili soltanto grazie alle risorse generate dall’economia — la quale economia non può essere strozzata indefinitamente da costi energetici esorbitanti, pena il non raggiungimento degli obiettivi stessi di taglio alle emissioni per mancanza di risorse. Saremo tutti per una volta acutamente consapevoli che il welfare, la transizione ecologica, la sanità dipendono dallo sviluppo economico e non sono diritti acquisiti atavicamente dalle opulente società occidentali, come qualcuno ha voluto inopinatamente fare credere per mero populismo elettorale.
Per una strana ma efficace eterogenesi dei fini, questa esplosione dei prezzi dell’energia rende palese quanto dobbiamo essere attenti al tema dei costi dell’energia stessa, e quanto sia assurdo perseguire obiettivi manichei in un contesto di guerra militare ed economica nel pianeta. È una grandissima sveglia collettiva, dopo che per anni si è discusso tanto di emissioni e mai dei costi di contenimento delle emissioni, come se la questione delle risorse da impiegare per raggiungere questi obiettivi, sacrosanti in sé ma per nulla ovvi sull’asse dei tempi, fosse scontato e indifferente.
D’ora in avanti
Da adesso in poi tempi e costi saranno “front and center”, come dicono gli anglosassoni.
In generale avremo un tasso di inflazione molto più alto di quello vissuto negli ultimi 30 anni e più a lungo, a causa di un generale aumento delle materie prime (in alcuni casi come l’energia o il nickel si tratta di un’esplosione più che un aumento) e per la necessità di assicurarsi fonti di approvvigionamento su tutte le commodity (e non solo) protette dalle azioni geopolitiche aggressive di Russia e Cina. Saremo disposti a pagare un prezzo più alto pur di non essere ricattabili, perché abbiamo ben capito che Russia e Cina sono pronte a sfruttare, in modo cinico e indiscriminato, qualsiasi possibilità di ricatto nei nostri confronti. È la fine definitiva del processo di globalizzazione iniziato con la caduta del muro di Berlino nel 1989 e con la rivoluzione del ruolo cinese nel mondo, postulata da Deng Xiao Ping più o meno negli stessi anni.
Le implicazioni in casa nostra sono pesanti: calerà il potere di acquisto e, soprattutto, verrà intaccato il welfare così come lo conosciamo. Difficilmente le pensioni italiane, le più generose e meno sostenibili in Europa, verranno adeguate al 100% del tasso di inflazione, specie nelle fasce di prestazione più elevate. Si realizzerà in modo traumatico un aggiustamento necessario del massiccio trasferimento intergenerazionale in essere. Anche qui, una straordinaria eterogenesi dei fini: per difendere i giovani, costantemente calpestati nei loro sacrosanti diritti da partiti politici, sindacati miopi o interessati, governi per lo più orientati a sinistra per decenni, interviene in via indiretta ma abbastanza evidente la guerra scatenata da Putin e la reazione della Cina, cioè l’opposto di quel neoliberismo che veniva accusato di strozzare il welfare con le regole di Maastricht. Una cosa straordinaria e assolutamente imprevedibile.
Russia e Cina sono i nostri dichiarati nemici. La Russia sprofonda nella triste a impossibile autarchia dell’Unione Sovietica (ammesso che regga a lungo, e ci sono seri dubbi che possa succedere) mentre la Cina è totalmente smascherata nel suo disegno di egemonia mondiale, anche presso coloro che pretendevano non fosse vero, tra cui Di Maio/Grillo (per ignoranza) e D’Alema (per interesse e ideologia). Se per la Russia la scelta sarà tra diventare il vassallo, nemmeno troppo ascoltato, della Cina — a cui dovrà portare in dote materie prime e testate nucleari per poi essere abbandonato alla triste sorte dell’attuale Bielorussia, con un tenore di vita da terzo mondo — e, in alternativa, rovesciare il regime e praticare una rapidissima inversione a U diretta nel campo occidentale, la Cina invece avrà tempo, risorse economiche, potenza militare e soprattutto popolazione per ampliare il suo disegno per molti anni.
La Russia ha un PIL ante sanzioni (e quasi certo crollo) di circa 1,6 trilioni di dollari contro i circa 50 trilioni dell’occidente allargato. Non può competere, anche tenendo conto che rapidamente le materie prime, unica fonte di sostentamento di un economia che (dopo 70 anni di cura comunista) risulta ancora estremamente arretrata a livello industriale, avranno un unico acquirente, cioè la Cina. La quale in breve lo farà pesare. Per i sostenitori di Vladimir Purin è un triste destino: cercano il loro spazio nella Storia e nell’egemonia del mondo e si troveranno a essere non solo vassalli, ma anche vessati mercantilmente da chi oggi li incoraggia a suicidarsi.
La Cina ha un PIL di circa 15 trilioni di dollari, è in rapido sviluppo, si trova nella zona più popolata e dinamica del pianeta e riesce a coniugare crescita economica e dittatura politica in modo unico. Sarà un avversario temibile e difficile da gestire. In entrambi i casi (Cina e Russia), la dittatura consente asimmetria informativa e scarso scrutinio delle decisioni del governo da parte della popolazione, che non ha voce democratica. Questo è un vantaggio non indifferente rispetto al mondo occidentale, dove ogni decisione politica è soggetta a scrutinio, critica e ovviamente al vaglio della popolazione. Un vantaggio che nel tempo però diventerà sempre più difficile da difendere, in un mondo in cui Putin è costretto a chiudere tutto per evitare che il suo popolo sappia anche solo cosa sta facendo e a raccontare pietose menzogne per coprire i suoi crimini di guerra.
Il costo della disinformazione cresce e la possibilità di riuscita della propaganda si abbassa nel tempo, così come il valore del nazionalismo. Il punto di partenza però non è incoraggiante, visto che in Cina il nazionalismo è molto acuto e la prospettiva di una svolta democratica lontanissima. La Russia è iper-nazionalista, ma il suo destino è segnato senza appello. In tre-cinque anni conterà pochissimo nello scacchiere globale.
Last but not least, si assisterà a una dislocazione di capitale, ricchezza e potere senza precedenti. È prevedibile, o meglio evidente, che i detentori di bond vengano ancora di più tassati dall’inflazione a vantaggio dei detentori di attività reali come azioni e immobili, a maggior ragione in un contesto di recessione e inflazione, che forzerà i governi e le banche centrali (i cui responsabili vengono nominati dai governi) a essere molto espansivi e con tassi di interesse molto bassi.
La cosiddetta “repressione finanziaria”, cioè tassi reali negativi, resterà con noi non solo nel periodo post-Covid, ma ancora a lungo, mentre il controllo dell’inflazione derivante dalle materie prime e dalla fine della globalizzazione sarà per tutti un obiettivo meno stringente rispetto allo sviluppo economico e al controllo della disoccupazione. Quindi assisteremo a volatilità enorme (in questi giorni un crollo o un rimbalzo del 3 per cento nei prezzi delle azioni è visto con indifferenza mentre tre settimane fa faceva prima pagina dei giornali), ma anche a un trend di lungo periodo di penalizzazione dei bond a vantaggio di equity e immobili, dopo che negli ultimi 30 anni era successo l’opposto (con l’eccezione della bolla delle azioni tecnologiche, biotech e dei grandi vincitori della transizione digitale).
In parole poverissime: si tenderà a premiare la produzione reale e non la finanza.
Oltre che nelle asset class, l’inflazione determinerà la gestione del trasferimento intergenerazionale come conseguenza indiretta, ma evidente soprattutto in Europa e in Italia in modo plateale. Ciò che per decenni non si è mai voluto vedere diventerà inesorabilmente necessario. Non potremo in nessun modo, come già detto, adeguare le pensioni, soprattutto quelle di importo appena medio-alto, al 100 per cento dell’inflazione, pena l’insostenibilità del nostro sistema economico: si farà allora per forza quanto si sarebbe dovuto fare in modo attento e programmato negli ultimi 30 anni. Ridurre è impossibile, ma aumentare poco o nulla è facile e in un contesto di inflazione elevata si tratta di una forte riduzione in termini reali. Sarà doloroso e ci saranno tensioni anche forti, ma l’esito finale è già scritto. E forse è anche giusto così.
Per contro, il lavoro protetto dal calo demografico, che è anch’esso destinato a mordere molto più di quanto si pensi nei prossimi 10 anni, verrà premiato probabilmente anche sopra il tasso di inflazione. La mancanza di lavoro qualificato e necessario, insieme alla drammatica e decennale sottovalutazione delle competenze richieste rispetto a quelle ridondanti, fa sì che le professioni più richieste (data scientist, data analyst, in generale gestione di processi complessi, ma anche badanti e personale medico/infermieristico) saranno remunerate molto bene e protette dall’inflazione, a danno di altre professioni, meno necessarie e purtroppo in Italia diffuse solo per la protezione quasi incomprensibile operata dai sindacati della scuola di ruoli obsoleti e senza alcun valore per gli stessi studenti. Anche qui, le inesorabili leggi dell’innovazione e della domanda/offerta in un contesto di straordinario cambiamento tecnologico fanno giustizia sommaria di una retorica antica e negativa per i fruitori stessi dell’istruzione secondaria.
Per fortuna il lavoro qualificato avrà finalmente forte premio sui fruitori di rendita che non lavorano e spesso sono troppo pigri o incapaci di “conoscere”; questi ultimi vedranno il proprio patrimonio erodersi inesorabilmente, forse anche rapidamente senza potersi molto difendere. Anche qui una auspicabile e fin troppo attesa rivincita, o meglio redistribuzione della ricchezza, del lavoro sul capitale improduttivo, non per merito di Karl Marx e dei suoi epigoni, e nemmeno per improbabili tasse patrimoniali auspicate senza conoscerne il funzionamento e gli effetti, ma all’opposto per merito delle forze globali e del mercato che viene ancora additato come massimo responsabile negativo di ogni nefandezza sociale.
Il XXI Secolo si farà beffe di chi non ha capito che il mondo va velocissimo e con questa rivoluzione geopolitica trascina nell’oblio i miti populistici di chi non voleva vedere il cambiamento, e ha dispensato false sicurezze scambiando voti con promesse da mercante. È come mettere un dito sulla diga che si è rotta. L’ha rotta Putin con le sue bombe, ma adesso non si ripara più e inizia l’inondazione.
Soprattutto saranno profondissimi e duraturi gli effetti sulla nostra società, in cui media, sindacati e partiti hanno per decenni nascosto la triste ancorché sgradevole verità: serve creare ricchezza prima di redistribuirla, l’indebitamento dello Stato deve avere un limite e la spesa pubblica improduttiva e clientelare (di cui abbiamo recentemente creato i campioni dell’assurdo con cashback, reddito di cittadinanza e bonus 110% tutti fortemente voluti dai 5 Stelle) va criticata con forza.
Tanto per cominciare, tra meno di otto mesi si è ufficialmente in campagna elettorale. L’attuale governo avrà molte difficolta a gestire la prossima finanziaria pre-elettorale e si troverà sul tavolo l’enorme grana della politica dei redditi in epoca fortemente inflattiva. Ignazio Visco ha gia detto la sua opinione, secondo la classica teoria monetaria, per la quale lo shock inflattivo da materie prime non deve trasmettersi a salari/stipendi e tanto meno pensioni, ma in un anno elettorale la voce e le idee di Visco (che Draghi peraltro sa leggere benissimo nello stesso modo) saranno pressoché irrilevanti, come lo furono per anni quelle dei nostri ottimi governatori della Banca d’Italia, che al 31 maggio ogni anno lanciavano anatemi sulla produttività, sulla spesa pubblica e sulle pensioni per raccogliere vaghi applausi di circostanza e nulla più da quasi tutti i partiti.
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