«L’hanno detto in TV» è diventato «L’ho letto su Internet»

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«Le mascherine rilasciano sostanze tossiche quando si bagnano».
«Ma chi l’ha detta, ’sta cosa? È una scemenza».
«L’ho letto su Internet, guarda qui».
«Da quando leggi Libero e Il Giornale?! Tu, che sei pure di sinistra…»
«Che ne so, io, se è Libero e Il Giornale. Queste notizie me le mostra Google, o le vedo su Facebook: io la mattina apro il cellulare, clicco Google e lui mi dà le notizie».

Scambio illuminante su come circolano le bufale in Italia: non siamo in grado di riconoscere un URL, né di distinguere un sito web da un altro; ignoriamo il fatto che se cliccheremo una volta su un contenuto proposto da Google News o condiviso da un contatto su Facebook, la volta successiva gli algoritmi tenderanno a proporci più contenuti simili, in un processo esponenziale che via via, senza che ce ne accorgiamo, ci richiuderà in una certa bolla informativa.
«L’ho letto su Internet»: e tanto basta. Come se questa “signora internet” fosse un’accademica della Treccani o un’altra autorevole e suprema fonte di conoscenza, da accogliere senza se e senza ma. È un processo affatto nuovo, e che una volta riguardava la televisione.

Questa prolusione serve a introdurre argomenti che ho già affrontato sul blog (per esempio qui e qui), ma che mi urge riesporre — andando se possibile ancor più in profondità — perché sono convinto stiano causando il declino della società in cui viviamo.

La settimana scorsa una estesa ricerca del Censis sullo “stato del Paese” ha dato a molti commentatori sui giornali e sui social network un appetitoso argomento: il dato sulla quota di “matti” che l’Italia ospita nel 2021, ovvero quelli che credono a complotti e ipotesi balzane (per esempio: “il 5,8% è convinto che la Terra sia piatta”) e che con distacco scientifico e fenomenologico il Censis ha chiamato “La società dell’irrazionale”.

“L’irrazionale ha infiltrato il tessuto sociale. Per il 5,9% degli italiani (circa 3 milioni) Covid non esiste, per il 10,9% il vaccino è inutile. Per il 10% l’uomo non è mai sbarcato sulla Luna, per il 19,9% il 5G è uno strumento sofisticato per controllare le persone […] Accanto alla maggioranza ragionevole e saggia si leva un’onda di irrazionalità”, si osserva nel rapporto, che vi legge “la spia di qualcosa di più profondo: le aspettative soggettive tradite provocano la fuga nel pensiero magico”.

Per il 31,4% il vaccino è un farmaco sperimentale e le persone che si vaccinano “fanno da cavie”. Per il 12,7% la scienza produce “più danni che benefici”. Si osserva una irragionevole disponibilità a credere a superstizioni premoderne, pregiudizi antiscientifici, teorie infondate e speculazioni complottiste. Dalle tecno-fobie al negazionismo storico-scientifico, fino alla teoria cospirazionistica del “gran rimpiazzamento” che ha contagiato il 39,9% (due su cinque!) degli italiani, certi del pericolo della sostituzione etnica.

“L’irrazionale ha infiltrato il tessuto sociale, sia le posizioni scettiche individuali, sia i movimenti di protesta che quest’anno hanno infiammato le piazze, e si ritaglia uno spazio non modesto nel discorso pubblico, conquistando i vertici dei trending topic nei social network, scalando le classifiche di vendita dei libri, occupando le ribalte televisive”, osserva ancora il rapporto.
“L’irrazionale che oggi si manifesta nella nostra società non è semplicemente una distorsione legata alla pandemia, ma ha radici socio-economiche profonde” e “dipende dal fatto che siamo entrati nel ciclo dei rendimenti decrescenti degli investimenti sociali” e “la fuga nell’irrazionale è l’esito di aspettative soggettive insoddisfatte”.

Le nostre fonti di informazione, anno domini 2021

Questo è un Paese in cui le persone si informano ancora in maggior parte dalla televisione, e in cui la gran parte delle informazioni diffuse dalla televisione e dagli stessi social network nasce nelle redazioni giornalistiche e sui quotidiani del mattino, che sono “comprati” sempre meno, ma molto letti e redistribuiti dai mezzi suddetti (quando dicono «la gente si informa su Facebook e non sui giornali», di cosa parliamo? Non è che le notizie gliele scriva Zuckerberg). Questo è un Paese in cui le trasmissioni di prima serata sono parte integrante della “società dell’irrazionale”. E in cui un’edizione veneta del maggior quotidiano nazionale spiega ai lettori (vd. foto qui sotto) un esorcismo e i suoi risultati con lo stesso approccio con cui si spiegherebbe il risultato di una sperimentazione clinica approvata dall’AIFA.

Vien quasi da ringraziare il cielo, che i terrapiattisti italiani siano SOLTANTO il 5,8%.

Ora, è innegabile che Internet e i social media abbiano spazzato via gli spettatori televisivi e i lettori di giornali, però la luce azzurrina resta accesa ugualmente in milioni di case. E oggi abbiamo non più i soliti 7/8 canali nazionali “generalisti” ma centinaia e centinaia di canali d’ogni tipo. E può facilmente capitare di vederne uno occupato giorno e notte da un non medico che vende ricette miracolose a platee osannanti, intervistato sempre dallo stesso falso giornalista.
Ma il grande problema sono i talk show. E la “par condicio”.

«L’anti-intellettualismo si è insinuato come una traccia costante nella nostra vita politica e culturale, alimentato dal falso concetto che democrazia significhi “la mia ignoranza vale quanto la tua conoscenza”». (Isaac Asimov, 1980, su Newsweek con notevole preveggenza…)

Il criterio della “par condicio” è il frutto avvelenato dell’epoca in cui un certo tycoon entrò in politica e per di più diventò Presidente del Consiglio, per cui l’informazione TV fece filotto: non 3 (le sue) ma 6 reti a rischio pensiero unico.
Tuttavia utilizzare il bilancino della par condicio in materia vaccinale è qualcosa di irresponsabile.
Finché si parla di argomenti vari e avariati — Silvio Berlusconi al Quirinale, Matteo Salvini che chiede in TV cose che non ha chiesto in Consiglio dei ministri, Giuseppe Conte che racconta banalità non avendo avuto (nella vita) tempo per prepararsi — la cosa male non fa, o meglio ne fa poco. Ma confondere le idee alla casalinga di Voghera su vaccino sì e vaccino no, qualche ricaduta di valore generale ce l’ha.

Da noi, quella “par condicio” degli anni ’90 destinata ad arginare Berlusconi è rimasta nell’aria, come un droplet, e ha infettato abitudini, pigrizie e convenienze.
Non c’è la sana gioia, in campagna elettorale, di assistere a un bel confronto senza veli tra Renzi e Conte, o tra Salvini e Meloni. Un doppio podio per dirsi tutto quello che serve a capire. No, ci vuole sempre un palco capace di ospitare per lunghezza il Bucintoro, e tutti lì a dire qualcosa prima del gong. Meno di cinquanta secondi di slogan sbocconcellati e sotto a un altro. Cose inguardabili.

PAR CONDICIO: SCIENZIATI E COSPIRAZIONISTI SULLO STESSO PIANO

Non si può comunque applicare questo stesso metodo quando si parla di vaccini. È materia delicata, è facile disorientare e confondere. Il telespettatore ha davanti qualcosa che viene celebrato, con pari forza e convinzione, da chi dice una cosa e da chi dice il suo contrario. Ha allora tutto il diritto di pensare che il valore è equivalente ed è umano, fortemente in linea con il mezzo TV, che possa essere attratto dal più bravo nello storytelling o nella violenza verbale.

Il conduttore, cui spetterebbe il compito di mediare, pensa invece che la rissa equivalga a picchi di audience e lascia fare, anzi gira la manopola, il regista inquadra in modo da poter montare mezzo schermo per ciascuno dei due contendenti, e dal divano vedi e senti la materializzazione di un confronto plasticamente alla pari.

Perfetti sconosciuti, personaggi improbabili senza un palcoscenico, portatori di pensieri deboli, votati poi da migliaia di telespettatori/elettori entusiasti perché trasformati da zucche in carrozze.
Un metodo di successo, che però assume connotati inquietanti quando si dà spazio a un monsignor Viganò che teorizza lo sterminio di massa per propiziare la vaccinazione di massa.

C’è gente che sul divano fa zapping, o dorme e si sveglia di colpo, che ha già tanti dubbi. Vede un monsignore, o un professore, o l’inventore di Pubblicità Progresso che spiegano che il vaccino è “sperimentale” (nonostante già 3 miliardi di cavie), e si mette in allarme. Naturale che poi non abbia molta voglia di farsi pizzicare il braccio.

Il complottismo, il disprezzo per i fatti, per la scienza, per la preparazione, persino per i congiuntivi, ha affascinato e sedotto, almeno per un attimo (ma era un attimo importante, quello del voto), un italiano su tre. È andata male. La macchina dell’odio ha mischiato tutto e restituito molta pericolosa delusione.

PERCHÉ IL COMPLOTTISMO

Il macrofenomeno da tenere d’occhio, qui, è un altro rispetto alle solite e importanti dinamiche di classe ed economiche: ovvero la mutata percezione di obiettivi, successi e fallimenti personali, e i mutati modi di sentirsi in competizione con gli altri e col mondo.

La sensazione — forte, fortissima — è che tutte queste ideologie “no-qualcosa” (no-Mask, no-Lockdown, no-Vax, no-Dad, no-Tav, no-Ponte, etc) siano l’aleatorio risultato di un bisogno di esistere individualmente, di un percorso personale che fino a pochi anni fa ciascun “no-X” non avrebbe vissuto con altrettanto disagio, e che non avrebbe reperito altrettante occasioni di sfogo.
Contenuti e idee non contano: quello che conta è che contenuti e idee offrano un ottimo modo per esprimere astio e frustrazione da una parte, e ostentazione di sé, opportunità di “esistere” (anche allo specchio) dall’altra.

Le persone sono state educate dall’evoluzione tecnologica e dalla comunicazione ad avere necessità molto maggiori di affermazione di sé, molti più strumenti per cercare di soddisfarle, e molte più frustrazioni per il non riuscirvi mai abbastanza.
Ci siamo convinti di meritare di più, di poter conquistare di più, e di dover incolpare qualcun altro se non ci riusciamo.

Ci hanno convinti prima la televisione, e oggi (soprattutto) Internet. Quella Internet+TV in palmo di mano che sono gli smartphone.

E in aggiunta Internet ci ha anche dato gli strumenti che ci hanno illuso di poterlo ottenere, quel di più. La famosa e giustamente ammirata “libertà di internet”, l’accesso per tutti a mille cose prima impossibili, ci ha abituati a pensare che tutto ci sia accessibile: con un malinteso senso di eguaglianza che annulla ogni forma di “merito” o qualità, un malinteso egualitarismo che invece di chiedere che tutti comincino la gara a pari condizioni, vuole che a pari condizioni restino tutta la gara e a pari condizioni la finiscano. («La mia ignoranza vale quanto la tua conoscenza», appunto.)

Un senso di competizione perpetua che converte in privilegio ogni successo altrui e in ingiustizia ogni fallimento nostro. Il tutto innescato dapprincipio da una colossale quantità di reali privilegi e reali ingiustizie, ma poi manifestatosi e diffusosi con veemenza fino a diventare lettura del mondo, della vita, della realtà. «Qualcuno sta cercando di fregarci».
Il risultato è un permanente mix di disillusione, depressione e/o incazzatura.

Tutto questo è un ubertoso terreno di coltura per il cospirazionismo. Nemmeno tanto sorprendente, alla luce del crescente deficit di strumenti culturali (usciamo da scuola ignoranti come capre, e per il resto della vita non leggiamo nemmeno un libro).

Se come Paese siamo arrivati all’attuale livello infimo in cui fatichiamo a galleggiare, in campo politico, sociale, culturale, lo dobbiamo anche alla inadeguatezza della nostra informazione. Che, unita all’analfabetismo funzionale e all’ignoranza generalizzata (e scientemente pianificata per trasformare un popolo da insieme di cittadini a insieme di consumatori), costituisce un mix micidiale per le speranze sul futuro dell’Italia.

Redazioni abituate a usare con leggerezza fonti inaffidabili e screditate e a privilegiare i titoli allarmanti e divisivi sull’interesse a capire se le cose siano vere o false, dànno enorme spazio alla versione di un fatto falsa e questo genera giudizi, indignazioni, preoccupazioni, prese di posizione su temi anche di grandissimo rilievo etico, culturale e politico.

https://twitter.com/ilMangla/status/1303378965034303489

TRENT’ANNI DI DECADENZA

I media del Belpaese, in decenni di racconto personalizzato e drammatizzato, hanno trasmesso una rappresentazione della politica nella quale esistono soltanto buoni e cattivi, vincitori e perdenti. E con il loro linguaggio semplificato, sincopato e aggressivo hanno alimentato uno standard comunicativo al quale i leader politici si sono allineati. Con un effetto paradossale: i personaggi emersi negli ultimi anni (da Di Pietro e Orlando a Grillo e Meloni) hanno fatto propria l’indignazione e il linguaggio dei media e al tempo stesso ne sono un prodotto. In una sorta di simbiosi. Se la forma del comunicare politico oramai è importante almeno quanto il contenuto, la “colpa” non è dei media, ma una loro responsabilità oggettiva è agli atti.

Ripercorrendo gli ultimi trent’anni di politica italiana si scoprirà che l’escalation dei principali leader, da Berlusconi a Salvini, passando per Renzi e Di Maio, è stata preceduta e preparata da una formidabile semina mediatica. Sul declinare della Prima Repubblica, Michele Santoro fece da battistrada e aprì una lunga striscia di imitatori: talk show quasi tutti privi di contraddittori significativi, ma soprattutto impregnati dallo stesso mood, indignato e vittimista. Sempre all’inizio degli anni Novanta, L’Indipendente di Vittorio Feltri, col suo linguaggio pop, divenne l’apripista di un giornalismo gridato, al quale alla lunga si sono allineati anche i politici. E quanto ai principali giornali, anni e anni di “retroscena” sanamente ficcanaso — ma talora apocrifi — hanno contribuito a sdoganare la categoria del verosimile: una terra di nessuno nella quale i leader si sono trovati a proprio agio.

Subito dopo Tangentopoli in televisione si produce un fenomeno originale, una clamorosa nemesi della quale sul momento nessuno si accorge: Politica e Antipolitica iniziano a fare spettacolo. E questo porta alla più massiccia invasione di politici sullo scenario televisivo mai avvenuta in una democrazia occidentale. Mentre nel 1990 le puntate di talk erano state 861, nel 2000 raddoppiano e nel 2010 risultano quasi triplicate. A dispetto della nobile tradizione RAI — che a partire dalla Tv7 di Sergio Zavoli aveva prodotto informazione di ottimo livello —, a tutte le ore dilagano soltanto talk show nel segno del battibecco. La pigrizia nell’affrontare con approccio giornalistico temi anche spinosi e impietosi per la classe dirigente e la scelta di puntare sulla drammatizzazione sempre e comunque, finiscono per aiutare un fenomeno che in Italia ha una potenza sconosciuta altrove: i principali problemi sociali sono percepiti in termini assai più drammatici rispetto al loro reale manifestarsi.

Solo in Italia, tra i maggiori Paesi del continente, la comunicazione politica e la discussione pubblica che si svolgono in TV hanno come regola interventi non più lunghi di 45 secondi in uno studio con anche cinque o sei persone, che parlano contemporaneamente tra gli incongrui battimani di un pubblico che applaude qualsiasi cosa. Un format che dura da anni e il cui effetto finale è una scuola che, aggiungendosi all’aria dei tempi, invita irresistibilmente a comunicare soprattutto attraverso la frase a effetto non più lunga di due righe, attraverso lo slogan incisivo, la battuta. La quale genera fiducia assai più nel potere della parola e dell’apparire, che non in quello del pensiero.

Tutto questo si è riversato dai quaranta pollici dello schermone in salotto, acceso soltanto per due o tre ore, ai sette pollici dello schermino che oggi teniamo in mano per più di 18 ore.

Con una ricerca di qualche anno fa, Google ha determinato l’algoritmo della nostra attenzione: il tempo massimo di concentrazione di un millennial è di 9 secondi. Un secondo in più di un pesce rosso.
Il “mercato dell’attenzione” è un concetto, economico e semplice, nato negli anni ’20 del Novecento negli Stati Uniti, nel periodo in cui si sviluppavano i media audiovisivi, secondo il quale alcuni media vivono grazie alla pubblicità e per questo hanno bisogno di captare il tempo dell’attenzione delle persone, il “tempo di cervello umano disponibile”.

Ora assistiamo all’impressionante deriva del modello economico dell’attenzione, con l’imporsi delle grandi piattaforme social, finanziate dalla pubblicità.
Questa mutazione ha provocato gravi problemi individuali, in particolare problemi dell’attenzione e psicologici, ma anche collettivi. Non solo. Sta cambiando la natura dello spazio pubblico: si sono imposti una POLARIZZAZIONE dei dibattiti pubblici e il dominio del regno dell’emozione nella nostra vita cognitiva e sociale.

Il mercato dell’attenzione non è un’invenzione dei giganti del web: prima che arrivassero Google & co. si cercava di (in)trattenere le persone di fronte alla TV il più possibile per vendere loro pubblicità. Al tempo del digitale, però, è invece tutto più semplice, illimitato, perché siamo tutti connessi permanentemente.
Ed è tutto molto più preciso, perché gli strumenti digitali permettono di conoscere e anticipare i comportamenti, il contesto in cui viviamo, attraverso “big data” e mezzi coniati con l’ausilio delle neuroscienze.

Il cellulare è attivo 24 ore su 24, e il suo scopo è riuscire a catturare la nostra attenzione, anche quando abbiamo deciso di fare altro — mentre stiamo facendo attività poco interessanti, come durante i trasporti o nelle file di attesa, ma anche più importanti: lo studio, il lavoro, la vita personale e sociale. Perfino mentre dormiamo.
Il nostro desiderio compulsivo di sentirci circondati da uno “schermo protettore”, dove sviluppiamo la nostra esistenza digitale, ha infatti invaso anche il tempo del riposo. Mai troppo lontano dal cuscino, il cellulare rimane in standby pronto a riaccendersi nel cuore della notte, per farci controllare nuove notifiche.

Tuttavia, non è solo questione di tempo. Il mercato dell’attenzione ha permesso di democratizzare la ECONOMIA DEL DUBBIO. Il business della diffidenza oggi produce un profitto immediato. Già cinquant’anni fa un memorandum interno al sindacato patronale dell’industria del tabacco, datato 1969, recitava: «Il nostro prodotto ormai è il dubbio. Perché il dubbio è il miglior modo di indebolire le idee che esistono nella testa dei consumatori».
Il dubbio produce domande, fa reagire, provoca uno shock emozionale e quindi moltiplica le azioni digitali, le condivisioni, i commenti. E poi è molto più facile ed economico produrre verosimiglianza, e quindi dubbi e credenze, che verità.
L’economia del dubbio ha creato un impero di credenze, e queste credenze sono il terreno dei complotti. La realtà è un’esperienza. La solidarietà collettiva e il destino comune nascono dalla costruzione di un’esperienza condivisa. Ma perché quest’esperienza condivisa sia “libera”, BISOGNA RIVEDERE LE MODALITÀ E I TEMPI DEL CONSUMO DI SOCIAL E ALTRE PIATTAFORME. Per esempio cominciando a diffondere una coscienza collettiva sulla necessità di un’autoregolazione dell’esperienza digitale.

LA VIRALITÀ DELLE FESSERIE

Nell’analizzare superficialmente il fenomeno di Facebook si è sempre posto l’accento sul Like quale veicolo di vanità, vacuità e inutilità. Mentre in verità i maggiori “danni” li ha fatti e li fa, zitto zitto, quell’altro tasto, Condividi.
Che poi altro non è che la sublimazione della vera grande novità portata da Internet fin dai suoi albori: l’Hypertext, architettura sulla quale si basa il web (quell’HTTP che si vede prima di ogni indirizzo di sito sta appunto per HyperText Transfer Protocol, “protocollo di trasferimento di un ipertesto”, principale sistema per la trasmissione di informazioni sul web).
Solo che con l’Ipertesto (il “link”) tu devi attivamente cliccare per vedere il contenuto, mentre con il Condividi di Facebook tu vedi il contenuto già pronto, passivamente: lo subisci senza prima cliccare niente, ripetuto decine di volte sulle bacheche dei tuoi contatti.

Il Condividi è il passaggio diretto allo stato solido, ipervelocizzato, della Catena di Sant’Antonio.
«Leggi questo e invialo a 10 persone, ti porterà fortuna/soldi»… Negli anni Cinquanta si cominciò con lettere scritte a mano o a macchina che iniziavano con «Recita tre Ave Maria a Sant’Antonio» (da cui il nome del fenomeno) e proseguivano descrivendo le fortune capitate a chi le ricopiava e distribuiva a parenti e amici, e le disgrazie che colpivano chi invece ne interrompeva la diffusione. Un mezzo alternativo di propagazione era costituito dallo scrivere i messaggi sulle banconote (in particolare, in Italia, i biglietti da 1000 lire): la carta moneta consente di passare attraverso un numero enorme di intermediari, evitando le spese postali.
Poi il fenomeno si estese eliminando la trascrizione manuale: prima le fotocopie, poi i fax, che aggiunsero un notevole incremento nella rapidità di diffusione. Quindi contagiò al loro avvento i telefoni cellulari, con gli SMS.

Oggi, con i social network, è tutto ancora più semplice e veloce.
Il fenomeno ha ripreso vigore con Whatsapp.
Il quale, pur non avendo un tasto “condividi” immediato come quello di Facebook o Twitter, è a quanto pare più veloce e istintivo. La diffusione “virale” di molte cazzate è diventata ANCORA PIÙ ACRITICA E RAPIDA, su Whatsapp.
Ed è proprio da un episodio del genere che è nata la riflessione che sto scrivendo in questa parte di articolo. Mi ha molto meravigliato — e preoccupato — perché una “catena” me l’ha mandata, tramite la condivisione Whatsapp, una persona a me vicinissima, che è: A) di intelligenza superiore alla media, B) di istruzione medio-alta, C) molto religiosa, D) anziana, quindi navigata, non di primo pelo.
Ne è poi nata una discussione polemica che non sto a raccontare.

Questo il testo della “catena”, in un italiano zoppicante, segno della sua origine estera (mal tradotta):

Il febbraio che verrà non può più capitare nella tua vita. Perché quest’anno febbraio ha 4 domeniche, 4 lunedì, 4 martedì, 4 mercoledì, 4 giovedì, 4 venerdì, 4 sabato. Questo succede una volta ogni 823 anni. Questo è chiamato borsa dei soldi. Quindi mandalo ad almeno 5 persone ed i soldi arriveranno. È basato sul Feng Shui. Mandali entro 11 minuti.

L’inoltro si chiude con un bonario «Non si sa mai!».

Notare tutti i meccanismi tipici delle catene: l’accountability, il ‘puoi fidarti’ («È basato sul Feng Shui»), l’invito all’azione («Mandali entro 11 minuti»), il premio dei soldi, l’evento prezioso da cui prorompe il tutto (un «febbraio che non può più capitare nella tua vita», «ogni 823 anni»). E che invece è proprio il meccanismo più farlocco della bufala, una questione aritmetica da scuola elementare, se ci si sofferma un attimo a pensarci su: Febbraio infatti ha «4 domeniche, 4 lunedì, 4 martedì, 4 mercoledì, 4 giovedì, 4 venerdì, 4 sabato» OGNI ANNO, tranne che nei bisestili (altro che «ogni 823 anni»…!), avendo notoriamente 28 giorni (29 una volta ogni quattro anni); e siccome una settimana ha invariabilmente 7 giorni, il conto è presto fatto — presto fatto se, appunto, ci si sofferma a pensarci su (ma a quanto pare non ci si sofferma).

Perché mi sono così allarmato? Perché, come ho detto, ’sta minchiata è stata propagata da una persona “affidabile”: anziana e perciò smagata, acculturata, intelligente. O meglio, è smagata, acculturata, intelligente nella vita “là fuori”: di fronte ai social rincretinisce. Una lettera scritta a mano o una fotocopia col «febbraio che non può più capitare nella tua vita», nel Novecento, non l’avrebbe mai inoltrata: su Whatsapp lo ha fatto.

Insomma, lo spirito critico e la capacità analitica crollano di fronte al medium utilizzato. Cioè la “colpa” è proprio dei mezzi, non delle persone.

Il motivo è biologico.
Il nostro cervello evidentemente non è strutturato per sfruttare questa velocità accompagnata a totale assenza di barriere nella comunicazione. Le pause sono necessarie. Siamo andati troppo oltre.

Spesso ci crogioliamo sul fatto che i moderni fenomeni internettiani e la scarsa qualità della “socializzazione” digitale colpiscono solo le nuove generazioni, mentre le persone dai 40 anni in su conservano ancora un po’ di raziocinio da “vita reale”.
Be’, e invece no!
Non si salva nessuno.

E dunque, per tornare al titolo: «L’hanno detto in TV» è diventato «L’ho letto su Internet». L’accettazione acritica di qualsiasi cosa provenga da uno schermo, indipendentemente dalle sue dimensioni e dalla sua dislocazione (in salotto o in mano), rende plasticamente bene il famoso “declino dell’Occidente”. Cui dall’Italia assistiamo in prima fila — per ironia, proprio noi che ospitiamo da circa due millenni la più grande fabbrica di fake news di tutti i tempi: la Santa Romana Chiesa.

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