Zitto!, lo smartphone ti spia!

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Ne avevo già scritto qui due anni fa a margine di un complesso longform; tuttavia, alla luce della piega che sta prendendo il fenomeno, tocca dedicargli un blogpost apposito.

C’è lo smartphone a riprova del nostro generale regredire come società avanzate in questa nuova bufala che personalmente sento ormai montare dappertutto, nei discorsi di troppa gente. Si sta gonfiando peggio che con le scie chimiche e i migranti fonte di tutti i mali. E può fare danni serissimi agli sviluppi tecnologici.

Gli annunci pubblicitari che vediamo online sono sempre più accurati, calibrati sui nostri interessi e su ciò che vorremmo acquistare, al punto da indurre alcune persone a credere che ci siano applicazioni per smartphone che ascoltano continuamente le conversazioni a loro insaputa, in modo da offrire pubblicità sempre più personalizzate. È una teoria che ha fatto una certa presa soprattutto tra chi non si fida di alcune delle più grandi aziende di Internet come Facebook, che del resto in questi anni ha avuto grossi problemi con la tutela della privacy dei propri utenti, attirandosi critiche e finendo in mezzo a scandali.
C’è cascato perfino Michele Serra, il quale nella sua rubrica quotidiana su Repubblica ha raccontato di aver notato su internet la comparsa di una pubblicità particolare (quella di una abitazione su ruote) dopo che, giusto alcune ore prima, gli era capitato di discorrere del medesimo argomento mentre era in auto con sua moglie. La deduzione di Serra — come quella di tanti altri — è stata che qualcuno attraverso il cellulare avesse ascoltato la sua conversazione e convertito un simile discorso privato in un’offerta pubblicitaria.

Il discorso è di questo tipo:

«Guarda, è uno scandalo. Ieri stavo parlando con il mio amico di “pulizia”, e dopo due minuti, aprendo il telefono e navigando, mi è comparsa la pubblicità di una ditta di pulizie! Secondo te è un caso? No! Il telefono ha sentito di nascosto quello che dicevo e lo ha rivelato al sito, il quale non appena mi sono collegato mi ha fatto vedere lo spot!»

Il meccanismo è sempre identico: tu stai parlando di qualcosa di specifico con qualcuno, sei all’aperto o in una stanza o in altro posto, nella vita reale: e pochi secondi dopo sul tuo telefono collegato a internet ti appare un banner pubblicitario che fa riferimento a quello che stavi dicendo.
Morale: «Ci spiano!, ascoltano attraverso il telefono, anche se non lo stiamo usando, quello che diciamo, e costruiscono le pubblicità in base alle nostre conversazioni».

Com’è potuto accadere? Che si stia diffondendo questa nuova psicosi, dico?
Una roba che manco Echelon dei bei tempi: una fake fantascientifica degna delle migliori bufale del secolo scorso…

Be’, credo di saperlo. È che sono cominciate a uscire notizie di questo tipo: «Google, Amazon e Apple sorprese ad ascoltare le registrazioni di quello che diciamo col telefono a Siri, ad Alexa, a “Hey Google!”» (esempio 1, esempio 2, esempio 3). Gli impiegati delle grandi multinazionali della tecnologia sono stati beccati a sfruculiare nelle registrazioni degli utenti, violandone la privacy. E la spiegazione («serve solo a migliorare il servizio») è “solo una scusa che non regge”.
E via con articoli allarmistici, con tanto di istruzioni su come “disattivare il servizio”, “cancellare le registrazioni” dall’iPhone, da Amazon Echo, da Google Assistant e via dicendo.

Ecco, il fatto è che invece la “scusa” degli impiegati regge eccome, il punto cruciale è proprio in quella parola: “registrazioni”.
Non si tratta di ascolto in tempo reale di ciò che diciamo: si tratta di file audio con il nostro uso passato dei device. E sono file audio presi a caso in mezzo a decine e decine di miliardi di altri file audio. L’«impiegato» di Amazon o di Apple non sa che si tratta di te che tre mesi fa hai impartito un certo comando all’iPhone o all’Echo Spot che hai in camera da letto.

Alexa, Siri, Cortana e tutti gli altri assistenti vocali ancora soffrono di un grosso handicap: interpretare correttamente tutte le parole che diciamo. È il motivo per cui perculiamo Alexa e Siri, che tutt’ora in molti casi prendono fischi per fiaschi davanti ai nostri ordini più semplici: «Hei, Siri!, aggiungi il latte alla lista della spesa», e Siri: «Mi spiace, non riesco a trovare una corrispondenza per il brano musicale che hai richiesto»; «Alexa, quando è nato Napoleone?», e Alexa: «Il leone è un grande felino che vive principalmente nella savana africana…».

Gli addetti di Google, Amazon, Apple “ascoltano” le nostre (vecchie) registrazioni non per violare la nostra privacy ma proprio per tentare di risolvere questi problemi, ricorrendo anche all’intelligenza artificiale: Alexa, Siri e gli altri robot, grazie agli input degli esseri umani che li indirizzano («Qui c’è registrato “Napoleone”, non “Leone”»), riescono ad auto-migliorarsi nell’apprendimento, e la prossima volta ci saranno meno probabilità che commettano quello specifico errore. Peraltro, tutti questi assistenti vocali devono far fronte non solo a milioni di timbri di voce delle persone, ma devono farlo in 200 lingue diverse: abbiamo solo la più vaga idea di quanto sia difficile una sfida tecnologica del genere? Senza l’intervento umano che indirizzi tutte queste AI (intelligenze artificiali) grazie all’ascolto a caso, da parte di umani veri, delle vecchie registrazioni (anche queste prese a caso), Alexa e Siri non andrebbero da nessuna parte, e sarebbero del tutto inutili.

Ritornando al discorso della “pubblicità costruita rubando via telefono i nostri discorsi dal vivo”, la nuova grande bufala che sta diventando di massa in questo periodo: semplicemente NON ESISTE ancora la possibilità tecnologica per una cosa del genere. Siamo noi — e solo noi — a notare una coincidenza e a conferirle un significato che non ha. Ogni giorno parliamo di innumerevoli cose e vediamo innumerevoli spot, articoli, tweet, post: noi — e solo noi — notiamo quando un tema coincide, e noi — e solo noi — dimentichiamo un tema all’istante quando non coincide. È banale solipsismo, non complotto tecnologico.

È il nostro caro, stupefacente e ancora in gran parte sconosciuto cervello. Perché la verità è che, molto più spesso di quanto ce ne rendiamo conto, ci interessiamo di un dato argomento ben prima di ricordarci di averlo fatto. E quindi possiamo avere la percezione di parlare di una macchina-per-il-caffè per la prima volta, mentre siamo in auto con qualcuno, ma magari, nei giorni o addirittura nelle ore prima, senza nemmeno accorgercene, abbiamo effettuato ricerche sul web in tal senso. O magari ne abbiamo parlato en passant sui social network.
Social network e motori di ricerca, al contrario degli assistenti vocali o delle app che sfruttano la voce, non hanno alcuna remora nel rispettare la privacy: il loro business si basa proprio su questo genere di informazioni e, quindi, sfruttano il meglio della tecnologia per spillarle ai loro utenti. Il fatto, poi, che il nostro subconscio ci porti a parlare di nuovo di quel dato argomento (e a quel punto ce ne ricordiamo), trasforma il tutto in una fatale coincidenza che ci porta a correlare l’evento memorizzato con la conseguenza di eventi che, invece, non abbiamo memorizzato. Quindi mettiamo like a un post di un amico che parla di una macchina-per-il-caffè, ce ne dimentichiamo, parliamo di una macchina-per-il-caffè mentre siamo in auto, arriviamo a casa e ci ritroviamo la pubblicità di una macchina-per-il-caffè. Ora proviamo a indovinare che collegamento logico fa, il nostro cervello.
Come opzione bonus, la coincidenza. «Sì vabbe’, la coincidenza», dirà qualcuno. Invece esistono principî matematici — spiegati per esempio nel bellissimo libro The improbability principle: why coincidences, miracles and rare event happen every day — che spiegano che le coincidenze esistono e succedono eccome. Solo che poi ci piace chiamarle miracoli, sfighe, colpi di fortuna. O “smartphone che ascoltano”.

Né Google, né Amazon, né Apple — né nessun altro, neanche i potentissimi 007 americani — potrebbero intercettare, grazie a qualche “microfono acceso di nascosto” sul telefono, i nostri discorsi IN TEMPO REALE e NEL MONDO REALE e costruirci IMMEDIATAMENTE, grazie a chissà quali “geniali algoritmi”, lo spot pubblicitario.
Una possibilità simile presupporrebbe l’esistenza di miliardi di server accesi 24/7 che acchiappano i discorsi di miliardi di persone — in 200 lingue diverse, più i dialetti —, li interpretano correttamente (!), e in capo a qualche istante, non appena ci si mette a navigare sul web col telefono, costruiscono la giusta pubblicità. Stavi parlando di “chiaroveggenza” in una spiaggia sperduta della Calabria? Pochi secondi dopo sul browser del telefono ti appare il banner del Mago Giovanni che legge il futuro e riceve il martedì e il giovedì nella città guardacaso a pochi km da te…

Ecco, togliamocelo dalla testa. Questa cosa attualmente non si può fare, punto.
E difficilmente lo si potrà nei prossimi dieci, quindici anni: perché a quanto pare la strada con le intelligenze artificiali è ancora irta di troppe difficoltà. Robot e algoritmi sono meno in gamba di quel che credevamo dopo averli visti all’opera con il condizionamento che sono in grado di operare sulla politica.

Come funziona in realtà la pubblicità online — oggi, non in un futuro alla Blade Runner

Escludiamo la tesi (sia pur gettonata) del dipartimento di forze speciali X e Y che registrano tutto quel che diciamo: i trojan utili allo scopo esistono, ma sono molto costosi, servono per le intercettazioni, sono legalmente ben regolati e comunque, di sicuro, non servono a intercettare conversazioni, passarle al Google di turno e trasformarle in pubblicità. Le nostre forze speciali preferite hanno cose più importanti da fare che trasformarsi in shopping assistant di comuni cittadini.

Le società che si occupano della pubblicità online sfruttano informazioni molto più semplici e accessibili per tarare gli annunci sui nostri interessi, sfruttando per lo più dati che noi stessi forniamo loro inconsapevolmente. Strumenti di tracciamento ormai sofisticati permettono a Facebook o a Google di individuare i nostri interessi anche quando non li abbiamo mai cercati sui social network o sui motori di ricerca.
Il sistema più diffuso, e alla base del funzionamento di buona parte dei siti, è quello dei cookie, i piccoli file che i siti installano all’interno del nostro programma per navigare (il browser, come Chrome o Firefox).

Per capire come funzionano i cookie occorre tornare agli albori del Web, quando i siti erano molto più spartani di oggi e non avevano memoria di ciò che noi navigatori facevamo sulle loro pagine. Era un problema non da poco, soprattutto se si voleva acquistare qualcosa online, perché non c’era modo di far sì che un carrello virtuale ricordasse i prodotti inseriti al suo interno. Il server — cioè il computer a distanza che fa funzionare il sito — non aveva modo di riconoscere lo stesso utente tra una sua richiesta e un’altra.
Nel 1994 uno sviluppatore di Netscape, la società del browser più utilizzato all’epoca, inventò un sistema per aggirare il problema. Pensò che la soluzione migliore fosse lasciare ai singoli computer buona parte del lavoro per farsi riconoscere, in modo che i server non diventassero sovraccarichi. Realizzò quindi un piccolo file, un cookie (“biscottino”), che si autoinstalla nel browser quando l’utente visita uno specifico sito. Il cookie ha un sistema di identificazione unico per ogni utente, e in questo modo il sito può ricordarsi di chi lo sta visitando e delle azioni che sta compiendo, come riempire il carrello con alcuni prodotti.
La nuova soluzione cambiò in meglio il Web, contribuendo a trasformarlo da sistema prevalentemente usato per la consultazione a un luogo in cui ci si poteva iscrivere a comunità virtuali, fare acquisti online o registrarsi a servizi di vario tipo. Nel corso del tempo l’impiego dei cookie da parte dei siti è però aumentato enormemente, con sistemi via via più sofisticati per sfruttare per scopi commerciali le informazioni sui singoli utenti.

In origine, i cookie erano stati ideati per avere un unico referente: il sito che li aveva emessi. Il cookie installato nel proprio browser da bianchi.com poteva interagire solo con bianchi.com, quello installato da neri.com solo con neri.com, e così via. All’epoca era sembrata una soluzione sicura e soddisfacente, ma era stato sottovalutato il fatto che un giorno i siti avrebbero ospitato in massa contenuti provenienti da altri siti e che questi avrebbero avuto la possibilità di installare a loro volta cookie anche su un sito diverso dal loro.
Facebook e Google, per esempio, vendono gli spazi sui loro siti agli inserzionisti e fanno da intermediari, gestendo i sistemi che fanno funzionare la pubblicità online. Sono tra le società più grandi a farlo e di conseguenza lavorano con una quantità enorme di dati su come si comportano gli utenti online, in modo da personalizzare il più possibile le pubblicità.
Il meccanismo è reso possibile grazie al cookie “di terza parte”: ossia il cookie che proviene da un sito diverso.

Un esempio banale. La fondatrice di bianchi.com realizza un sito molto semplice e lo mette online. Qualche tempo dopo, decide di aggiungere un tasto “Mi piace” di Facebook, in modo che chi segue il sito possa mettere un “Mi piace” direttamente alla pagina Facebook di bianchi.com senza doverla andare a cercare sul social network. Il codice per inserire il tasto è fornito da Facebook stesso, che lo gestisce direttamente con i propri server: la fondatrice lo copia e lo inserisce nel suo sito. A questo punto su bianchi.com c’è un elemento (il tasto “Mi piace”) che per funzionare deve collegarsi a facebook.com ogni volta che qualcuno visita il sito. Facebook ha ottenuto in questo modo la possibilità di salvare un proprio cookie anche se si sta leggendo un sito diverso dal suo: quello che si definisce un cookie di terze parti.
Poiché il tasto “Mi piace” è presente su centinaia di milioni di siti, Facebook ha la possibilità di tracciare le attività degli utenti mentre passano da un sito all’altro, sfruttando il suo cookie. Da “un cookie – un sito” si è di fatto passati a una situazione in cui i cookie sono sfruttati per seguire gli utenti tra siti diversi, raccogliendo una mole enorme di informazioni.

L’esempio è su Facebook, ma lo stesso principio viene seguito da migliaia e migliaia di altre aziende, soprattutto per la gestione degli annunci pubblicitari: il sistema appena visto con il tasto “Mi piace” funziona allo stesso modo con gli annunci pubblicitari, il cui codice rimanda a chi li gestisce e li fa apparire nelle pagine.
Grazie ai cookie di terze parti e ad altri sistemi di tracciamento, le piattaforme riescono a farsi un’idea piuttosto accurata delle nostre abitudini, delle cose che ci piacciono, di cosa potremmo comprare e degli argomenti che ci interessano. I loro sistemi non sono solamente presenti sui siti, ma anche sulle applicazioni, che a loro volta raccolgono molti più dati su di noi, come per esempio la nostra posizione geografica.

Tecnicamente tutte queste informazioni sono anonime e le piattaforme sostengono di non avere modo di risalire alle identità dei singoli utenti, ed è vero; tuttavia è stato ormai ampiamente dimostrato che la grande mole di dati raccolti consente di farsi un’idea piuttosto precisa sugli utenti (vd. scandalo Cambridge Analytica), senza bisogno di risalire all’esatta identità di ognuno.
È la combinazione di queste informazioni a fare sì che dopo avere visitato un sito per acquistare una macchina-per-il-caffè ci ritroviamo altrove la pubblicità di macchine-per-il-caffè, nelle pubblicità mostrate su un social network o su altri siti.

Alcuni hanno l’impressione di essere ascoltati perché si ritrovano pubblicità di prodotti o servizi di cui hanno parlato di recente con qualcuno. Nella maggior parte dei casi, quelle pubblicità sono banalmente il frutto delle preferenze e delle attività svolte nel tempo online, e magari alle quali non si era prestata grande attenzione. È probabile che, se parliamo di un paio di scarpe con qualcuno, avessimo visto quel modello da qualche parte online, magari tra una pubblicità e un post di Instagram: e che ci avessimo cliccato sopra o ci fossimo soffermati per leggerne descrizione e dettagli. Attività di questo tipo possono essere sufficienti per far sì che venga colto un potenziale interesse verso quel prodotto, innescando i sistemi per riproporlo a distanza di tempo tramite le pubblicità su altri siti.

In alcuni casi vediamo la pubblicità di un prodotto che siamo sicuri di non avere mai cercato prima online, ma che era stato al centro di una recente conversazione con un’altra persona. Anche in questo caso, è assai probabile che la pubblicità sia mostrata non perché un’applicazione stesse spiando la chiacchierata, ma perché il nostro interlocutore aveva visto quel prodotto su un sito. Tramite il tracciamento è infatti possibile dedurre che due utenti fossero nello stesso luogo, magari per via della stessa connessione utilizzata, e che si conoscessero. La pubblicità viene mostrata all’altro interlocutore non interessato al prodotto, ma che potrebbe a un certo punto parlarne con chi lo aveva visto online, rinforzando il suo interesse.
Soluzioni come queste sono piuttosto elaborate e non funzionano sempre alla perfezione. Talvolta, per esempio, si vedono le pubblicità destinate ad altri banalmente perché si sta utilizzando la loro stessa connessione e si hanno particolari impostazioni nel proprio browser. Il funzionamento del cervello umano fa sì che, tra decine di inserzioni di prodotti che non abbiamo mai cercato online, notiamo quella relativa all’oggetto di cui abbiamo parlato nei giorni precedenti: che potrebbe quindi facilmente essere l’unica azzeccata su molti tentativi diversi da parte di Facebook.

Nessuna app utilizza di nascosto il microfono degli smartphone, ed è stato dimostrato. (Uno studio condotto circa tre anni fa presso la Northeastern University di Boston prese in considerazione migliaia di applicazioni per gli smartphone Android, molte delle quali dotate di sistemi per inviare informazioni a Facebook: lo studio provò che nessuna delle applicazioni, compresa quella del social network stesso, avesse utilizzato di nascosto il microfono degli smartphone).
Se il microfono fosse costantemente attivo, peraltro, i proprietari degli smartphone noterebbero un calo significativo della batteria.

Un ascolto costante di centinaia di milioni di smartphone implicherebbe una raccolta colossale e insostenibile di dati. Un eventuale sistema di questo tipo comporterebbe un continuo e massiccio scambio di dati tra gli smartphone e le piattaforme web, scambio che potrebbe essere facilmente rilevato. Cogliere le parti rilevanti di una conversazione non è semplice, come mostrano i risultati spesso deludenti degli assistenti vocali come Siri e Alexa. Riuscire a isolare le giuste informazioni da una conversazione per mostrare le pubblicità richiederebbe soluzioni di intelligenza artificiale di cui ancora, semplicemente, non disponiamo.

Come se non bastasse, un ascolto tramite il microfono degli smartphone non può inoltre avvenire se manca l’autorizzazione da parte del sistema operativo, che controlla l’accesso alle risorse del telefono. Sia Android sia iOS (iPhone) hanno sistemi per limitare l’uso del microfono da parte delle applicazioni, e dànno la possibilità di impedirne l’impiego.

(E potrebbe essere tutta un’illusione, una cantonata dovuta a sopravvalutazione…)

C’è per giunta un grande non detto riguardo ai big data e all’intelligenza artificiale; un dubbio inquietante. Il dubbio che i dati, le informazioni, per quanti siano, non possano essere davvero utili per fare previsioni affidabili. Anzi, possono essere troppi. E, in subordine, che gli algoritmi o l’intelligenza artificiale non siano poi così intelligenti nell’usarli.

È per ora solo un sospetto, ma gli indizi sembrano moltiplicarsi e diventare più evidenti. Come mai, nonostante la valanga di dati e i milioni di dollari investiti, l’algoritmo di Netflix non riesce proprio a darci i suggerimenti giusti? E vi ricordate il pulsante “Mi sento fortunato” di Google? Perché è stato rimosso? E perché Facebook e Amazon devono ancora affidarsi a schiere di individui sottopagati per allenare i propri algoritmi o rimuovere i contenuti offensivi o falsi?

Il fatto è che, nonostante la tecnologia più in voga nel campo si chiami “deep learning”, ci sono solidi dubbi che le intelligenze artificiali siano davvero in grado di “imparare” — tantomeno in maniera “profonda” —. E che i “big data” possano davvero estrarre valore e fare qualcosa di più che in parte ottimizzare l’esistente.
Semplificando molto, quello che fanno questi algoritmi è utilizzare enormi quantità di dati cercando di assemblarli in uno strabiliante numero di combinazioni fino a che non ottengono i risultati desiderati, dopodiché reiterano gli schemi di successo. Questo approccio — che pure ha portato a risultati rilevanti in campi come l’imaging o il riconoscimento vocale — ha almeno tre limiti fondamentali.
Primo: ha bisogno di enormi quantità di dati per funzionare, e non sempre sono disponibili, specie in contesti nuovi (si pensi a come durante la pandemia i modelli epidemiologici utilizzati siano stati quelli tradizionali e non quelli sviluppati con intelligenze artificiali).
Secondo: questi dati devono essere spesso “etichettati” da esseri umani o attinti da database precedenti, per cui l’intelligenza artificiale tenderà a perpetuarne i difetti (nel 2015 Amazon scoprì che il suo algoritmo di selezione discriminava le donne poiché si basava sui dati dei dipendenti passati, in maggioranza uomini).
Terzo: appena qualcosa non rispetta con precisione i suoi modelli, l’intelligenza artificiale si blocca (un software di guida autonoma può imparare a riconoscere un segnale di stop, ma se una fronda ne copre anche solo il 20% lo manda nel pallone).

La Tecnologia è la nuova Magia

L’illusione di frequenza è un pregiudizio cognitivo sostanzialmente innocuo. La sua definizione si deve a un professore di linguistica di Stanford, Arnold Zwicky, che nel 2005 ipotizzò che un simile abbaglio dipendesse dalla somma di due pregiudizi: quello dell’attenzione selettiva (notiamo le cose che ci interessano e ignoriamo il resto) e il pregiudizio di conferma (cerchiamo prove a nostro favore e ignoriamo quelle che smentiscono il nostro punto di vista). Ne ho parlato diffusamente qui: sono meccanismi psicologici alla base delle teorie dei complotti.

In questo processo di decodifica dell’informazione acquista un ruolo anche un altro aspetto che guida segretamente le nostre vite: la ricerca e il riconoscimento del “magico”.
Siamo irresistibilmente attratti dalla magia e dal mistero, abbiamo il culto del verosimile, e oggi niente soddisfa simili promesse in maniera maggiore della tecnologia. La tecnologia invisibile, in particolare, incombe su di noi: le connessioni senza fili che esistono e funzionano anche se non sappiamo vederle, le comunicazioni impercettibili fra gli oggetti di cui solo occasionalmente ci arriva notizia, la lavatrice che manda messaggi al suo creatore (e non a noi!), più in generale la internet delle cose che assume l’aspetto di un delirio distopico nel quale gli oggetti di casa nostra o altri di cui nemmeno sappiamo parleranno tra loro e con chissà chi altri senza il nostro permesso — tutto ciò accade nonostante noi.

Qualche mese fa mi è accaduto un episodio in qualche modo analogo a quello occorso a Michele Serra: ha senso raccontarlo per capire come la stratificazione di senso di simili ragionamenti a volte prosegua e a volte invece si interrompa bruscamente per sopravvenuta illogicità (e senso del ridicolo).
Stavo trascrivendo un documento e ho incontrato una parola che non avevo mai sentito: “Portmanteau”. Non avendola mai letta o ascoltata — per mia crassa ignoranza in 57 anni — l’ho prima pronunciata un paio di volte ad alta voce e poi riscritta con attenzione nella barra di ricerca di Google, e ne ho ottenuta spiegazione: Portmanteau è una “parola macedonia”, detta anche “mashup”, “neologismo sincratico” o “composto aplologico”, un neologismo formato dalla fusione (sincrasi o aplologia) di due parole diverse, che il più delle volte hanno un segmento (fonema o lettera) in comune. Può essere considerata una sottocategoria o estensione dell’acronimo. Come esempi italiani di parole macedonia entrate nell’uso comune si possono citare cartolibreria, furgonoleggio, cantautore, musicassetta, videofonino.
Fatto ciò, in capo a trenta secondi me ne sono dimenticato, come del resto avviene (non solo a me) per la quasi totalità di tutto ciò che accade giornalmente. Al pomeriggio sono salito in auto e come sempre faccio mentre viaggio ho acceso la radio. Percorsi i primi chilometri, improvvisamente il conduttore del programma pronuncia chiaramente quella stessa parola a me fino a poche ore prima ignota: “Portmanteau”.
Wow! Erano all’opera esoteristi, maghi, tecnocrati oppure pubblicitari molto esperti? (Spoiler – Nulla di tutto questo: avevo semplicemente incrociato per la seconda volta in mezzo secolo abbondante la parola “portmanteau”. È bellissimo quando accadono cose del genere, e c’è chi ci ha costruito sopra fortune editoriali.) Due volte in poche ore: poteva forse essere un caso? Giammai! Tuttavia, rimaneva un dubbio: che cosa cercavano di abbindolarmi (addirittura dal pulpito di RAI Radio1!) quei maghi-tecnocrati-persuasori-occulti con “Portmanteau”, non esistendo una marca o un servizio o una setta con questo nome?!

Dedicato ai miei amici del cuore Lorenzo, Graziella e Umberto

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