Cos’è la globalizzazione, e quando è iniziata?
Ci sono sostanzialmente due scuole di pensiero, una scientifica e una “popolare”.
Tecnicamente (e didascalicamente), la globalizzazione può dirsi “completa” solo nel caso in cui i prezzi delle materie prime (note come commodities) convergano sugli stessi livelli su scala mondiale. Questa condizione è chiamata “legge del prezzo unico” ed è alla base di molti concetti di macro e microeconomia. Basandoci su questa definizione, possiamo ritenerci oggi in una situazione di globalizzazione pressoché totale, visto che i mercati internazionali di commodities (petrolio, oro, rame) con i prezzi in dollari sono gli stessi in ogni parte del mondo.
C’è poi il secondo caso, che tanto piace ai teorici del complotto e del Nuovo Ordine Mondiale, a parere dei quali la globalizzazione è un “processo ordito dalle élite a tavolino”: e in effetti non si può negare che la sua esplosione sia stata favorita fin dal trattato di Bretton Woods del 1944, in cui un nuovo sistema globale con il dollaro al centro fece sì che il commercio e i prezzi dei beni globali si armonizzassero, grazie alla convergenza di molti sistemi monetari ora effettivamente “collegati” al valore della moneta statunitense. Allo stesso tempo, la costituzione del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale (entrambe con base negli USA ma a direzione più o meno internazionale) diedero una spinta importante al movimento dei capitali e degli investimenti nei Paesi in via di sviluppo. Ma furono le nuove istituzioni (WTO – World Trade Organization, Unione Europea) e i nuovi trattati (NAFTA – North Atlantic Free Trade Agreement) di fine secolo a determinare il maggior livello di integrazione economica mai raggiunto sul pianeta, in concomitanza con eventi epocali come la caduta della cortina di ferro, l’innovazione tecnologica in campo informatico, la creazione della zona valutaria dell’Euro e l’ingresso della Cina (che così divenne la “fabbrica del mondo”) nel WTO. (“Eminenze grigie dietro le quinte”? Sicuro: ma stiamo parlando di governi e parlamenti di decine di Paesi, due o tre generazioni con centinaia di migliaia di eminenze grigie…)
Dal punto di vista storico, la globalizzazione economica non è un fenomeno inedito. Quella contemporanea presenta però tratti specifici unici per intensità e qualità: per esempio la Finanziarizzazione — la crescente importanza quantitativa e qualitativa del settore finanziario al di sopra dei settori produttivi dell’economia —, la Dematerializzazione — l’informazione, la conoscenza tecnica e le capacità personali assumono un’importanza preponderante per il successo e l’efficienza in ogni campo dell’attività umana e nella crescita economica, a scapito dei fattori materiali (materie prime, territori, impianti e macchinari) ritenuti fondamentali in passato — e la Ipercompetizione — l’inasprimento della concorrenza nei settori esposti alla globalizzazione, l’allargamento geografico dell’arena competitiva, la perdita d’importanza della collocazione geografica e delle sue caratteristiche specifiche sociali, culturali ed economiche.
È una materia molto complessa, e molto studiata. Tuttavia entrambe le scuole di pensiero perdono di vista un terzo elemento, fondante e cruciale: probabilmente la globalizzazione “reale” ha un’origine molto più umile e banale, ancorché affascinante, senza la quale non avremmo alcuna dinamica di livello davvero planetario. E si deve all’intuizione di un solo uomo, messa in pratica nel 1956.
Quel giorno della primavera 2021 in cui una sola nave di traverso bloccò i commerci mondiali…
La nave Ever Given, rimasta incagliata nel Canale di Suez il 23 Marzo 2021 e liberata solo dopo enormi sforzi, con la sua lunghezza di 400 metri è una delle portacontainer più grandi del mondo: è stata costruita nel 2018 e fa parte di una categoria di navi note come Ultra Large Container Vessel (ULCV). Sono le navi portacontainer gigantesche, il risultato di una rivoluzione nei trasporti che nel giro di pochi decenni ha cambiato i commerci mondiali, non soltanto quelli via mare, rendendoli più veloci, più economici e più efficienti — e per certi versi più problematici, quando una nave di quelle dimensioni si incaglia in un passaggio marittimo essenziale per i trasporti globali (la compagnia assicurativa Allianz ha stimato perdite tra i 5 e gli 8,5 miliardi di euro per il commercio internazionale nei giorni della Ever Given a fare da tappo nel Canale di Suez, con i costi delle spedizioni marittime di petrolio quasi raddoppiati per la crescente domanda).
Un blocco come quello della Ever Given non significa solo che la lampada ordinata su Amazon arriverà in ritardo, ma anche che la catena logistica nella sua integrità — quella strutturata sui quattro assi nave, aereo, treno e camion, racchiusa nel termine intermodalità — va in affanno e i trasportatori (lunghe distanze), i manager delle imprese, gli operai, i corrieri (ultimo miglio) lavorano sotto pressione.
I trasporti marittimi sono organizzati in “servizi”, linee regolari con frequenze generalmente settimanali, percorse continuativamente da un certo numero di navi che toccano diversi porti di approdo (detti call). Le navi più grandi come la Ever Given possono essere gestite da un numero limitato di porti nel mondo: da questi partono solitamente altre linee marittime localizzate verso i porti minori, raggiunte da navi cargo più piccole su cui vengono trasbordati i container. In Italia per esempio i porti dei servizi intercontinentali o internazionali sono principalmente Genova, Trieste e Gioia Tauro — quest’ultimo specificamente porto di trasbordo, ossia un hub da cui partono servizi verso altri porti italiani —. Se in uno stesso servizio una nave è in ritardo di una settimana e una è puntuale, navigheranno in parallelo e giungeranno lo stesso giorno in una call, una delle tante tappe che portano una nave mercantile, per esempio, da Shanghai ad Anversa (rotta westbound) o da Shenzhen a Los Angeles (rotta eastbound pacifica, che si differenzia dalla eastbound atlantica, più battuta dal flusso di trasporto energetico).
Lo scalo di destinazione, però, potrà molto probabilmente gestire una sola nave alla volta. Potrebbe provare a scaricarle contemporaneamente ma dovrà avere spazio di banchina, mezzi di banchina e operatori portuali sufficienti, cosa garantita da un pugno di porti nel mondo. È così che inizia la congestione. Il ritardo accumulato si ripercuote sui camion e sui treni che devono ricevere il carico dai porti. Dovranno aspettare più tempo i carichi e così all’uscita dei terminal, delle stazioni ferroviarie merci, degli hub logistici e dei magazzini si creeranno dei colli di bottiglia.
Questa è la prova che il trasporto marittimo davvero trasporta quasi tutto quello che viene prodotto nel mondo, in quanto trasporto a lungo raggio per eccellenza. L’altro è l’aereo, che però in un singolo viaggio può trasportare molta meno merce, qualificandosi così come mezzo preferito per le spedizioni delicate o soggette a scadenza, come i vaccini o i cibi freschi. Considerando che gran parte di quello che le persone e le fabbriche acquistano viene prodotto in Cina, è chiaro che la nave mercantile è un mezzo di trasporto fondamentale, l’ossatura dell’economia globalizzata.
Oggi, mentre TIR enormi dominano le autostrade e i treni sfrecciano nella notte carichi di container, è difficile rendersi conto di quanto questi scatoloni abbiano cambiato la faccia del pianeta. A metà Novecento la Cina non era la “fabbrica del mondo”. Non era normale trovare scarpe brasiliane e aspirapolvere messicani nei negozi del Kansas o di Berlino. Le famiglie giapponesi non mangiavano il manzo degli allevamenti del Wyoming o della Pampa argentina e gli stilisti francesi non facevano tagliare e cucire i loro modelli esclusivi in Turchia o in Vietnam o a Singapore.
Prima del container, il trasporto di merci era talmente costoso che per molti prodotti non era conveniente effettuare spedizioni da una parte all’altra del Paese, figuriamoci nel resto del mondo. Che cosa c’è di tanto importante nel container? Di certo non l’oggetto in sé: quell’inerme scatolone di alluminio o d’acciaio, tenuto insieme da saldature e bulloni, con il fondo in legno e due enormi aperture alle estremità, ha il fascino di una lattina di conserva. No. Il valore di questo prezioso oggetto risiede nel modo in cui viene utilizzato: il container è il perno su cui ruota un sistema altamente automatizzato di trasporto delle merci su scala mondiale, che riduce al minimo costi e imprevisti di percorso. Il container ha abbattuto i costi di spedizione e così facendo ha cambiato l’aspetto dell’economia mondiale.
COME CI SIAMO ARRIVATI
La storia delle navi portacontainer è un pezzo importante della storia della globalizzazione ed è relativamente recente.
L’idea di caricare le navi per il trasporto delle merci con contenitori di dimensioni standard — i container — è più o meno nota fin dall’antichità: greci e romani stipavano le loro navi da trasporto con anfore tutte uguali, e dal XVIII Sec. alcune navi furono attrezzate per ospitare grandi casse di legno tutte delle stesse dimensioni. Le prime vere navi portacontainer, però, risalgono alla fine degli anni Cinquanta del Novecento, e la persona che le inventò non sapeva quasi niente di navigazione.
Nella prima metà del Novecento i container erano usati nei trasporti marittimi in maniera saltuaria e poco efficiente; per esempio, uno degli utilizzi più noti era per contenere i bagagli sulle navi passeggeri. Il trasporto delle merci era in gran parte un affare ancora molto inefficiente, e il problema principale non erano le navi, che erano diventate sempre più veloci, grandi e capienti, ma la logistica: i prodotti da trasportare erano conservati nei contenitori più vari — scatole, casse, pacchi — ed erano caricati e scaricati dalle navi uno per uno da un’enorme quantità di lavoratori portuali. Il lavoro era ovviamente facilitato dall’utilizzo di macchinari, ma era complicato e impiegava moltissimo tempo: caricare e scaricare una nave cargo di dimensioni medie poteva richiedere giorni.
Malcolm McLean (14 novembre 1913–25 maggio 2001) era un imprenditore statunitense del North Carolina, la cui ditta di autotrasporti, la McLean Trucking, risentiva in maniera negativa di queste lungaggini. Nel 1937 McLean fu costretto a trascorrere una giornata intera in fila dentro al suo camion in un porto del New Jersey in attesa di poter consegnare un carico di cotone da caricare su una nave da trasporto. Come avrebbe raccontato in seguito lui stesso, durante l’attesa McLean ebbe l’intuizione che il problema del trasporto delle merci via mare fosse la logistica del carico e scarico delle merci. Al tempo era un’intuizione geniale, perché tutti gli sforzi per migliorare i trasporti erano concentrati sul rendere le navi più veloci e capienti, e nessuna attenzione veniva dedicata a cosa succedeva nei porti.
«All’improvviso capii: non sarebbe fantastico se il rimorchio [del camion] potesse semplicemente essere sollevato e messo sulla nave senza toccare il suo contenuto?», ha raccontato in seguito McLean. L’idea era buona, ma sarebbero stati necessari altri vent’anni per metterla in pratica. La prima soluzione di McLean fu abbastanza rudimentale: imbarcare i camion della sua ditta direttamente sulle navi. Si capì in fretta che non poteva andare, perché i camion occupavano troppo spazio prezioso, e anche se le operazioni erano molto rapide i costi di trasporto erano superiori.
Il secondo tentativo riuscì: anziché caricare tutti i camion sulle navi, McLean caricò soltanto le “grandi scatole” dei rimorchi: gli antenati dei container. Per mettere in pratica il suo progetto, comprò due vecchie petroliere risalenti alla Seconda Guerra Mondiale e le riadattò per contenere 58 grosse “scatole” di acciaio lunghe 35 piedi (10,6 metri). Una delle due petroliere, la Potrero Hills, ribattezzata per l’occasione Ideal X, fece il viaggio inaugurale, da Newark a Houston, il 26 aprile 1956. In quel periodo caricare merci sfuse su una nave cargo di medie dimensioni costava circa 5,8 dollari a tonnellata e poteva richiedere giorni interi. McLean e i suoi calcolarono che per caricare la Ideal X erano stati sufficienti 15,7 centesimi a tonnellata (qualcosa come 37 volte meno) e le operazioni di carico e scarico avevano richiesto soltanto poche ore.
Con la sua nuova compagnia di trasporti, la Sea-Land, McLean cominciò a diffondere il nuovo metodo di trasporto negli Stati Uniti e poi nel mondo.
McLean non aveva inventato i container né le navi portacontainer, ma un nuovo metodo di trasporto “intermodale”, termine con cui, in questo caso, si intende il fatto che grazie all’utilizzo di un contenitore standard — il container — è possibile trasportare lo stesso carico via nave, con un autocarro o su un treno, risolvendo così la gran parte dei problemi logistici che affliggevano i trasporti via mare.
I container non velocizzavano soltanto le operazioni ma risolvevano numerosi altri problemi. Per esempio, evitavano che la merce fosse manipolata da troppe persone, cosa che ridusse enormemente sia le rotture accidentali (se uno specchio appena prodotto è ben imballato dentro a un container, non c’è la possibilità che uno scaricatore di porto lo faccia cadere) sia i casi di furti. Il fatto che il contenuto di un container sia tendenzialmente noto soltanto a chi lo riempie e a chi lo svuota, tuttavia, non è sempre una buona cosa: per esempio, i container sono diventati un ottimo strumento per traffici illeciti di merci e perfino di persone.
I container hanno reso le spedizioni via mare non soltanto più rapide, ma anche più prevedibili e affidabili: nel corso dei decenni sono stati sviluppati sistemi di tracciamento e di identificazione di ogni singolo container, utili sia per le operazioni di carico e scarico, che oggi hanno un alto livello di automazione (ciascun container ha un sistema identificativo e un posto ben preciso sulla nave), sia per sapere in ogni momento dove si trova la merce e consentire alle aziende di fare una programmazione precisa della propria logistica e del proprio processo produttivo.
Nel 1966 cominciarono i viaggi transatlantici tra gli Stati Uniti e Rotterdam, nei Paesi Bassi, che ancora oggi è il principale porto europeo per traffico di container, e nel 1967 la Sea-Land strinse un accordo con il governo americano per cominciare un servizio di rifornimento con container in Vietnam, dove gli Stati Uniti erano entrati in guerra da tempo. La guerra in Vietnam creò un enorme incentivo per lo sviluppo dei trasporti tramite container, e divenne di gran lunga la prima fonte di guadagno della Sea-Land. Nel frattempo, decine di altre compagnie erano entrate nel business.
La Guerra in Vietnam fu il volano per lo sviluppo del trasporto intermodale
Nel giro di pochi anni, anche grazie al contributo di McLean, le dimensioni dei container e le caratteristiche delle navi che li trasportavano divennero standard e furono certificati dall’ISO (Organizzazione internazionale per la normazione) alla fine degli anni Sessanta. Oggi i cosiddetti “container ISO”, cioè quelli standard usati da tutte le compagnie per il trasporto intermodale, sono larghi 8 piedi (2,4 metri) e possono essere alti 8,6 piedi (2,6 metri) oppure 9,6 piedi (2,9 metri). La lunghezza può essere di 20 piedi (6,1 metri) o di 40 piedi (12,2 metri), ma esistono anche container lunghi 45 piedi.
Anche la costruzione delle navi portacontainer fu standardizzata, con la realizzazione sul ponte delle imbarcazioni di enormi guide di metallo di dimensioni ben precise, in modo da uniformare le operazioni di carico e scarico.
ADATTARE ANCHE IL TERRITORIO
Questo non vuol dire che la diffusione dei container e delle navi portacontainer nel mondo sia stata fulminea: c’era un problema di infrastrutture, perché i porti dovevano essere in gran parte ripensati, con grandi investimenti, per accogliere le portacontainer e consentire i trasporti intermodali: era necessario costruire gru sempre più grandi per caricare e scaricare i container, e trovare grandi spazi per lo stoccaggio.
Alcuni porti storici che erano stati al centro dei commerci globali per secoli, come quello di Londra, erano troppo piccoli e vicini al centro città per ospitare portacontainer sempre più grandi, e persero gradualmente di importanza. In generale, rinnovare i porti o costruirne di nuovi fu un’operazione che richiese decenni. Ma si avviò e realizzò inesorabilmente, e in tutto il pianeta.
Gli industriali, che avevano sostenuto costi elevati e promosso piani urbanistici antiquati pur di essere vicini a fornitori e clienti, gradualmente presero a trasferirsi altrove. Stimate compagnie di navigazione con secoli di attività alle spalle non sono sopravvissute agli ingenti costi richiesti per adattarsi alla spedizione tramite container. I giorni di congedo in porti esotici dei marinai che si imbarcavano per girare il mondo sono stati sostituiti da qualche ora di sosta in un remoto deposito per container, con le navi pronte a levare l’ancora nell’istante in cui le gru ad alta velocità finiscono di scaricare e caricare gli enormi cassoni di metallo.
Per tutti gli anni Sessanta e Settanta, specie negli Stati Uniti e in Europa, l’introduzione dei trasporti navali tramite container fu contrastata molto energicamente dai potenti sindacati dei lavoratori portuali, e non senza ragione: l’introduzione dei container, che possono essere caricati e scaricati da pochi uomini che manovrano le gru, rendeva superfluo il lavoro dei moltissimi scaricatori che portavano a mano pacchi, casse e scatole, e fece perdere il posto di lavoro a migliaia di persone in pochi decenni.
Negli anni Ottanta la cosiddetta “containerizzazione” del mondo era ormai completa: l’apertura della Cina all’economia di mercato e ai commerci internazionali, cominciata nel 1979, aprì la strada a una nuova fase della globalizzazione. Sempre alla fine degli anni Settanta, il governo americano deregolamentò il mercato e consentì alle società che si occupano di trasporti marittimi di comprare ferrovie e autocarri, e viceversa, diventando davvero intermodali; inoltre a metà degli anni Ottanta gli standard burocratici per i trasporti intercontinentali erano ormai stabiliti.
Alla fine degli anni Ottanta, il 90% delle merci prodotte nel mondo era già trasportato in container.
LA “VERA” GLOBALIZZAZIONE S’È FATTA COSÌ
Il container ha contribuito a distruggere la vecchia economia, ma ne ha anche creata una nuova. Porti un tempo poco attivi, come Busan e Seattle, sono ora fra i più importanti al mondo, e in luoghi come Felixstowe in Inghilterra e Tanjung Pelepas in Malaysia, dove prima non c’era niente, sono sorti nuovi ed enormi terminal. Piccole città lontane dai grandi centri abitati hanno potuto sfruttare il basso costo dei terreni e dei salari per attirare le fabbriche, che non avevano più bisogno di essere vicine a un porto per usufruire di trasporti a prezzi convenienti.
Gli estesi complessi industriali, dove masse di operai trasformavano le materie prime in prodotti finiti, hanno lasciato il posto a impianti più piccoli e specializzati, che inviano componenti e merci semilavorate altrove, all’interno di reti produttive sempre più articolate. Paesi poveri, in lotta per lo sviluppo economico, hanno potuto realisticamente sperare di diventare fornitori dei lontani Paesi più ricchi. In luoghi come Los Angeles e Hong Kong sono spuntati enormi complessi industriali solo perché il costo del trasporto delle materie prime e della spedizione dei prodotti finiti è stato abbattuto.
Questa nuova geografia economica ha permesso ad aziende nate con ambizioni puramente nazionali di diventare società internazionali ed esportare i propri prodotti all’estero con la stessa facilità con cui in precedenza li vendevano nelle aree limitrofe. Tutto questo per scoprire che i bassi costi di trasporto favorivano anche gli industriali della Thailandia o dell’Italia: coloro che non avevano velleità di acquisire una dimensione internazionale e cercavano semplicemente di soddisfare la clientela locale hanno capito di non avere scampo: che lo volessero o no, avrebbero dovuto competere globalmente, perché il mercato mondiale li stava per raggiungere.
I costi di spedizione non offrivano più protezione a chi produceva a costi elevati sfruttando il grande vantaggio della vicinanza fisica ai propri clienti: malgrado i dazi doganali e i ritardi, le fabbriche malesi potevano consegnare camicette da Macy’s in Herald Square a New York City a costi inferiori rispetto a quelli dei produttori di abbigliamento del distretto tessile della stessa New York. Le industrie multinazionali, con impianti in più di un Paese, si sono trasformate in industrie internazionali, creando una rete fra le diverse fabbriche isolate così da potere scegliere la sede più economica in cui realizzare un determinato prodotto mantenendo comunque la possibilità di spostare la produzione da un luogo all’altro a seconda delle fluttuazioni dei costi o dei tassi di cambio.
Nel 1956 il mondo era pieno di piccoli industriali con una clientela locale; alla fine del XX Secolo i mercati esclusivamente locali sono diventati rari e lontani tra loro.
Agli albori del Terzo Millennio il processo di containerizzazione è diventato sempre più centrale per le economie mondiali. Le portacontainer sono diventate più grandi e più capienti, fino alla diffusione nell’ultimo decennio delle Ultra Large Container Vessel. I porti si sono man mano adattati per accogliere navi sempre più gigantesche, e si sono allontanati sempre di più dalle città per diventare degli hub di trasporto regionali e indipendenti.
Questa continua espansione dell’economia di scala, con navi che, come la Ever Given, raggiungono i 400 metri di lunghezza, ha portato notevoli vantaggi alle compagnie di trasporti marittimi, ma è criticata da molti esperti. Le ULCV possono trasportare un’enorme quantità di merci, cosa che in teoria consente di aumentare l’efficienza dei trasporti, ma rendono tutta la catena delle forniture meno flessibile: poiché i porti in grado di accoglierle sono pochi, il numero di regioni che può essere servito da queste enormi navi è ristretto; inoltre le operazioni di carico e scarico si allungano e la catena del trasporto intermodale è messa in difficoltà: quando decine di migliaia di container arrivano tutti in una volta, è più difficile smistarli su treni e TIR.
Inoltre, quando poche navi enormi trasportano un’enorme quantità di beni, la resilienza di tutto il sistema si riduce: chi ha bisogno di trasportare merci ha meno scelta e meno alternative, anche perché negli ultimi 20 anni c’è stato un intenso fenomeno di consolidamento del settore dei trasporti marittimi: nel 2000, le dieci più grandi compagnie di trasporti avevano il 12% delle quote di mercato; nel 2019, dopo una lunga serie di acquisizioni aziendali, le stesse compagnie dominavano già l’82% del mercato.
La scarsa flessibilità e resilienza diventano evidenti anche in caso di incidenti, come ha mostrato uno studio dell’OCSE del 2015, secondo cui in caso di affondamento di una ULCV le perdite ammonterebbero a miliardi di dollari: non soltanto per il valore della merce andata perduta, ma anche per i costi proibitivi del recupero dei resti dell’imbarcazione e per l’impatto ambientale.
Per queste ragioni, molti esperti sostengono che le grandi portacontainer come la Ever Given stiano diventando troppo grandi. Già adesso, come hanno spiegato alcuni esperti al Financial Times, le dimensioni e le capacità di carico delle navi hanno raggiunto il loro massimo: se si accumulassero più container in verticale le imbarcazioni diventerebbero troppo suscettibili ai venti (in parte lo sono già, come ha mostrato la Ever Given a Suez), mentre se si accumulassero in orizzontale la nave diventerebbe quasi impossibile da manovrare.
Alcune grandi compagnie di trasporti si stanno adattando, e gli ultimi ordini di nuove navi mostrano un aumento nella costruzione delle imbarcazioni con capacità di trasporto di 15 mila container: leggermente più piccole di quelle da oltre 20 mila container, come la Ever Given.
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