E quindi è successo: con la “censura” (tardiva e inutile!) dei profili di Donald Trump, i social network hanno fatto definitivamente cortocircuito.
E quindi è successo grazie a lui, il “Cialtrone-in-Chief”, quell’improbabile ciarlatano che l’abilità dei Russi è riuscita a portare per 4 anni in cima alla superpotenza — abilità che è stata capace fra le altre cose di causare la Brexit e il rifiuto del 5G —, e potevamo anche aspettarcelo, visto l’andazzo negli USA, dove ormai pare ci siano venti milioni di “radicalizzati”, gente che nemmeno la fine del Trumpismo riporterà a usare il cervello (i primi sondaggi sono inquietanti: il 68% dei repubblicani non ritiene l’assalto al Campidoglio una minaccia per la democrazia, il 22% addirittura approva l’iniziativa e il 77% rifiuta di accettare che Trump lasci la Casa Bianca).
Trump è un truffatore patentato, un artista del raggiro; lo è stato durante tutta la sua vita di amministratore di condomini pacchiani, di gestore di casinò fallimentari coi soldi degli oligarchi russi, di organizzatore di concorsi di bellezza, di promoter di spettacoli wrestling, di contribuente fiscale non pagante e lo è stato poi da candidato complottista e infine da presidente indecente. È stato aiutato da Vladimir Putin e dal modello di business delle corporation tecnologiche a occupare la Casa Bianca a diventare Cialtrone-in-Chief con l’obiettivo di disorientare l’Occidente, di indebolire i sistemi liberal democratici e di smantellare il sistema di alleanze internazionali costruito nel secondo dopoguerra. Trump è il primo presidente antiamericano della storia degli Stati Uniti: ma non lo è da ieri, quando ha incitato una massa di deficienti, cioè la versione yankee del popolo del vaffa e del Dio Po e per questo ammirata dai nostri retequattristi e dai nostri casaleggisti, ad assaltare il Congresso degli Stati Uniti.
Tanto di cappello, intanto, a questi incredibili Russi, che della Disinformatija hanno ormai fatto un’arte. Hanno prodotto più danni in occidente con le Fake News e il Complottismo che con mezzo secolo di testate nucleari puntate su Europa e America.
La disinformazione ha dentro un po’ di tutto: errori in buona fede, incomprensioni, faziosità, la crisi dei giornali, la scarsa inclinazione dei giornalisti a fare verifiche, la tendenza a rendere semplicistiche le spiegazioni di fenomeni complessi, senza dimenticare il fatto che informarsi costa fatica e che non tutti sono interessati a farlo. I social network, usati abilmente, hanno amplificato il problema, offrendo tra le altre cose scorciatoie per i media in difficoltà, alla ricerca di clic e di soluzioni per mantenere i loro modelli di business basati sulla pubblicità che richiedono grandi quantità di lettori e di pagine viste per essere sostenibili. Fare giornalismo è molto duro quando si devono fare soldi sulla base dei clic, perché difficilmente il giornalismo più oggettivo incontra il favore dei numeri.
Parte di ciò che sta succedendo, infatti, è che c’è una forza del “mercato” che da anni sta spingendo i media a diventare più provocatori. È anche così che si è arrivati al paradosso di un presidente che non può postare su Twitter e Facebook, ma ha accesso ai codici nucleari.
Però lo sappiamo da almeno dieci anni che le piattaforme social sono grandi come nazioni (e con fatturati superiori al PIL di Paesi come la Danimarca) ma, contrariamente alle nazioni, accentrano allo stesso tempo poteri Legislativi, Esecutivi e Giudiziali, sono contemporaneamente Polizia, PM, Tribunale e Boia. Insindacabilmente. Ti chiudono il profilo quando e come vogliono, e se succede non sai a chi rivolgerti. E finché sei un pincopalla qualsiasi poco male, ci rimetti solo in vanità; ma se magari sei un giornale o una piccola impresa che ha investito risorse per anni, amen. Tutto perso.
E noi, tre miliardi di esseri umani che stanno giocando The Game, metà vita dal vero e metà avatar digitali, siamo la loro MERCE: i nostri dati, le nostre abitudini, i comportamenti di consumo, i gusti, le preferenze… tutto viene venduto.
Tuttavia anche questo lo sappiamo da anni: “se una cosa è gratis, vuol dire che il prodotto sei tu”.
Perciò il guaio non è questo.
Un primo problema semmai è che loro, queste piattaforme, sull’Odio, sulle Fake News e sulla manipolazione dell’opinione pubblica ci fanno ogni giorno fantastiliardi di dollari. Grazie a quegli infernali algoritmi che premiano qualsiasi fango e qualsiasi minchiata.
I 5 Big Five della tecnologia fatturano il 50% in più del PIL dell’intera Africa.
A riprova di un business basato sul peggio che sappiamo esprimere come esseri umani (più schifo nel mondo = più fatturato nella Silicon Valley), gli account di Trump sono sopravvissuti a frasi quali «quando iniziano i saccheggi, iniziano le sparatorie», postata durante le proteste di Black Lives Matter nell’estate 2020. Trump ha ripetutamente amplificato affermazioni a sostegno di QAnon, una teoria del complotto che l’FBI ha definito “minaccia terroristica interna”. Si è inoltre vantato della potenza nucleare americana rispetto a quella della Corea del Nord. Eppure @realDonaldTrump (88,7 milioni di followers) ha continuato a fare bella mostra di sé sui nostri schermi.
Trump è bannato, ma nel frattempo il portavoce ufficiale dei Talebani possiede ancora un account Twitter. Così come il presidente indiano Narendra Modi, nonostante il suo governo abbia represso il dissenso e sia all’origine di violenze nazionalistiche. L’account Facebook del presidente delle Filippine Rodrigo Duterte è vivo e vegeto, nonostante abbia sfruttato la piattaforma per attaccare in maniera violenta i giornalisti e nell’ambito della sua “guerra alla droga”. Su Twitter e su Facebook sono presenti estremisti, jihadisti, ayatollah che incitano alla guerra santa. La lista potrebbe continuare. Facebook dice di aver agito contro altri leader mondiali prima di Trump, ma non ha fornito dettagli. In questo contesto le spiegazioni delle piattaforme sembrano inconsistenti, contorte e insoddisfacenti risposte alle domande “perché lui?” e “perché adesso?”.
Tornando al punto… Con la chiusura dei social di Trump e con la rimozione dell’app di “Parler” (ultimo arrivato fra i social network e tutto dedicato agli estremisti di destra e ai complottisti) dagli store Android e iOs, è tutto un disquisire su “libertà di parola” e “democrazia digitale”.
Si son subito formati diversi partiti: quelli che «era ora che lo fermassero, il Cialtrone-in-Capo»; quelli che ritengono scandalosa la «limitazione della libertà di espressione»; quelli che approvano la decisione delle piattaforme ma ritengono assai discutibile che una decisione del genere possa esser lasciata esclusivamente all’auto-regolazione della piattaforma. In quest’ultimo caso si può pure concordare però va detto che finché gli Stati non hanno il coraggio di adottare forme di regolazione, accusare le piattaforme di voler auto-regolarsi è un nonsense logico.
Tuttavia la questione nuova e dirompente — finora sottovalutata — è un’altra: se le piattaforme più famose hanno deciso di oscurare un contenuto o di sospendere un account perché hanno ritenuto che “quei contenuti di disinformazione e incitamento alla rivolta” potessero “generare comportamenti socialmente pericolosi”, allora per la prima volta sia Facebook che Twitter confermano l’esistenza di una RELAZIONE DIRETTA tra ciò che viene postato e comportamenti pericolosi.
Come hanno scoperto questa relazione? In base a quali dati che nessun altro ha? Quali sono le conferme empiriche che hanno trovato, evidentemente in base a dati e a ricerche che le piattaforme hanno a loro esclusiva disposizione?
Perché il Cialtrone-in-Capo è stato bloccato solo adesso? Quand’è che scatta, concretamente, il “pericolo”? Cosa determina il superamento di una soglia critica di quel pericolo sociale che verosimilmente — almeno, così abbiamo creduto fino a oggi — si forma a medio-lunga scadenza, con messaggi ripetuti, con strategie di micromarketing, con sollecitazioni che occupano tempi relativamente lunghi?
Se, infatti, non si basassero su questi dati empirici, le decisioni di Twitter e Facebook sarebbero puramente discrezionali. E dunque sarebbero prive del requisito della buona fede previsto dalla legislazione per l’esenzione da responsabilità nell’esercizio della politica di moderazione.
I confini e i limiti della libertà di espressione, nei Paesi democratici, sono da sempre quanto di più complesso e cangiante il diritto possa creare; cogliere e valutare la legittimità di uno scritto o di un’immagine è molto complesso e l’errore nella moderazione è fisiologico, soprattutto in servizi di condivisione web con centinaia di milioni di utenti. Se un amico chiede «Tutto bene in famiglia?» è una cortesia, se a scriverlo è Totò Riina è una minaccia. Per moderare debbo sapere chi è amico e chi è Totò Riina, e valutare il contesto. Moltiplichiamo questo concetto per i miliardi di post pubblicati nel mondo ogni minuto, e capiremo come la “moderazione” sia qualcosa di letteralmente inapplicabile, un concetto più vicino alla leggenda e all’utopia che alla realtà (a meno che non ci si trovi in una dittatura come quella cinese, dove milioni di persone lavorano 24/7 alla censura dei contenuti Internet)…
C’è un articolo di legge nell’ordinamento americano che ha segnato l’evoluzione di Internet e ha cambiato il nostro modo di comunicare, il nostro modo di informarci e di relazionarci, il nostro modo di viaggiare e di fare acquisti: sono solo 26 parole, ma senza di esse Internet non sarebbe probabilmente ciò che è oggi, nel bene e nel male.
No provider or user of an interactive computer service shall be treated as the publisher or speaker of any information provided by another information content provider.
Il comma, inserito dal Congresso nel 1996 nella sezione 230 del Communications Decency Act, può essere liberamente tradotto così:
Nessun fornitore di servizi Internet e nessun utilizzatore di tali servizi può esser ritenuto responsabile quale editore o quale autore di una qualsiasi informazione che sia stata fornita da terzi.
Per come è nata e per come è stata interpretata dalle Corti statunitensi, la regola è unica nel panorama giuridico mondiale ed è stata la base su cui è cresciuta e si è consolidata l’egemonia delle piattaforme americane. Almeno, fino al momento del blocco dei profili di Trump.
Mark Zuckerberg ha scritto che la decisione di bloccare Trump serve a «evitare ulteriore violenza». Ma non sappiamo se questo sia vero, né se Zuckerberg abbia, in questo o in altri futuri — e passati — casi, gli strumenti per valutare. In altre parole: chi controlla il controllore?
Patatrack! Cortocircuito.
Tuttavia, ripeto, non è che sia la prima volta o che non conosciamo la questione.
Quando per esempio “i poteri forti” decisero che WikiLeaks era un pericolo e Julian Assange il peggiore dei delinquenti fecero una cosa molto semplice: chiusero i rubinetti alla raccolta fondi di migliaia di cittadini in tutto il mondo che volevano che Assange continuasse a mostrare i crimini dell’esercito americano in Iraq. I circuiti bancari americani impedirono a semplici cittadini di mandare soldi a WikiLeaks: Visa, Mastercard, PayPal, Western Union e Bank of America abdicarono al loro ruolo di mediatori neutrali per schierarsi chiaramente. Oggi gli store di Apple e Google e l’infrastruttura di Amazon ostacolano come mai in passato la crescita di Parler, un social network nel quale Trump forse intendeva spostarsi. Sono entrambe forme di censura preventiva, comunque pericolose per tutti noi. Ieri Assange, oggi Trump, domani qualcun altro.
Editori, non-editori, qualcos’altro
Come ha lucidamente osservato Luca Sofri su Il Post qualche tempo fa, probabilmente la discussione se Facebook e Twitter e Google debbano essere considerati o no “editori” non ha senso. La tentazione delle nostre teste di convertire ciò che è nuovo in modelli conosciuti è normale e comprensibile, ma genera fallimenti e contraddizioni: qualcuno, agli inizi del Novecento, quando si trattò di regolamentare il traffico delle prime automobili, si chiese se andassero considerate carrozze o navi, prima che infine si capisse che non erano né carrozze né navi, e che però erano anche entrambe le cose.
Se decidiamo che Twitter non deve attivarsi perché non decide Twitter cosa sia falso, allora perché non abbiamo protestato quando Twitter ha annunciato che avrebbe segnalato le fake news sul coronavirus? E se decidiamo che Twitter non deve farlo perché non decide Twitter cosa sia pericoloso, allora perché non protestiamo quando Twitter blocca o censura le persecuzioni e le molestie personali?
Si sta dicendo cosa sia “giusto” e cosa sia “sbagliato”, in tutto questo? O se abbia ragione Twitter o Trump? No, per una semplice ragione: che è impossibile dirlo. È diventato impossibile. I criteri di giusto e sbagliato, rispetto alle regole a cui eravamo abituati, sono saltati, per quanto riguarda le grandi piattaforme online. La risposta più semplice, per esempio, sarebbe che Twitter e Facebook e Google sono imprese private e completamente nel loro diritto — salvo violazioni della legge, ovviamente — nel fare scelte editoriali o commerciali: non sono un servizio pubblico, noi cittadini non paghiamo le tasse per un servizio di cui veniamo defraudati, la scelta se usarli o non usarli è libera, le condizioni contrattuali sono note.
E però, però. Però sono diventati un servizio ineludibile di fatto. Non si può farne a meno, nei fatti, perché non ci sono alternative, perché agiscono in un regime di monopolio, legale ma ricattatorio. E, a peggiorare le cose, sono monopoli che devono il loro successo proprio alla loro condizione di monopolio. Molti dicono che il problema non esisterebbe se ci fossero «cento social network/motori di ricerca tra cui scegliere»: ma non ci possono essere cento social network o motori di ricerca tra cui scegliere perché la qualità e l’efficacia di un social network o di un motore di ricerca si devono proprio alla sua capacità di essere usato da tutti e raccogliere le informazioni di tutti: è la natura del social network e del motore di ricerca, a differenza di un fornitore di elettricità o telefonia che può essere concorrenziale anche soltanto con la convenienza e la qualità della fornitura, pure se lo usiamo solo mio cugino e io.
E c’è di più. Autentica malafede. Torniamo per un attimo alle parole di Mark Zuckerberg. «We removed this statement… because we judged» (noi abbiamo rimosso questo post… perché noi abbiamo giudicato); ancora: «We have allowed President Trump… we are extended the block we have placed on his Facebook account indefinitely…» (noi abbiamo permesso… noi abbiamo bloccato definitivamente il suo account). È tutto un susseguirsi di «noi» e di permessi accordati. Perciò una singola persona (“noi”, plurale maiestatis), il capo di un’azienda privata, ha deciso che uno dei massimi protagonisti della vita americana (protagonista — ahinoi — per i voti che ha preso, non per altre ragioni) non deve avere accesso alla più popolare fonte di informazione politica negli Stati Uniti.
Zuckerberg è lo stesso Zuckerberg che, appena due anni fa, si è dovuto difendere in Congresso dagli attacchi dei Democratici che gli imputavano il suo appoggio, anzi la messa a disposizione di Cambridge Analytica, che ha guidato e sostenuto la campagna elettorale proprio di Trump, dei dati acquisiti da e per mezzo di Facebook. Perciò il capo di un’azienda privata in un tempo ha deciso che la forza della sua formidabile macchina di consenso poteva essere messa al servizio di uno dei competitor alla Casa Bianca, e in un altro momento che lo stesso competitor, sconfitto alle successive presidenziali, non possa partecipare al dibattito pubblico. E Facebook è la stessa Facebook che non molto tempo fa aveva dichiarato che non era in grado di bloccare le fake-news, sostenendo di non essere un editore, perciò di non essere responsabile dei contenuti, pur essendo il flusso delle notizie e l’ampiezza della loro diffusione determinati da un suo algoritmo proprietario… (C’è del marcio, in Danimarca, anzi in certe imprese che fatturano più della Danimarca…)
C’è pure da riflettere sulle conseguenze profonde del meccanismo del clickbait (cioè il coinvolgimento degli utenti attraverso notizie e idee particolarmente impressive dal punto di vista emozionale), che oggi è l’elemento cruciale che alimenta la polarizzazione politica sia in America che in Europa. La rivolta del Campidoglio è la conseguenza più evidente dell’effetto echo-chamber (la costruzione di bolle autoreferenti di informazione che si alimentano a dismisura attraverso la ripetizione ossessiva, ipnotica dello stesso messaggio nello stesso gruppo di utenti e conseguente chiusura verso qualunque altro contenuto che lo smentisca o lo attenui — vd. anche tutti i blogpost su questo argomento).
Consideriamo poi che negli USA Facebook ha 235 milioni di utenti attivi (un numero spaventoso), e che il 43% degli Americani riceve (e produce) informazione politica soprattutto da (e su) Facebook. In sostanza, considerando anche il tempo utilizzato sulla piattaforma, il coinvolgimento emotivo e la capacità di socializzare il proprio pensiero, Facebook è oggi la principale fonte di informazione politica e perciò la via principale attraverso cui si formano e si alimentano le opinioni politiche. Aggiungiamo, soprattutto, che il 53% delle persone non ha assolutamente idea che le notizie che leggono sui social media sono regolate e selezionate e non sono il flusso spontaneo, incontaminato, neutro di quanto gli utenti producono.
E in Italia è lo stesso. Gli utenti di Facebook in Italia sono quasi 30 milioni, e mediamente vi passano un’ora al giorno (si faccia un piccolo calcolo e si vedrà quanto è immenso e pervasivo questo potere), poi ci sono 20 milioni di utenti Instagram e i 32 milioni che usano WhatsApp, di proprietà della stessa Facebook. Inoltre — è notizia di queste ore — nelle nuove regole in vigore dall’8 febbraio prossimo, i dati dell’utente di WhatsApp saranno utilizzati per annunci pubblicizzati che l’utente si troverà sulla sua timeline di Facebook. Si chiama marketing targettizzato. Dimentichiamo i segmenti di mercato socio-demografici d’un tempo, adesso il target è la singola persona, con nome e cognome, il numero di telefono, l’indirizzo, e le sue scale di preferenza su ogni argomento.
Dunque, scegliamo se prenderci in giro o meno. La storia dell’ultima settimana di Trump sui social network può essere raccontata in due modi. Il primo (dài, prendiamoci in giro) seguendo il mito a cui le piattaforme vogliono che crediamo. Secondo questa retorica, le piattaforme possiedono regolamenti e principî ai quali si attengono, perciò le decisioni che prendono sono valutazioni neutrali e attentamente soppesate. Il secondo modo di vedere le cose (ossia, per favore, non prendiamoci in giro) è più realistico, e considera i post e i tweet di dirigenti e portavoce delle varie piattaforme come foglie di fico, che cercano di nascondere il fatto che la sospensione degli account del Presidente-troll siano il frutto di decisioni arbitrarie e opportunisticamente improvvise, rese possibili dalla mutazione dello scenario politico — Joe Biden ha vinto le elezioni presidenziali del 3 novembre 2020, Donald Trump le ha perse e dunque vada al diavolo, inoltre sia Biden che le maggioranze di Camera e Senato appartengono al Partito Democratico, e notoriamente gli ambienti tech votano in massa per quel partito.
Gli sforzi di presentare le loro azioni come parte di una struttura decisionale coerente e deliberata sono un tentativo di mascherare la scomoda verità che sta dietro ai nostri più importanti spazi d’espressione. E cioè che le piattaforme possono fare — e faranno — quel che vogliono. Negli ultimi giorni una ristretta manciata di potentissimi dirigenti di aziende tecnologiche si sono lentamente spinti verso il limite, incoraggiandosi a vicenda, subendo la pressione di commentatori politici e dipendenti, finché hanno deciso di prendersi per mano e oltrepassarlo, quel limite. Si è trattato di una dimostrazione di potere eccezionale, non di un’ammissione di colpevolezza. Un piccolo gruppo di persone della Silicon Valley sta definendo (e da oltre un decennio) le modalità d’espressione di ciascuno di noi, creando di fatto una zona grigia dove le regole si posizionano da qualche parte tra il governo democratico e il giornalismo, ma lo stanno facendo con decisioni dell’ultimo minuto e con modalità che convengono loro.
È un problema politico, come si vede, e pure colossale. Ci si aspetterebbero quindi sia una sviluppata sensibilità, sia un’intera legislazione in materia. E invece fino a oggi, inizio 2020, non c’è nulla di nulla. Perché? Semplice: la classe dirigente italiana ed europea è del tutto ignorante sul fenomeno. Crassa, banale, colpevole ignoranza — proprio nel senso letterale del termine, sinonimo di insipienza, incompetenza, impreparazione, imperizia, incultura e somaraggine, quella “mancanza di conoscenza” che è condizione che qualifica l’ignorante, colui o colei che ha trascurato la conoscenza di determinate cose che si potrebbero (dovrebbero!) sapere.
Quando non si sa bene che fare di fronte a un problema complicato, la classica risposta dei politici è: «Bisogna investire nell’educazione e nella cultura», e siamo d’accordo, in generale. Ma la casa è in fiamme ora. E l’incendio si spegne in primis con le leggi che esistono già. In Italia, per esempio, l’apologia del fascismo è un reato, e lo deve essere anche online: invece di invocare nuovi censori, dovremmo pretendere politici (e giudici) in grado di far rispettare le leggi. Se Trump il 20 gennaio 2021 dovrà sgomberare dalla Casa Bianca non sarà per le sue parole ma per le sue azioni, e in forza di un sistema ordinato di leggi. Quante volte negli scorsi 4 anni dozzine di repubblicani hanno fatto finta di niente, rifiutando l’impeachment, fingendo di non sapere quel che stava succedendo? Se esiste una risposta a quanto accade ora — e possiamo esser certi che esiste, al netto delle ipocrisie —, va intanto cercata lì.
Per preservare la libertà del discorso pubblico, la libertà di dibattere e persino di far cambiare idea a chi la pensa diversamente da noi (ci sfugge spesso, ma sarebbe questo il punto del gioco democratico), serve un metodo, e non delle decisioni una tantum. Per ragioni etiche e tecnologiche abbiamo bisogno di regole condivise, di alzare gli standard minimi della convivenza in Rete per esempio con profili verificati. Se questo fosse un problema economico, potremmo pensare a un sistema di incentivi, ma con la democrazia è ovviamente più complicato. Bisogna studiare. La metafora della pandemia è efficace: non basteranno da sole le mascherine, non basterà lavare le mani, non basterà il vaccino, ma queste azioni messe in fila possono isolare il virus. Allo stesso modo, le varie misure di educazione all’informazione e rispetto ferreo della legge possono riportare i complottisti a un fisiologico 1%, ovvero a diventare ininfluenti, come quello zio cospirazionista che ci infesta le chat familiari.
Allo stesso modo, anche se la moderazione è impossibile, non vuol dire che non si possa agire. Una maniera per dimostrare la buona fede da parte delle piattaforme sarebbe oggi quello di documentare CON I DATI IN LORO POSSESSO la valutazione della probabilità che un contenuto generi un comportamento “socialmente rischioso” e di aiutare a comprendere come la disinformazione, l’hate-speech, le incitazioni alla violenza si trasmettano con maggiore o minore facilità, verso quali gruppi, attraverso quali meccanismi.
Dovrebbero cioè condividere le loro conoscenze con le autorità e le istituzioni, e non soltanto quando glielo intimano l’FBI o la Polizia Postale su singoli casi penali.
QUESTI DATI ESISTONO. Lo ha già dimostrato tre anni fa lo scandalo Cambridge Analytica: sono sufficienti informazioni su 70 “Mi piace” messi su Facebook per sapere più cose sulla personalità di un soggetto rispetto ai suoi stessi amici nella vita reale, su 150 per saperne di più degli stessi genitori del soggetto, su 300 per superare le conoscenze del suo partner amoroso.
I leader di Facebook e Twitter sono intelligenti, ma non sono saggi. Hanno bisogno di essere guidati da persone che capiscano la geopolitica.
È da qua che devono partire, i social occidentali, se vogliono sopravvivere alla loro “giovinezza”. Altrimenti finiranno presto smantellati.
Con il pericolo che gli utenti occidentali — e parliamo di centinaia di milioni di persone —, una volta chiuse le piattaforme californiane, si dirigano in massa su quelle in mano ai Russi e ai Cinesi: Telegram, VKontakte, TikTok, Parler e quant’altre.
S’è detto dei Russi: ma anche gli interessi del Partito Comunista Cinese, per fare un altro esempio, hanno un obiettivo politico chiaro e assai poco ideologico. Un obiettivo che non prevede tanto la diffusione del comunismo, quanto l’idea che un Paese può diventare ricco e prospero senza essere democratico.
Pensiamo a cosa potrebbe diventare il “pensiero dominante”, la famigerata “opinione pubblica”, qualora si spostasse tutta sulle piattaforme manovrate da Putin e Xi Jinping…
Personalmente comincio anzi ad avere proprio la brutta sensazione del trappolone.
Ossia che è tutto previsto (al Cremlino e a Pechino): i social della Silicon Valley sono stati il cavallo di Troia per inoculare il “virus” in Occidente — e parlo di informazione e opinione, non di quello della pandemia —; poi, prevedendo la reazione dei governi liberali occidentali, che prima o poi sarebbe arrivata (e ormai ci siamo, fra David Cicilline negli USA e Margrethe Verstager nella UE), è già stata predisposta anche la piattaforma di atterraggio, il canotto di salvataggio per le pecorelle smarrite orfane del giocattolo: Parler (fotocopia di Twitter), Telegram (fotocopia di WhatsApp), il “Facebook russo” VKontakte alias VK (identico a Facebook perfino nell’interfaccia, creato — guarda un po’ — dai due fratelli di Telegram), TikTok (una replica con gli anabolizzanti di Instagram), etc. sono già là, pronti all’uso. Aspettano solo le greggi.
Tratto da “Chiudete Internet – Una modesta proposta”, di Christian Rocca — Marsilio Editore, 2019
In Divertirsi da morire, un saggio sulla televisione scritto nel 1985, quando Internet era ancora roba per scienziati, il critico americano Neil Postman diceva che dei due grandi romanzi distopici del Novecento, 1984 e Il mondo nuovo, il più realistico non era quello di George Orwell, come si credeva, ma quello scritto da Aldous Huxley.
Per ricapitolare la tesi analogica di Postman sulla società occidentale, e aggiornarla al nostro tempo digitale, il Guardian ha ricordato che Orwell, con 1984, immaginava che la civiltà moderna sarebbe stata distrutta dalle nostre paure. In particolare quella di essere sorvegliati, e di essere controllati psicologicamente dal famigerato Grande Fratello, mentre Huxley, con Il mondo nuovo, spiegava che la rovina dell’umanità sarebbe arrivata dalle cose che ci piacciono e ci divertono, perché l’intrattenimento è uno strumento di controllo sociale più efficiente della coercizione. Huxley ci aveva preso più di Orwell, insomma, ma quello era ancora, soltanto, il tempo della televisione.
Poi è arrivata Internet, una tecnologia che in un colpo solo ci ha regalato entrambi gli incubi immaginati dai due romanzieri inglesi, sia la sorveglianza da parte di Stati e corporation, come temeva Orwell, sia la dipendenza passiva da app e strumenti tecnologici simile agli effetti sedativi e gratificanti della droga «soma» che, secondo Huxley, possedeva tutti i vantaggi della cristianità e dell’alcol, senza averne nessuno dei difetti.
A qualcuno sembrerà esorbitante sostenere che Internet sia lo strumento di demolizione della nostra civiltà e che l’egemonia del Web abbia seriamente compromesso il futuro della società liberale. Gli argomenti catastrofisti però sono eclatanti e non bisogna essere reazionari per accorgersi che l’ideologia dell’algoritmo, l’abuso e la manipolazione dei dati personali e le tecniche di persuasione digitali stiano modificando comportamenti, abitudini e tessuto sociale del mondo occidentale. La lista delle recriminazioni è lunga: il disordine creato da WikiLeaks negli apparati diplomatici e di sicurezza, la videosorveglianza come strumento di repressione e di abolizione della privacy, l’automazione che riduce i posti di lavoro tradizionali, le ideologie politiche sostituite da algoritmi che pescano il sentiment sulla Rete.
Internet però è la più grande innovazione della nostra epoca, la sua evoluzione è il prodotto dell’etica libertaria degli anni Sessanta e dello spirito del capitalismo delle origini; nasce come antidoto al mondo prefigurato da Orwell e Huxley; è lo strumento congegnato per sconfiggere il totalitarismo e poi sviluppatosi intorno all’idea che la libera circolazione delle informazioni fosse di per sé un fattore di progresso, di conoscenza e di partecipazione alla vita pubblica. La formula “innovazione più globalizzazione” ha creato opportunità, distribuito benessere e liberato miliardi di persone dalla povertà. Questa formula, oggi sotto accusa, è l’algoritmo dell’Occidente. Le alternative sono grottesche. Per questo le distorsioni di Internet vanno affrontate e risolte prima che sia troppo tardi.
L’effetto della rivoluzione digitale è stato dirompente: in pochi anni Internet ha collegato computer e banche dati; il Web ha consentito alle persone di inviare e ricevere informazioni, voci, immagini, musica, denaro in tempo reale; il Web 2.0 ha fatto interagire gli utenti aprendo le porte all’e-commerce; i social network hanno creato un’unica comunità globale; l’Internet delle cose ha messo in contatto gli oggetti tra di loro; gli algoritmi sono diventati lo strumento per estrarre informazioni dall’enorme massa di dati, i Big Data, scambiati da miliardi di persone; l’intelligenza artificiale ha consentito alle macchine di fornire prestazioni simili a quelle umane; il machine learning ha migliorato le prestazioni e le capacità dei dispositivi elettronici grazie a un sistema di apprendimento automatico.
Internet ha cambiato in meglio la nostra quotidianità, facilitandola e arricchendola, offrendo opportunità di sviluppo e di conoscenza inaudite, così come di ricchezza e di divertimento, ma ora che il Web è diventato adulto e che i social network vivono un’adolescenza turbolenta è arrivato il momento di fare un bilancio anche delle conseguenze meno radiose della rivoluzione digitale.
Internet è una cosa, il Web un’altra ancora, mentre i social network sono uno strumento potente e misterioso che si presta ad abusi, anche a causa dell’opacità che li circonda. A minacciare seriamente la società contemporanea, e a far emergere nuovi diritti digitali ancora negati, è l’idea che Google, Facebook e i social network siano piattaforme neutre, né editori multimediali né infrastrutture tecnologiche né fornitori di servizi di pubblica utilità, e per questo non siano responsabili delle informazioni che veicolano, delle attività che vi si svolgono e dei disservizi che causano all’interesse generale. È un’idea sbagliata e pericolosa.
La dittatura dell’algoritmo, la trasformazione dell’utente in prodotto, anzi in cavia da spingere a comportarsi in un determinato modo, assieme allo smembramento dei corpi intermedi della società, hanno indebolito il discorso pubblico dell’Occidente e il risultato è la crisi della democrazia rappresentativa e liberale.
La conseguenza è il grande caos globale che stiamo vivendo. La Brexit, l’elezione di Donald Trump, l’ascesa dei populisti in Italia, le proteste di piazza in Europa, il ritorno dei nazionalismi, ma anche la ritrovata centralità strategica della Russia di Vladimir Putin e la rinascita di leadership autoritarie e illiberali in giro per il mondo, sono la risposta politica all’impatto della rivoluzione digitale sulla comunità globale. Se vogliamo ampliare la sfera di libertà, anziché restringerla, dobbiamo ricostruire un tessuto culturale e politico cancellato dall’indebolimento dei corpi intermedi. Non è una questione ideologica. Non servono interventi di ingegneria sociale. Per ritrovare un minimo di decenza civile è necessario regolamentare i disintermediatori.
I social network non sono da buttare, anzi. Grazie a loro, la società occidentale non è mai stata così aperta e i suoi leader sono costantemente sotto i riflettori dei cittadini, ma il paradosso di questo favoloso ampliamento della libertà e dell’altrettanto formidabile avvicinamento tra il potere e il popolo è che più si critica e più si controlla e più si condiziona chi governa, più si indeboliscono le istituzioni e le procedure democratiche preparando il terreno per l’uomo forte capace di guidare le masse senza tentennamenti. L’esito è sotto gli occhi di tutti e non sbaglia chi vede analogie con gli anni Venti e Trenta del XX Secolo, anni peraltro caratterizzati dalla diffusione di un nuovo potentissimo strumento di comunicazione e propaganda: la radio.
Diffidate, dunque, di chi oggi sminuisce la portata del cambiamento in corso o di chi denigra l’angoscia non solo di un’élite spazzata via dalla disintermediazione sociale e politica, ma ora propria anche di molti dei pionieri della Rete, delusi e affranti dall’evoluzione della loro creatura. Non fatevi abbindolare da chi dice che il progresso tecnologico deve essere lasciato in pace a fare il suo cammino, perché le innovazioni vanno governate, come in passato abbiamo trovato il modo di governare la più grande invenzione tecnologica della prima metà del secolo scorso, il nucleare. L’idea secondo cui ci troviamo in un Game è solo una geniale trovata letteraria di Alessandro Baricco per costruire una narrazione originale della grande mutazione antropologica in corso. Tutto è stato trasformato in partitelle da vincere, come in un videogioco per adolescenti, ma il giochino ci è sfuggito di mano, siamo diventati una società adolescenziale che non tiene più conto dei dati di fatto ed è priva di quei corpi intermedi che, con mille contraddizioni, ci avrebbero potuto proteggere dalla dittatura dell’algoritmo. Basta giocare, adesso. Game over.
La sfida del nostro tempo è quella di trovare un modo di regolamentare le grandi piattaforme digitali, così come si è fatto in passato con i mezzi di comunicazione di massa e con le telecomunicazioni, o con l’energia e le infrastrutture, altrimenti non ci saranno più rimedi contro la fine del mondo, del mondo come lo abbiamo conosciuto, se non quello paradossale di invocare la chiusura di Internet.
(…)
Qual è l’alternativa alla globalizzazione? Non sembra credibile contrapporvi la chiusura delle frontiere, la difesa sovranista delle piccole patrie o una versione aggiornata del Marxismo che nel secolo scorso ha creato fame e miseria e lo fa ancora dove continua a regnare. Non è auspicabile nemmeno l’autoritarismo di Vladimir Putin, Recep Tayyip Erdoğan, Viktor Orbán, Jair Bolsonaro e Rodrigo Duterte. Per non parlare della rivoluzione sciita degli ayatollah iraniani, o del califfato dell’Isis, o del maoismo digitale della Casaleggio Associati che crede di rinnovare le istituzioni democratiche facendo cliccare il popolo sovrano su un server intitolato a Jean-Jacques Rousseau, ossia al filosofo che ha ispirato ghigliottina e totalitarismi e che Isaiah Berlin ha definito «uno dei più sinistri e formidabili nemici della libertà nell’intera storia del pensiero moderno».
Nessuno di questi è un modello migliore della società aperta e globalizzata, o più efficace nel combattere e limitare le ingiustizie e le diseguaglianze. Eppure non bisogna sottovalutare le preoccupazioni e le sensibilità di una nuova generazione di nativi digitali che chiedono maggiore protezione sociale, fiscale e ambientale. Non è un caso che siano proprio i nuovi leader millennial, campioni nel destreggiarsi sui social network come la deputata americana Alexandria Ocasio-Cortez, gli unici a denunciare pubblicamente la posizione dominante dei giganti di Internet e a mettere in guardia la società dei pericoli che corre se non si interviene con prontezza.
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