Motivazioni di un europeista incallito

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«Andarsene dalla UE», «interrompere la Globalizzazione»?

Circa il 40% degli italiani va dietro a gente che parla come se:

  1. il debito pubblico non esistesse (sono «i mercati manipolati e i partner malevoli a ricordarcelo»);
  2. esistessero formule semplici per risolvere il problema (quelle dei Borghi e Bagnai, per intenderci, leghisti nordisti ma con soluzioni del tutto simili a quelle di Totò e Peppino De Filippo nelle truffe più esilaranti del loro periodo d’oro);
  3. potessimo applicare queste formule uscendo «finalmente» dall’Euro e rinunciando allegramente all’ombrello monetario della BCE «che non è un ombrello ma una galera».

La voragine mentale nella strategia sovranista sta nella totale sottovalutazione del debito pubblico italiano, che non considerano perché dicono di avere la bacchetta magica per risolverlo: cioè il ritorno alla banca centrale nazionale, alla Lira, alla creazione di moneta ad libitum.
Il tutto è ovviamente un grande bluff. Solo che accettare di vederlo mettendo le carte in tavola rischia di costarci molto caro: la fine dell’Italia moderna. Occorre capire il bluff senza arrivare a quel punto.

Operazione verità sull’Euro

In Italia manca una memoria condivisa e una comprensione adeguata di alcuni dei passaggi più importanti della nostra storia recente, rispetto ai quali continuano a imperversare nel dibattito affermazioni prive di senso.

La prima riguarda il mito che il problema dell’adesione italiana all’Euro‎ sia stata una inadeguata negoziazione del tasso di cambio tra la Lira e l’Euro alla sua nascita il 1° gennaio del 1999. In realtà per tutte le monete fu utilizzato lo stesso criterio: la media del cambio dei 3 anni precedenti. Qualunque fosse il governo italiano in carica il cambio non avrebbe potuto essere diverso. Ogni polemica su questo è pretestuosa.

La seconda riguarda l’idea che l’aumento dei prezzi, seguìto all’avvio della circolazione fisica dell’Euro il 1° gennaio del 2002, fosse dovuto al cambio. Non è così: il problema fu che il cambio non venne osservato. Ciò fu imputabile a una scelta politica ben precisa del centro-destra, che avendo vinto le elezioni del 2001 tra i suoi primi atti al governo abolì l’obbligo del doppio prezzo per sei mesi e gli osservatori sul change over (il passaggio della circolazione fisica dalla Lira all’Euro) che erano già stati creati presso tutte le province. Il centro-destra smantellò deliberatamente gli strumenti di controllo già predisposti dal governo precedente, ovvero da Ciampi e Letta, scegliendo di non applicare le indicazioni dell’Unione Europea rispetto alla gestione del change over. In pratica Forza Italia, Lega e Alleanza Nazionale decisero di usare il change over per realizzare una massiccia redistribuzione del reddito nazionale dai percettori di redditi fissi (lavoratori dipendenti e pensionati) a favore di commercianti‎, categorie produttive, partite Iva, che consideravano la loro base elettorale.

Ciò di cui non si parla mai sono invece i benefici dell’Euro.

Quando nel dicembre del 1997 furono decisi‎ i Paesi ammessi alla terza fase dell’Unione Economica e Monetaria, tra cui l’Italia, i tassi di interesse sui debiti pubblici iniziarono a convergere rapidamente. In pochi mesi il famigerato spread scese di circa 400 punti. In pratica da quel momento abbiamo risparmiato 4 punti percentuali di interessi l’anno sul debito pubblico. Allora il nostro debito era circa il 120% del PIL, quindi il risparmio era di circa il 4,8% del PIL all’anno. Bastava mantenere le tasse e le spese com’erano, senza fare nulla, senza rigore o austerity, e il debito sarebbe sceso di circa 5 punti percentuali l’anno. È ciò che ha fatto il Belgio: entrato nell’Euro con un debito del 120% del PIL nel 1997, alla vigilia della crisi nel 2007 l’aveva ridotto all’87%.

Purtroppo per l’Italia la manna dei tassi bassi fu usata dal centro-destra per aumentare la spesa corrente azzerando l’avanzo primario. Questa prassi si è manifestata costantemente durante tutti i governi Berlusconi dal 1994 al 2011. Così è toccato sempre al centro-sinistra, nei brevi periodi al governo, di dover risanare i bilanci pubblici per evitare contraccolpi finanziari.
CON IL SECONDO GOVERNO PRODI IL DEBITO ERA SCESO AL 100% E LO SPREAD A 18 PUNTI! IN PRATICA L’ITALIA PAGAVA DI INTERESSI SUL DEBITO SOLO LO 0,18% IN PIÙ DELLA GERMANIA, CHE AVEVA UN DEBITO MOLTO PIÙ BASSO.
Nei successivi tre anni di centro-destra al governo, con la maggioranza più ampia della storia della Repubblica e in grado di legiferare come voleva, il debito risalì al 116% e lo spread a 565 punti, cioè pagavamo 5,65% più della Germania di interessi sul debito, con un costo aggiuntivo rispetto allo “spread a quota 18” di circa il 6% di PIL all’anno: un’enormità. Che ci ha portato a rischio default. Come sappiamo, il centro-destra non volle prendersi la responsabilità delle misure di risanamento necessarie e Berlusconi preferì dimettersi lasciando l’ingrato compito al Governo Monti.

All’introduzione della moneta unica, nel 2002, i tassi bassi favorirono un boom degli investimenti intra-europei e portarono crescita e occupazione. Per la prima volta dopo 30 anni, nei primi dieci anni dell’Euro il mercato europeo ha prodotto più posti di lavoro di quello americano. Inoltre i tassi bassi e la moneta stabile hanno permesso a moltissimi italiani — in precedenza abituati a tassi di interesse stellari e instabili — di acquistare casa‎.

Purtroppo, la percezione sociale dell’Euro fu vittima di una sfortunata concomitanza. L’avvio della circolazione fisica dell’Euro (1 gennaio 2002) è infatti avvenuta nel pieno dell’impennata del prezzo del petrolio dopo l’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001. In un anno e mezzo il greggio aumentò progressivamente da 18 a 144 dollari al barile. Ovviamente ciò comportò un aumento dei costi di produzione e trasporto, e quindi dei prezzi di tutti i beni. Eppure non abbiamo l’espressione “shock petrolifero” per indicare quel periodo. Perché il petrolio si paga in dollari e l’Euro ha raddoppiato il suo valore sul Dollaro (da 0,70 a 1,45 dollari) assorbendo buona parte dello shock petrolifero. In sostanza l’Euro ci ha salvato dallo shock petrolifero, ma ne è rimasto vittima nella percezione sociale.

Dal punto di vista‎ economico, un mercato unico e una moneta unica obbligavano a competere attraverso l’efficienza dei sistemi-Paesi e l’innovazione di prodotto e di processo. Obbligavano alla competizione verso l’alto, sulla qualità, invece che verso il basso, sul costo del lavoro. Perché veniva meno la scorciatoia della svalutazione, che notoriamente avvantaggia pochi esportatori e impoverisce tutti i cittadini e i risparmiatori. Ecco perché l’attenzione e il dibattito si sono spostati‎ sulle riforme strutturali. L’adesione all’Euro permetteva all’Italia — e agli altri Paesi — di competere su un piano di parità. Era l’iscrizione alla gara e ora bisognava iniziare a correre, come inutilmente predicò Ciampi dal Quirinale. Ma nel centro-destra e in gran parte del Paese fu percepita come l’aver vinto la gara. E ci sedemmo, stanchi e soddisfatti, cogliendo i primi frutti dell’Euro: i vantaggi dei tassi bassi di cui ho detto prima. Oggi paghiamo i costi della miopia della classe dirigente italiana di‎ allora.

LA UE È L’UNICO PORTO SICURO

Abbiamo rimosso la vera storia delle democrazie nel Continente. E allora, raccontiamocela, al di là dei miti. L’Europa del dopo Seconda Guerra Mondiale è un insieme di Paesi coinvolti in sanguinarie guerre coloniali. La democrazia francese ha un volto atroce in Algeria, ed è solo l’esempio più eclatante (si potrebbe citare il Congo belga). E sempre in Francia, il conflitto in Algeria porta alla pratica di tortura (denunciata da Sartre). E ancora, la pena di morte è abolita, sempre in Francia, solo nel 1981, l’anno in cui in Italia (qualcuno se lo ricorda ancora?) fu abolito il delitto d’onore. Il diritto delle donne di interrompere la gravidanza era fino alla metà degli anni Settanta un’utopia femminista e in alcuni Paesi le stesse donne non potevano aprire il conto in banca senza l’autorizzazione del marito. Il linguaggio razzista era la norma, i confini tra gli Stati non erano permeabili, a eccezione dei richiedenti asilo fuggiti dai Paesi comunisti. Gli omosessuali se non puniti erano discriminati, gli ospedali psichiatrici assomigliavano a veri lager e vi finivano non solo i malati mentali ma pure bambini irrequieti, donne non sottomesse al maschio (andarsi a rileggere le interviste alla nostra massima poetessa, Alda Merini, suo malgrado finita per un decennio in manicomio), maschi considerati poco virili, “capelloni e drogati”. Nei commissariati di polizia prendere a schiaffi un arrestato era un fatto normale, più volte le forze dell’ordine avevano sparato sugli operai in piazza, in Germania le persone considerate estremiste non potevano essere assunte nella pubblica amministrazione.
Da questo, veniamo. Da questo ci ha liberato, tutti quanti, “essere in Europa”, dare potere all’Unione Europea: abbiamo superato quello schifo tutti insieme. Siamo cresciuti tutti insieme.

Ripassata un po’ di storia, soffermiamoci un attimo sulla geografia, materia ormai negletta, e diamo un’occhiata a che cosa è la nostra piccola Europa nel mondo di oggi, ormai senza più Pax americana. L’attuale Unione era il 20% abbondante del PIL mondiale nel 1986, il 17% nel 2014 e sarà poco più del 14% nel 2024, dice una media delle più accreditate analisi, perché gli altri crescono più di noi. Insomma, malgrado l’Unione, l’Euro e il mercato unico, quanto a dimensioni della fetta di torta ci stiamo rimpicciolendo. E poi come italiani poniamoci una domanda: se ce ne andiamo dall’Unione Europea, dove andiamo? «C’è la Russia, c’è la Cina», dicono molti senza sapere bene che cosa dicono. Lasciare alleati a noi simili, semi-identici in qualche caso, vicini, grossi quanto noi o più piccoli, conosciutissimi, per metterci con altri lontani, enormi, diversissimi e nel caso russo con meno soldi di noi, nonostante le armi e le risorse naturali?

Stiamo vivendo una incredibile evoluzione di scenari internazionali nati 75 anni fa.
La Russia vuole affermare nuovamente una politica di potenza dopo le umiliazioni della fine dell’URSS, e vuole sfasciare la UE per dominare in Europa, “finlandizzandola” e rompendo quindi anche la Nato, e non avendo fondi a disposizione — anzi, trovandosi abbastanza con le pezze al culo — è attivissima soprattutto con la dezinformatzija, parola russa di origine rivoluzionaria, assente dai dizionari occidentali prima del 1980, oggi traducibile nella formula “Fake news a valanga.
La Cina vuole legare l’Europa alla sua economia; ma l’esuberanza economica della Cina è accoppiata a un sistema politico che mai è stato neppure lontanamente democratico, e che ha messo l’autocrazia del partito unico al servizio del vecchio nazionalismo imperiale (vedere quello che sta succedendo a Hong Kong).
Trump (ma anche Obama prima di lui, e quasi certamente chi verrà dopo di lui) vuole togliersi dai piedi la UE per poi trattare commercialmente con ogni singolo Paese facendo la voce grossa.
Tre indicatori che ci dicono che a noi conviene tenerci l’Unione, anche quando non ci piace troppo, e farla avanzare.

Un mio “meme” sulla riunione fiume dell’ultimo Consiglio Europeo in tema di “NextGenerationEU”, l’ammontare delle risorse per la ripresa dopo la pandemia Covid-19

Non son rose e fiori, naturalmente.
L’Unione Europea è un postaccio difficile da frequentare, dove ogni nazione pensa ai fatti propri, dove un solido gruppo dirigente di alti burocrati legati a filo quadruplo con le centrali di potere economico-finanziario opera costantemente con raffinata maestria e spietatezza quotidiana, dove non c’è spazio per romanticismi o slanci di solidarietà, per il semplice fatto che i Paesi membri sono innanzitutto concorrenti tra loro e poi — ma solo poi — alleati e sodali.
Quindi ogni forma di aiuto nelle sedi europee va contrattata al tavolo delle riunioni con asprezza, avendo ben chiaro che gli slanci di solidarietà sono roba buona per conferenze stampa e photo opportunity, ma non appartengono al mondo delle cose reali.
L’Europa insomma è sempre “in malafede”: ma nonostante questo è il miglior progetto politico che abbiamo e, guarda caso, anche l’unico.

Angela Merkel con tutti i nostri premier fin dal 2005. A proposito di stabilità e volatilità…

ITALIA FONDAMENTALE PER LA GERMANIA

Uno degli sproloqui preferiti sui social riguarda la “cattiva Germania”, che sarebbe il nostro peggior nemico. Ma basta dare un’occhiata alle cifre per uscire dalla nuvoletta delle fesserie e rendersi conto di come stiano effettivamente le cose nel mondo reale.
Per la Germania è più importante l’interscambio con il Lazio che non quello con la Grecia: 8,5 miliardi di euro nel 2019, contro 8,2.
Per i tedeschi, la Lombardia è un partner commerciale molto più importante della Corea del Sud: 43 miliardi contro 30, nonostante Seul sia la quinta potenza industriale del mondo, più avanti dell’Italia che è l’ottava.
Ancora, l’interscambio italiano con la Baviera supera quello italiano con la Polonia. Mentre noi a livello Paese commerciamo di più con il solo Baden-Württenberg (regione della Foresta Nera e del Castello degli Hohenzollern, appena 11 milioni di abitanti e poco più estesa della Lombardia) che non con il gigante Russia.
Tra il Veneto e la Germania poi c’è un viavai di merci e servizi superiore a quello tra Germania e Canada — non certo un bruscolino nell’economia globale.
E per chiudere, negli ultimi 10 anni l’export italiano in terra tedesca è aumentato molto di più di quello germanico verso l’Italia, accorciando notevolmente le distanze.

Beppe Grillo, inanellando le solite battute, dichiarava alla folla di Torino, alla vigilia del referendum costituzionale del dicembre 2016, che «l’Europa non l’hanno fatta quei buoni a nulla di Bruxelles, ma la Ryanair che ci porta ovunque con pochi spiccioli». È invece l’esatto contrario: la Ryanair l’ha creata Bruxelles con la liberalizzazione delle rotte avviata a metà Anni 80.

LA UE CI CONVIENE ALLA GRANDE

Ci sono i distinguiscers capiscers puntualizzers della Rete che sciorinano il refrain classico: «Noi diamo alla UE più di quanto riceviamo: solo nel 2017, ultimo dato disponibile, circa 2 miliardi e mezzo di euro».
E io, forte dei numeri del mondo reale, ribatto senza tema di smentita: «Ci sono un MARE di benefici nel far parte della UE e dell’Euro, e voi guardate un disavanzo di appena 2 miliardi?»

Il bilancio dell’Unione Europea, che nel 2017 ammontava a 158 miliardi di euro, è di poco superiore all’1% del prodotto interno lordo del continente e infinitamente più piccolo della maggior parte dei suoi stati: l’Italia ha un PIL di 1,7 migliaia di miliardi, per dire. Inoltre è difficile usarlo come metro per giudicare se l’appartenenza all’Unione convenga o meno: non tiene conto di tutti i soldi che vengono mobilitati (e risparmiati) grazie alle regole europee nel commercio, nella finanza e nel turismo, per esempio. Per non parlare di una serie di benefici intangibili che hanno a disposizione i cittadini europei per il solo fatto di appartenere all’Unione.

Uno dei vantaggi più concreti riguarda, checché ne dicano Bagnai e Borghi, l’Euro: soprattutto per un Paese come l’Italia, che ha uno dei debiti pubblici più alti al mondo e prima aveva una valuta che si era svalutata al punto che gli stipendi dei lavoratori si misuravano in milioni. La parziale cessione di sovranità monetaria alla Banca Centrale Europea ha consentito a tutti i Paesi europei di ottenere maggiore stabilità dei prezzi, tassi di interesse generalmente inferiori a quelli che pagavano prima, e soprattutto una formidabile rete di sostegno ai Paesi più colpiti dalla crisi: durante il programma di Quantitative Easing partito nel 2015 la BCE ha comprato titoli italiani per un valore di 345 miliardi, consentendo sostanzialmente alle banche italiane — e quindi alle imprese — di rimanere a galla.
Applicato in altre forme fin dal 2002 è stato uno shock, ma garantisce la stabilità dei prezzi e dei cambi. Nel 1989 pagavamo il 10% di interessi sul debito pubblico, ora il 2,8%. L’inflazione viaggiava al 6,6%, oggi all’1,2%.
Questi sono i numeri della realtà, che i sovranisti si guardano bene dal citare — probabilmente non li conoscono nemmeno.

La libera circolazione delle persone, e soprattutto gli accordi di Schengen, facilitano moltissimo gli spostamenti all’interno dell’Unione. Per l’Italia, che è il quinto Paese più visitato al mondo, significa soprattutto un vantaggio incalcolabile per quanto riguarda il turismo europeo. Soltanto per dare un’idea: i cittadini tedeschi, che sono fra i turisti più attivi in Europa e sono il 14% dei visitatori che annualmente arrivano in Italia, ogni anno spendono qui da noi circa 5 miliardi di euro (è un dato del 2012, e da allora potrebbe essere decisamente aumentato). Sui dieci principali Paesi di provenienza dei turisti in Italia, sette fanno parte dell’Unione Europea.

Nessuno Stato, da solo, avrebbe potuto creare qualcosa come l’Erasmus. Nel 1987, quando iniziò il programma di scambi culturali, 3.244 giovani partirono da 11 Paesi della CEE per studiare all’estero. Da allora le partenze annuali sono centuplicate e 9 milioni di studenti hanno visto le loro vite cambiate: età media 24 anni, accolti in 5.000 istituti di 33 Paesi diversi, fra gli altri 843.000 italiani. Nel 2021-2027 (Covid permettendo) partiranno altri 12 milioni di giovani: terminati gli studi, cercheranno un lavoro nel mercato unico europeo.

Per quanto riguarda il commercio, l’Italia beneficia anche di accordi commerciali molto più favorevoli di quelli che potrebbe negoziare da sola, perché l’Unione Europea tratta con i Paesi extracomunitari come un unico blocco.
Fra i dieci principali Paesi destinatari delle esportazioni italiane, sette fanno parte dell’Unione Europea. Le esportazioni verso questi Paesi nel 2018 hanno avuto un valore di circa 190 miliardi di euro: se domani uscissimo dall’UE e questi Paesi decidessero di applicare una ipotetica tassa del 5% sui prodotti italiani — peraltro comunque molto bassa —, essa comporterebbe da sola un’ulteriore spesa per 9,5 miliardi.

L’Europa ci ha spesso fatto bene aprendo le barriere alla concorrenza.
Oggi telefonare in un qualunque Paese europeo costa uguale, dal giugno 2017 Bruxelles ha abolito i supplementi esteri. E dal 15 maggio 2019 la tariffa massima per ogni chiamata sia da cellulare sia da telefono fisso fra Paesi UE è stata in ogni caso fissata a 19 centesimi. Dal 2012 a oggi, le tariffe per il traffico dati sono calate del 90%.
Secondo i dati della Commissione Europea, una famiglia di 4 persone nel 1992 spendeva 16 volte in più per andare in aereo da Milano a Parigi, rispetto al 2017. Gli effetti del calo prezzi si sono visti bene: 360 milioni di passeggeri UE nel 1993, contro i 918 milioni nel 2015.

Il più grande mercato al mondo: 508 milioni di cittadini, 24 milioni di imprese e 14.000 miliardi di PIL annuale; un sistema che dal 1990 al 2017 ha creato 3,6 milioni di posti di lavoro in più, e aumentato di €1.050 il PIL pro-capite di ogni cittadino, grazie al libero scambio. Altro che “impoveriti dall’Europa”…

L’80% delle norme ambientali provengono da direttive UE. Bruxelles ha introdotto il principio «chi inquina, paga». E noi siamo fra i peggiori inquinatori. Sono diciassette le procedure di infrazione ancora aperte contro l’Italia: 204 milioni pagati solo per le discariche abusive, 151 per la gestione dei rifiuti in Campania, 25 per il mancato trattamento delle acque reflue urbane, e così via. (Si vorrebbe uscire dalla UE per esser liberi di appestare il mondo come meglio crediamo? No, vero?…)
L’UE ha fissato già nel 1999 gli standard minimi per la qualità dell’aria: limiti a biossido di zolfo, di azoto, polveri sottili e piombo. Nel 2016 la percentuale della popolazione urbana europea esposta alle polveri sottili PM 2,5 (responsabili nel 2015 di 422.000 morti premature per esposizione a lungo termine) è stata la più bassa dal 2006. Resta una minaccia paurosa, certo, ma avrebbero raggiunto risultati migliori, da soli, gli Stati nazionali?

Nascono a Bruxelles gli standard minimi di sicurezza della catena alimentare, con l’obbligo di etichettatura: indicazione della composizione degli alimenti, origine, e contenuti allergeni. Su tutto vigila il Rasff, o “Sistema di allerta rapido per cibi e mangimi”. In ogni nazione è nato un punto di raccolta che notifica a tutte le altre, in tempo reale, i sospetti di eventuali contaminazioni. Se l’Efsa, l’Agenzia UE per la sicurezza alimentare con sede a Parma, conferma la validità dell’allarme, tutti gli Stati ritirano il prodotto. Fra il 9 e il 10 maggio 2019, in 24 ore, il Rasff dirama 23 notifiche a tutta la UE. Tre esempi: “Dal Belgio, rischio di esplosione in vino frizzante dall’Argentina”; “Dall’Italia, presenza di pepe contenente carbendazim (un fungicida, ndr) in frutta importata dall’Uganda”; “Dal Belgio, pesce non dichiarato in lasagna preconfezionata, rischio serio”. Vero, il Rasff non è riuscito a bloccare le uova contaminate olandesi, o la carne dei bovini malati dalla Polonia; ma se non esistesse — e senza l’UE non esisterebbe —, le nostre cucine sarebbero tutte meno sicure.

Funziona allo stesso modo il “Safety Gate” (“Cancello di sicurezza”): una rete di comunicazione-allerta fra Stati che vigila sui rischi dei prodotti in commercio non aderenti alle norme UE (tessili, giocattoli, cosmetici, spesso venduti online) e fa scattare il sequestro in tutta Europa. Solo nel 2018 la rete ha diramato 2.257 notifiche: per l’Italia riguardavano soprattutto sostanze chimiche (34%), giocattoli (23%) e apparecchi elettrici (13%). In tutta la UE, nel 64% dei casi, i prodotti a rischio provenivano dalla Cina. Esempi: la bambola cinese “Happy Day” contiene ftalato, una sostanza che danneggia la crescita del sistema riproduttivo delle bambine; la crema prodotta in Marocco “Face scrub” contiene zirconio, mutagenico che può raggiungere facilmente cervello e placenta, con rischio cancerogeno. Anche grazie alle notifiche giunte da Bruxelles, nel 2017 la nostra Guardia di Finanza e l’Agenzia delle Dogane hanno sequestrato 125 milioni di “pezzi non sicuri”.

C’è poi tutta un’altra serie di benefici a cui è difficile dare concretezza, e che valgono per tutti i cittadini europei, tanto per quelli italiani quanto per i lettoni, i bulgari e i francesi: la possibilità di trasferirsi legalmente in ogni Paese dell’Unione, di lavorare con facilità ovunque, di non cambiare moneta né procurarsi visti da un confine all’altro, di ricevere cure sanitarie gratuite in tutto il continente, e godere di standard sanitari e di sicurezza imparagonabili rispetto al resto del mondo.

Riassumendo: non ha senso dire che l’Italia (al pari di altri Paesi) è stata finora un “contributore netto” al bilancio dell’Unione Europea. Perché se i costi dell’Europa si possono facilmente quantificare (meno di una tazzina di caffè al giorno per ciascun suo cittadino, secondo una metafora facile e veritiera), i suoi benefici non si misurano soltanto con i fondi attribuiti direttamente al proprio Paese sotto forma di “fondi strutturali” o sovvenzioni agli agricoltori. Si misurano in benefici spesso non quantificabili.
È come quando si pagano le tasse allo Stato: lo si fa per avere in cambio dei servizi e dei benefici: scuole di qualità, ospedali efficienti e accessibili, pensioni adeguate, strade, infrastrutture. Non chiediamo allo Stato di restituirci le cifre da noi versate, gli chiediamo servizi e benefici.
La stessa cosa succede al bilancio UE. I 27 governi, cioè i “contribuenti” al bilancio europeo, versano alle casse dell’Unione una quota (pari a circa l’1% del PIL) per avere in cambio benefici o “beni pubblici europei”, come il poter aderire a un mercato unico da mezzo miliardo di persone, come le opportunità di muoverci senza ostacoli all’interno di questo spazio comune come turisti, lavoratori o studenti, come la possibilità di affrontare uniti sfide come il clima, l’intelligenza artificiale o il terrorismo, o come le direttive europee che permettono all’aria di essere più pulita, ai giocattoli e agli elettrodomestici di essere più sicuri, al nostro patrimonio culturale di essere più protetto, etcetera.
L’Italia, versando la sua “quota d’iscrizione” annuale di 12-15 miliardi di euro (a seconda degli anni), riceve dal club europeo tutte queste opportunità (si calcola un beneficio annuale per l’Italia di circa 80 miliardi solo per la sua partecipazione al mercato unico), e oltre a tutto ciò, anche 9-11 miliardi di euro che le autorità nazionali o regionali italiane possono spendere a fondo perduto a sostegno degli agricoltori, di progetti di sviluppo locale, corsi di formazione professionale, lotta alla disoccupazione o inclusione sociale. Sommando il tutto, si tratta di un beneficio netto per qualunque Paese partecipi all’Unione Europea, sia per quelli che, da un punto di vista puramente contabile, contribuiscono più di quanto ricevano direttamente, sia per gli altri. “Il risultato finale è (molto) maggiore della somma delle singole parti”, secondo una felice espressione.

MA L’EUROPA VA COMPLETATA

Certo, la costruzione europea è tutto fuorché completa. Le crisi a ogni livello che hanno segnato l’Europa dopo il fatale ’89 evidenziano l’impossibilità di proseguire sulla vecchia strada, quella dell’illusione che l’unità monetaria e di mercato producesse per benevola partenogenesi l’unità politica, quella dello strapotere di organismi burocratici privi di ogni legittimazione democratica, quella dell’annessione a freddo di nazioni che vivono un tempo diverso rispetto a quello dell’Europa occidentale.

La politica di ripiegamento nazionalista, identitario e xenofobo non risolverà nessuna delle grandi sfide del nostro tempo — la disuguaglianza e il clima —, tanto più che i trumpiani e i brexiter aggiungono un nuovo strato di dumping fiscale e sociale in favore dei più ricchi e dei più mobili, cosa che non farà altro che accrescere le disuguaglianze e le frustrazioni.
È un fallimento collettivo del modo in cui è stata organizzata la globalizzazione economica dagli anni ’80 in poi, soprattutto all’interno dell’Unione Europea. La libera circolazione dei capitali, dei beni e dei servizi senza una regolamentazione collettiva, senza una politica fiscale o sociale comune, funziona innanzitutto a beneficio dei più ricchi e dei più mobili, e tende a considerare invisibili i più svantaggiati e i più fragili.

Non si può definire un progetto politico e un modello di sviluppo facendo leva semplicemente sul libero scambio, la concorrenza di tutti contro tutti e la disciplina di mercato. Certo, l’Unione Europea ha aggiunto due cose a questo schema generale di organizzazione dell’economia mondiale: la libera circolazione delle persone e un piccolo bilancio comune (1% del PIL europeo), alimentato dai contributi degli Stati e che finanzia trasferimenti di piccola entità dai Paesi più ricchi (circa lo 0,5% del loro PIL) a quelli più poveri.
Insieme alla moneta comune (che si trova anche nell’Africa occidentale), è l’elemento che più distingue l’Unione Europea dalle altre zone di libero scambio nel mondo, come per esempio quelle asiatiche e soprattutto quella nordamericana fra Messico, Stati Uniti e Canada, dove non esistono né libera circolazione delle persone né bilancio comune né fondi strutturali regionali.
Il problema è che questi due elementi sono insufficienti per ancorare i Paesi all’insieme. La scommessa dei brexiter è in fondo tutta qui: l’andamento attuale della globalizzazione consente di avere accesso al libero scambio di beni, servizi e capitali conservando il controllo sui flussi di persone, e senza l’obbligo di contribuire a un bilancio comune.

Questa trappola mortale per l’Unione Europea può essere evitata solo ridefinendo radicalmente le regole della globalizzazione, con un approccio di tipo “social-federalista”: il libero scambio dev’essere condizionato all’adozione di obbiettivi sociali vincolanti, che consentano di mettere gli operatori economici più ricchi e più mobili al servizio di un modello di sviluppo duraturo ed equo. In altre parole: i nazionalisti se la prendono con la circolazione delle persone; il social-federalismo deve prendersela con la circolazione sfrenata dei capitali e l’impunità fiscale dei più ricchi.

UNA CORRETTA PERCEZIONE EUROPEA

Accanto alla politica “sostanziale” delle negoziazioni e delle policies c’è poi una politica “teatrale”, fatta di simboli e di immagini (ne ha parlato in un libro recente Luigi Di Gregorio). I policy-makers europei tendono a prendere in considerazione solo la prima, che si fonda su dati di fatto, e a liquidare la seconda, fatta di percezioni e di impressioni soggettive.

Il problema è che è la politica teatrale a determinare l’atteggiamento del pubblico e l’esito delle elezioni. In politica, come constatava già Machiavelli, la percezione ha sempre fatto premio sulla realtà: un dato ulteriormente rafforzato nel corso degli ultimi anni dalla proliferazione degli strumenti digitali e delle possibilità di manipolazione che essi offrono.

In forme diverse, la Cina, la Russia e l’attuale amministrazione americana ne sono perfettamente consapevoli e, tutte, fanno abbondante uso di quello che è stato definito Sharp Power, la capacità di promuovere campagne di propaganda e di re-informazione che prendono di mira le opinioni pubbliche dei Paesi europei.

Per sua natura, l’Unione Europea parte svantaggiata sul piano della “politica teatrale”. Non è uno Stato e la sua intera costruzione è fondata sul rigetto deliberato della dimensione simbolica in favore di un pragmatismo il più possibile sprovvisto di ogni forma di lirismo. A partire dall’inno senza parole, dalle banconote senza volti e dalla capitale senza monumenti, il deficit simbolico dell’Unione è noto e non sarà certo colmato in poche settimane.

In “Blink”, il suo bestseller di qualche anno fa, Malcolm Gladwell sottolineava il potere delle prime impressioni, che producono spesso effetti duraturi. A partire dalla metà di marzo, l’Unione Europea ha messo in campo una serie di misure importanti per fronteggiare la crisi del Coronavirus, ma il problema è che, quando quelle misure sono state annunciate, il momento dell’imprinting, il “Blink”, era già passato. E la prima impressione che avevano dato i Paesi europei è stato quella di un “si salvi chi può” generalizzato e scomposto, tra chiusure delle frontiere e blocchi del materiale sanitario.
Mentre l’Italia precipitava nella crisi più grave dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, l’unico leader europeo che ha trovato parole efficaci per esprimere la sua solidarietà è stato Edi Rama, il Primo Ministro dell’Albania, che non fa parte dell’UE. Nei giorni cruciali, non solo la solidarietà tra Stati membri dell’Unione, ma l’idea stessa di un’azione comune è stata praticamente abbandonata dai principali capi di governo. Nei discorsi storici del 16 e del 18 marzo nei quali annunciavano la messa in quarantena della Francia e della Germania, né Emmanuel Macron né Angela Merkel — i quali mesi dopo hanno invece dato il LA all’azione comune europea — hanno fatto alcun riferimento alla dimensione europea della crisi.
In questo vuoto simbolico e culturale, prima ancora che operativo, hanno trovato spazio Paesi come la Cina e la Russia che, con la complicità decisiva di forze di governo e di opposizione, hanno potuto portare a termine di propaganda e di disinformazione, facendo sfoggio di solidarietà e spingendo le loro versioni dei fatti in Rete.

Mezzi militari russi sulle strade italiane: una sfilata impensabile fino a pochi anni fa, realizzata grazie ai legami del regime di Putin con Lega e M5S

Il risultato, assurdo nei fatti, ma spiegabile sulla base di quanto si è visto e letto sui media nel corso degli ultimi mesi, è che secondo un sondaggio recente gli italiani considerano oggi la Cina e la Russia come i loro principali amici e la Germania e la Francia come le principali nazioni nemiche. Al di là del caso italiano, in tutta Europa si è consolidata l’impressione di una sostanziale disunione, rafforzata dal balletto delle dichiarazioni che hanno accompagnato le trattative sul piano per la ripresa.
Ora sia il Recovery Fund che diversi altri indizi lasciano pensare che, al contrario di quanto è accaduto in passato, le istituzioni europee stiano mettendo a punto una risposta adeguata alla crisi che ha investito il nostro continente. E le iniziative assunte nel corso delle ultime settimane dal Consiglio, dalla Commissione e dalla Banca Centrale Europea sono senza precedenti, sia in termini di rapidità che di dimensione.

Recovery Fund”: 172,7 miliardi all’Italia, 38,7 alla Francia, 28,8 alla Germania. Come fa il suono della pernacchia, a Bruxelles? Eppure è una risposta tardiva e tutt’ora piena di incertezze e ostacoli: il “Blink” è già passato.

Questi sviluppi però non basteranno ad arrestare la disgregazione dell’Europa se non saranno accompagnati da una presa di coscienza, da parte dei dirigenti europei, della vera natura della sfida alla quale sono confrontati. Quella in corso è una «battaglia delle narrazioni», come ha riconosciuto l’Alto Rappresentante dell’Unione, Josep Borrell — salvo essere costretto a constatare la propria impotenza in materia.
Nel 2015 la Commissione UE ha preso atto per la prima volta dell’esistenza di una guerra dell’informazione di livello globale, creando una task force incaricata di combattere le fake news e le operazioni di disinformazione che prendono di mira l’Europa. In cinque anni questa struttura ha svolto un ruolo importante, ma puramente difensivo. È indispensabile che sia ora affiancata da un’azione più proattiva, che promuova la competitività dell’Unione Europea sul piano della battaglia delle narrazioni.

È necessario che l’Europa si doti dei mezzi che servono per rendere la propria azione visibile e comprensibile nell’età dello Sharp Power. Non certo al fine di riprodurre le pratiche più deteriori della propaganda russa e cinese, ma per mettere a punto una strategia, di azione e di comunicazione, che permetta nuovamente ai valori europei di trovare un’incarnazione persuasiva in simboli, immagini e narrazioni. Ci vuole uno “storytelling europeista”, per usare un termine in voga.

Tutti quelli che pensano che sia arrivata l’ora di un New Deal europeo dovrebbero ricordarsi che il New Deal originale, quello di Franklin Delano Roosevelt, non fu fatto solo di politiche economiche e sociali, ma anche di un nuovo modo di fare politica e di comunicarla: mobilitando energie creative e intellettuali e facendo ricorso alla radio e alle tecniche più sofisticate messe a punto da quelli che si sarebbero chiamati da allora in poi gli spin-doctors.
È questo mix di politica sostanziale e di politica teatrale che ha permesso a Roosevelt di sconfiggere i nazional-populisti del suo tempo: una formula che resta attuale per combattere i sovranisti anti-europei di oggi.

LA PANDEMIA E LA GLOBALIZZAZIONE

Sappiamo che il modello politico, economico e sociale della globalizzazione ha dominato gli ultimi decenni, contribuendo a raddoppiare la ricchezza nel mondo, a far uscire dalla povertà estrema quasi due miliardi di persone e ad ampliare la sfera dei diritti su scala, appunto, globale.
Tutto quello che sta succedendo per effetto della pandemia gioca però contro la globalizzazione. Le paure dell’opinione pubblica, l’opacità delle istituzioni multilaterali, le ritorsioni e gli scambi di accuse tra i governi, il protezionismo sanitario, la difficoltà di approvvigionamento di beni e servizi essenziali: tutto questo sembra fatto apposta per consolidare l’idea che la nazionalizzazione della politica e dell’economia ci farebbe vivere meglio, più a lungo e in migliore salute.

Ma non è così. La globalizzazione non è stata un “progetto”, come cospiratoriamente si tende a immaginare, ma un fenomeno storico con ragioni tecnologiche, demografiche ed economiche che non saranno spazzate via dalla pandemia.
La totale riappropriazione da parte dei singoli stati nazionali delle filiere di produzione di beni e servizi essenziali sarebbe non solo costosissima, ma di fatto impossibile. Un Paese come l’Italia, che pure ha un’industria farmaceutica avanzata e di qualità, non riuscirebbe per esempio a fornire a milioni di persone farmaci essenziali senza ricorrere a principî attivi e a prodotti finiti provenienti dall’estero.

Nel nostro Paese, dall’inizio dell’emergenza, abbiamo visto addebitare di tutto, letteralmente di tutto, alla globalizzazione. Come se questo processo negli ultimi decenni avesse aggredito dall’esterno, proprio come un virus, un organismo economico autarchico perfettamente funzionante e non avesse consentito invece all’Italia — proprio grazie alla liberalizzazione degli scambi — di rimanere agganciata, sia pure tra gli ultimi vagoni, al treno dei Paesi avanzati grazie al contributo offerto dall’export al prodotto nazionale e dall’import al bilancio delle famiglie.

Ovviamente, la globalizzazione ha destabilizzato equilibri consolidati. Sbaglieremmo però a considerare il sovranismo come la coperta di Linus dei perdenti o come una forma di legittima difesa di interessi minacciati dai processi dell’economia globale. Faremmo un favore immeritato ai sovranisti regalando loro la patente di difensori dei nuovi oppressi. In Italia la forza politica più ideologicamente protezionista, la Lega, continua a essere primo partito in Lombardia, in Veneto, in Piemonte e in larga parte dell’Emilia Romagna, cioè dove si concentrano i due terzi dell’export italiano.
In provincia di Treviso, dove vivono meno di 900mila persone, la Lega ha preso alle scorse europee oltre il 50 per cento dei voti, in un territorio che ha un export in valore assoluto superiore a quello della Campania e della Puglia.
Non c’è alcuna relazione razionale tra la chiusura delle frontiere economiche, che Salvini spaccia come rimedio di tutti i mali, e la difesa degli interessi concreti degli imprenditori e dei lavoratori che da questa Lega si fanno rappresentare.

C’è invece una relazione irrazionale — ma certamente reale — tra i timori che la globalizzazione infonde, anche in chi ne beneficia, e la reazione politicamente “nevrotica” che l’uso ideologico di questa paura riesce a suscitare e a consolidare.
Mutatis mutandis è quel che vediamo nei rapporti con l’Unione Europea di Paesi come l’Ungheria o la Polonia. Questi devono tutto, letteralmente tutto, all’integrazione nell’UE e nel mercato comune. Invece vince un racconto che equipara sic et simpliciter la “dominazione” europea a quella sovietica, e giunge ormai apertamente a ripudiare i principi di libertà, stato di diritto e divisione dei poteri, che ungheresi e polacchi sognavano dolorosamente proprio dall’altro lato, quello “chiuso”, della cortina di ferro.

A giocare contro la globalizzazione è in primo luogo l’impressione che in una società aperta “mondiale” si perda il controllo democratico dei processi politici, essendo la politica e le relative istituzioni ancora in larga misura nazionali, pur non essendo più nazionale il baricentro delle decisioni e la strumentazione necessaria per darvi attuazione.
Che si parli di cambiamento climatico o di contenimento di una pandemia, di disciplina del commercio internazionale o dei mercati finanziari, di standard di produzione industriale o agricola, è difficile individuare chi, dove e come prende le decisioni che cambiano il modo di vivere e lavorare. E che poi queste decisioni cambino le cose in meglio perde paradossalmente importanza, di fronte all’impossibilità di controllare il processo.

Tra gli appunti da tenere presente per il “dopo”, direi di segnarsi la necessità di un modo creativo per rispondere a questo problema reale, ma avendo consapevolezza di chi sono gli avversari della globalizzazione.
Anche se è banale dirlo, bisogna sempre tenere presente che le reazioni nazionaliste, sovraniste e protezioniste alla globalizzazione — e a quella globalizzazione sui generis rappresentata dall’Unione Europea — non possono proprio essere considerate un effetto di quelle cause, perché le precedono sia in termini storici che in termini ideologici.

L’Italia ha accarezzato il sogno di diventare una potenza globale autarchica molto prima che la frontiera del patriottismo economico diventasse la lotta contro la globalizzazione e l’Unione Europea: fu sotto Mussolini. Sappiamo bene come finì, eppure incredibilmente il Paese oggi sembra di nuovo pieno di “nostalgici”…
Non sappiamo che globalizzazione ci lascerà il mondo post-pandemia. Possiamo però essere sicuri che ci lascerà i soliti nazionalismi.

Le difficoltà del liberalismo e la crisi dei sistemi politici, messi in discussione dalla nostalgia reazionaria della destra e dalla politica identitaria e di genere della sinistra, sono il prodotto di una società che non è più guidata da una missione, come ai tempi gloriosi dell’Apollo con cui l’umanità è andata sulla Luna (nonostante ciò che dicono certi dirigenti pentastellati) o come quella di proteggere il mondo libero dalle mire oscurantiste dell’«impero del male» sovietico.

Un aspetto interessante del processo, ancora più di quello culturale o economico o politico, è quello dell’innovazione tecnologica: perché la tecnologia è certamente progresso, è sicuramente guardare avanti, è senza dubbio scoprire nuovi orizzonti, ma sarebbe da ingenui ignorare che negli ultimi anni si è trasformata in un grande sedativo collettivo, oltre che in uno strumento di emancipazione.

Ne “Il mondo nuovo”, lo scrittore inglese Aldous Huxley spiegava che la rovina dell’umanità sarebbe arrivata proprio dalle cose che ci piacciono e che ci divertono, perché l’intrattenimento è uno strumento di controllo sociale più efficiente della coercizione. In “1984”, invece, George Orwell immaginava che la civiltà moderna sarebbe stata distrutta dalle nostre paure, in particolare quelle di essere sorvegliati e di essere controllati psicologicamente dal Grande Fratello.
I due romanzieri britannici ci avevano preso entrambi, perché oggi c’è la sorveglianza individuale delle piattaforme private, quella pubblica dei regimi autoritari e ora anche quella “anti-Covid” degli Stati democratici. C’è anche la posizione dominante sociale, ludica e commerciale dell’algoritmo che, secondo il Financial Times, ci rende «comodamente intorpiditi» (come nella mitica canzone dei Pink Floyd “Comfortably numb”) «da una tecnologia che sostiene algoritmicamente la mediocrità».
Resta da capire se la mediocrità, l’algoritmo, il populismo e la società decadente siano il sintomo della crisi della globalizzazione oppure, come sembra più plausibile, un modello alternativo (nel qual caso, il sistema che ci ha fatto arrivare fin qui non sarebbe poi così malaccio, al confronto).

COVID-19, LA RISPOSTA GLOBALE

Con la Covid-19 ci siamo trovati di fronte all’epidemia più globale della storia. I virus sono sempre stati globali, ma se un tempo impiegavano anni a viaggiare con carovane, mercenari e marinai, oggi prendono l’aereo. Però, per la prima volta nella Storia, anche la risposta è stata globale. Abbiamo risparmiato mesi se non anni a organizzare la risposta all’epidemia, copiandoci i lockdown a vicenda, stilando protocolli e mandando aiuti. Oltre alle banche dati aperte dove i ricercatori di tutto il mondo scaricano le loro idee sul virus in tempo reale, ci sono media e social che hanno collegato medici di tutto il mondo, permettendo a scoperte, intuizioni ed errori di venire divulgati, discussi e diffusi per salvare vite, aprendo a tutti l’accesso alle informazioni. E rendendo non impossibile l’invenzione e il collaudo del vaccino e/o della terapia definitiva contro la Covid-19 in qualunque Paese, non necessariamente gli Stati Uniti o la Cina, ma anche Israele, Corea del Sud o Italia, in uno sforzo globale che rompe proprio quei monopoli che molti critici della globalizzazione hanno indicato come uno dei suoi effetti collaterali più rischiosi.
Può darsi che per un periodo viaggeremo o commerceremo di meno. Ma la pandemia del 2020 è stata il primo evento interamente globale della nostra storia, più delle Olimpiadi o dell’incendio di Notre-Dame. Non l’abbiamo soltanto visto insieme: l’abbiamo vissuto insieme, co-partecipato e com-passionato, sperimentando per la prima volta sulla nostra pelle e non solo negli slogan il fatto di coabitare lo stesso mondo.

DA CHE PARTE STIAMO, ATLANTICO O CINA?

La tradizionale collocazione geopolitica e geoeconomica situerebbe l’Italia dalla parte degli States. Una collocazione generata della storia e diventata “tradizionale” proprio in quanto forgiata dal sentimento nazionale e dall’orientamento culturale repubblicano. Tuttavia i nuovi sentimenti e orientamenti mettono in discussione questa tradizione.
L’appeal americano in Italia era andato crescendo negli anni della Guerra Fredda per la capacità statunitense d’intervento economico e militare, politico e culturale, senza eguali nella recente storia umana. A dirla tutta, se sul piano militare e politico, le varie amministrazioni a stelle e strisce commettevano più di un errore, l’America mostrava di restare fascinosa e attrattiva per l’attitudine (profondamente ideologica) di presentarsi come la terra delle opportunità e delle libertà.

Il fascio di luce del “faro atlantista” ha avuto la meglio perché s’incaricava di soddisfare sia le vecchie libertà illuministe di parola e di culto sia le novecentesche libertà materiali: quella dal bisogno e quella dalla paura. Le “quattro libertà” roosveltiane raccontavano insieme la forza morale del way of life occidentale e l’utilità pratica di far riferimento a esse per vivere una vita pacifica, operosa e prospera.

A trent’anni dalla fine della Guerra Fredda, quel “faro” spande una luce assai meno intensa. Molti ne dànno per scontata l’esistenza, come se non fosse una costruzione umana. Il perdurante stato di pace veste d’irragionevole ineluttabilità il possesso delle libertà fondamentali. Allo stesso tempo, la massiccia fuoriuscita dalla povertà di centinaia di milioni di persone nella porzione di mondo estranea alla liberaldemocrazia indebolisce la convinzione che il binomio tra democrazia e capitalismo sia quello più utile a lenire le sofferenze umane. Mentre le libertà illuministe perdono vigore, le libertà novecentesche figlie dell’eguaglianza mostrano di essere meno efficaci di un tempo.
L’America ha d’altronde abbandonato l’Italia e l’Europa da almeno tre presidenti. Dopo il disastro iracheno di Bush jr. e il disengagement di Barack Obama, pure Donald Trump sta seguendo un indirizzo isolazionista rigoroso.

La sfida delle liberaldemocrazie è, a un tempo, ideologica e pragmatica. Si tratta di rimotivare l’orizzonte morale delle libertà illuministe e di rilanciare l’utilità materiale delle libertà sociali novecentesche. Solo mettendo mano a entrambe il faro del liberalismo potrebbe riprendere a rilucere come un tempo.

FORZE CENTRIPETE E CENTRIFUGHE

La pandemia poi ha aggiunto un ulteriore afflato alla narrativa del “maggiore chiusura, maggiore sicurezza”. E tuttavia non basta l’ottimismo della volontà per raggiungere l’insano obiettivo dell’autarchia economica. La globalizzazione è un processo profondamente radicato nella struttura organizzativa delle odierne catene del valore: la distribuzione tra le diverse economie mondiali di tecnologie, infrastrutture e capitale umano è il frutto di circa 50 anni di investimenti che non possono essere cancellati dall’oggi al domani per atto legislativo.

Un esempio esplicativo è proprio il caso americano attuale. La progressiva introduzione dei dazi sui prodotti cinesi, cominciata a inizio 2018, ha sì ridotto il disavanzo commerciale di Washington con Pechino dell’8%, attraverso una riduzione della quota cinese importata di più del 10%, ma ha altresì fatto esplodere le importazioni da Taiwan, Messico e Vietnam, ottenendo un misero miglioramento della bilancia commerciale, senza per giunta aver prodotto alcun effetto significativo sull’occupazione statunitense.

Il morto che non muore

Gli ingredienti della “fine” in effetti sembrano esserci già tutti: la caduta verticale della produzione e del commercio, il crollo del prezzo del petrolio, la chiusura delle frontiere e l’incertezza sulla ripresa economica futura. La crisi sanitaria innescata da Covid-19 ha in più colpito duramente le maggiori economie mondiali, e ha alimentato il sospetto verso le organizzazioni sovranazionali e internazionali (come l’Unione Europea e l’OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità) nonché evidenziato le relative criticità. Infine, ha spento quel barlume di speranza di una risoluzione delle tematiche transnazionali in senso cooperativo. E quindi «ci siamo, la globalizzazione è morta». Ma stiamo considerando tutti i tasselli del puzzle? E, soprattutto, non c’è un senso di déjà-vu in questa morte annunciata?
Torniamo a 12 anni fa. Era il 15 settembre 2008 quando Lehman Brothers annunciò l’intenzione di avvalersi del Chapter 11 del codice fallimentare americano. Fu il punto critico di una catena di bancarotte che interessarono alcuni dei maggiori istituti di credito degli Stati Uniti e, nell’immaginario collettivo, l’inizio della Grande Recessione. Le nefaste conseguenze di quel tonfo a Wall Street hanno segnato una stagione politica caratterizzata da un forte risentimento verso il processo di globalizzazione economico-finanziaria degli anni precedenti. E dunque non era forse già quello il colpo di grazia, dopo la crisi asiatica (con default della Corea del Sud nel 1998), la “dot-com bubble”, gli scontri di Seattle e Genova, le Torri Gemelle, alla globalizzazione?

Quali sono allora i tasselli che ci mancano, se quella che abbiamo scambiato per morte era tutt’al più una brutta polmonite? Ci sono tre fattori che hanno determinato la nascita ed espansione della globalizzazione economica come la conosciamo noi oggi: la rivoluzione ICT (le tecnologie dell’informazione e della comunicazione), l’abbattimento dei costi logistici e di trasporto e le scelte politiche favorevoli alla liberalizzazione del commercio internazionale.
Crisi pandemica o meno, gli strumenti informatici che permettono a milioni di persone di comunicare, lavorare e gestire i processi organizzativi sono ancora attivi e largamente impiegati (anzi, per esempio qui in Italia, si sono semmai moltiplicati). I dati raccolti da Eurofund mostrano come almeno un 30% dei lavori svolti nell’Unione Europea siano stati trasformati in telelavoro.

È vero, il costo del movimento di beni e persone è certamente aumentato a seguito delle draconiane misure di lockdown adottate da alcuni governi (a dire il vero, alcuni molto meno di altri, si pensi alla Germania), ma le recenti evidenze suggeriscono un lento ritorno alla normalità.
I dati sul traffico aereo mondiale hanno registrato una brusca frenata a metà marzo, toccando il 25% sul totale nel mese precedente. Nella terza settimana di maggio, tuttavia, il traffico mondiale è raddoppiato rispetto agli inizi di aprile. Segnali di un processo di riapertura che potrà pienamente compiersi grazie alla diffusione di una cura effettiva del virus.

Perciò, in sintesi: no, non sarà nemmeno la terribile Covid-19 a mettere la parola fine alla globalizzazione. Al contrario, la pandemia potrebbe accelerare alcuni processi globali già in corso.
I più interessanti al momento sono — sempre il numero magico — tre: primo, l’aumento dei costi organizzativi e di trasporto potrebbe incentivare il re-shoring di processi produttivi attraverso l’automazione, senza che questo abbia sostanziali ricadute sull’occupazione (con buona pace dei sovranisti); secondo, governi e aziende fronteggiano la sfida dell’approvvigionamento dei beni essenziali: diversificazione dei fornitori e stoccaggio di equipaggiamenti, come quelli medici, sono le strade percorribili al momento, nonostante la prima presenti costi maggiori e tempistiche incerte. Terzo, la scalata cinese alle catene del valore: sarà la Cina capace di sviluppare industrie ad alto valore aggiunto che possano competere con quelle occidentali, e in quali termini inciderà la globalizzazione? Perfino un colosso come Huawei non può fare a meno dei semiconduttori taiwanesi e americani. Allo stesso modo, stante il crescente ostracismo, fino a che punto sarà possibile escludere le avanzatissime aziende del Dragone dalla fornitura di tecnologia per le reti di nuova generazione 5G?

Il caso emblematico del 5G

Questo campo è esemplare poiché contempla tutto ciò di cui abbiamo parlato finora: tecnologia, progresso, processi globali, geopolitica, il triangolo Cina-USA-Russia, fake news e disinformazione.
Secondo le previsioni, la tecnologia del 5G avrà un impatto molto forte sulla connessione e la gestione in rete di dispositivi, oggetti (anche automobili), immobili e intere strutture. Il 5G rappresenterà nei prossimi anni quello che internet è stata negli anni ’90. Tutto passerà sul 5G: Internet delle cose, domotica, trasporti, fabbriche, comunicazioni… è la tecnologia più cruciale degli Anni Venti, perciò chi domina questo mercato, insieme a quello dell’intelligenza artificiale, dominerà il mercato tecnologico nel complesso. Per questo è ritenuta una battaglia strategica da tutte le potenze mondiali.
A oggi sono Cina e Stati Uniti i due Paesi più avanti con lo sviluppo di tale tecnologia. Secondo gli USA la tecnologia cinese rappresenta una minaccia per la sicurezza nazionale e quindi, oltre ad averla in gran parte bandita sul proprio territorio, chiede ai propri alleati di fare lo stesso.
In questo contesto si inquadra la discussione in corso anche in Italia: l’alleanza con Washington e i timori, in parte apparentemente fondati (la National Security Law e la Cyber Security Law cinesi obbligherebbero cittadini, aziende — dunque anche Huawei — e operatori cinesi a fornire assistenza e supporto all’intelligence e all’apparato militare cinese per tutelare la sicurezza e gli interessi nazionali cinesi), per la sicurezza nazionale spingono a ipotizzare un bando per la tecnologia cinese del 5G. Ma dall’altro lato non si vuole rinunciare a cuor leggero al vantaggio in termini economici (decine di miliardi) e di tempistiche (almeno 2 anni risparmiati) che rappresenterebbe l’utilizzo delle tecnologie cinesi già sviluppate.
La partita in corso è quindi sia economica che geopolitica. Questo secondo aspetto emerge anche dall’utilizzo delle fake news da parte di testate vicine al Cremlino: visto il ritardo della Russia in questa partita, per ora a due, è suo interesse cercare di ritardare e danneggiare gli Stati più avanti nella ricerca tecnologica sul 5G. Le bufale messe in giro circa i rischi per la salute che creerebbe il 5G rispondono dunque a un preciso disegno geopolitico, e la cosa è risaputa, oltre che facilmente immaginabile anche da chi non troppe infarinature geopolitiche: eppure funzionano molto bene, a giudicare dall’allarmismo ormai diffusissimo nella penisola (sono centinaia i comuni che hanno vietato le antenne sul proprio territorio). Allarmismo inoculato, ça va sans dire, attraverso i social media.

La partita della globalizzazione, quindi, è ancora tutta da decidersi. E l’Unione Europea vi giocherà un ruolo non secondario. Potremmo mai noi italiani restarne tagliati fuori, potremmo mai noi italiani affrontare da soli problematiche colossali come queste?


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