Ok Boomer

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Fateci caso.

Le piazze che si stanno riempiendo di Sardine vedono la convergenza di Generazione Z (nati dopo il 1996) e della parte più giovane dei Millennial (quelli nati appena prima), con la fascia di Baby Boomer (nati tra il 1946 e il 1964) più colta e benestante. Manca quasi del tutto la Generazione X (i nati dalla metà degli anni Sessanta fino a inizio anni Ottanta).

Questa convergenza è in linea col fenomeno, definito dall’Economist “Socialismo dei millennial”, che è nato e si sta sviluppando in UK e USA. E che vede un numero crescente di giovani e giovanissimi sostenere e votare Bernie Sanders e Jeremy Corbyn, e che ha la sua icona nella più giovane congress-woman della storia parlamentare americana: Alexandria Ocasio-Cortez.

Come ha notato sapientemente il sociologo Giorgio Triani, per i più giovani esprime desiderio di provare quel che è stato loro raccontato e che ormai è storia. Sono stati proprio i giovanissimi, quelli che alcuni pensano che vivano chiusi in un social network, ad aver innescato questo ritorno della piazza dove alcuni addirittura compiono il gesto simbolico potentissimo di scambiarsi un testo cartaceo — non di mandarsi un file con il bluetooth ma proprio un libro di carta, spesso addirittura la Costituzione (e lo hanno fatto anche in Russia) —. Mentre per i secondi è voglia di ritrovare gli ideali e le pratiche della giovinezza: sono 60enni e oltre dallo spirito evergreen e con competenze riconosciute — cioè credibili e autorevoli come mentori e registi di un processo lasciato interamente nelle mani delle giovani generazioni (questi “boomer sapiens” sono una minoranza nella loro classe d’età, soprattutto in Italia).
Non è un caso che manchi qualsiasi riferimento alla “sinistra di governo”, ai leader democratici di quest’ultimo ventennio. Non rivoluzionari veri né riformisti convinti, ma aggiustatori mediocri di un sistema che ha penalizzato soprattutto i giovani. Sono infatti Enrico Berlinguer e la “meglio gioventù” i più citati ed evocati dalle Sardine.

Vignetta di Makkox per L’Espresso

Dopo 20 anni e più di cattiva politica, di protagonismi maleducati e incompetenze esibite, chiedono un reset del Sistema. Nella mobilitazione di piazza anti-leghista si coglie soprattutto la richiesta di “buona politica”, depurata da un leaderismo sguaiato e demagogico. In cui il grosso dei Baby Boomer e la Generazione X in toto sono i principali accusati: visti dalla generazione Z come quelli che hanno «munto la mucca sino a ridurla quasi a secco», per usare la metafora di Time. Nonni e padri che lasciano a figli e nipoti un pianeta surriscaldato, un’economia a rotoli, un sistema finanziario rapace, uno stato sociale sempre più in difficoltà a garantire il presente e ancor più il futuro.

L’età doppia, si diceva. Le Sardine nella loro attuale composizione sono perlopiù giovani e giovanissimi, con presenza significativa di 50/60enni e oltre. Mancano i 40enni, intesi come generazione di mezzo, fascia d’età che si allunga di 5-10 anni sia in basso che in alto, comprendendo 30enni maturi e 50enni “suonati”. Ossia, manca quell’«Italia di mezzo» che, essendo cresciuta e formatasi in una società sempre più spoliticizzata, sempre meno caratterizzata dalla presenza dei partiti e sempre più illuminata dalla tivù e dalla pubblicità, è culturalmente, anche per effetto di lunga esposizione alla tivù commerciale (ovvero a una “programmazione populista”), attratta dalle sirene leghiste e sovraniste.
I 35-50enni non hanno vissuto la stagione delle grandi lotte politiche di piazza, ma quella del disincanto. Quindi sono fisiologicamente refrattari alla partecipazione politica e alla militanza partitica. Ma sono anche poco digitali: usano perlopiù solo i social, perché non richiedono competenze specifiche e abilitanti. Non sono “nativi digitali” bensì “nativi consumisti”. Ciò spiega anche perché questa classe d’età sia la più sensibile alla propaganda, alla comunicazione emozionale.

Le classi d’età di mezzo situabili fra i 35 e i 50 anni scontano oggi, come non era mai accaduto prima, il fatto di non essere più anelli di congiunzione fra giovinezza e maturità, ma piuttosto delle interruzioni — se non delle fratture — generazionali. Queste classi d’età sono compresse, schiacciate, non potendo competere con i nativi digitali sul piano delle abilità e competenze tecnologiche, ma nemmeno con i 60/70enni sul piano dell’esperienza.

Anche perché sono entrati nel mercato del lavoro tardi, così come tardi si sono sposati, e non hanno fatto figli. Non sono svelti e intuitivi come i 20enni, ma nemmeno riflessivi e con la cultura del lavoro dei più anziani. Sono quelli che pur essendo ancora giovani anagraficamente, hanno meno futuro degli altri.
Sono furbi, però con bassa propensione etica, perché hanno coltivato grandi attese e sogni di gloria, essendosi formati nei decenni ’80 e metà ’90, quelli dell’«edonismo reaganiano», della glorificazione del successo e dei soldi. Ma proprio per questo anche il molto che materialmente hanno sembra a loro poco. Quasi niente. Per questo sono eversivi, ma non rivoluzionari. Prova è che i Gilet Gialli francesi sono 50enni, così come il grosso dell’elettorato leghista e sovranista in Italia.

Considerato che la classe politica e di governo attuale, più che mai sgangherata, è nelle mani di leader (Angelino Alfano, Matteo Renzi, Maria Elena Boschi, Roberto Speranza, Luigi Di Maio, Alessandro Di Battista, Matteo Salvini, Giorgia Meloni, Giovanni Toti, e mettiamoci anche Giuseppe Conte e Carlo Calenda) che anagraficamente stanno, appunto, nell’«età di mezzo», si comprende perché abbiamo perso, come Paese, lo spirito imprenditoriale, la creatività e la voglia di lavorare che hanno fatto grande l’Italia nei due decenni postbellici.
Nel contempo non siamo riusciti ad agganciarci al treno dell’innovazione (non solo tecnologica) che ormai è in piena corsa in numerosi altri Paesi e che di questo passo rischiamo di perdere definitivamente.

Da settimane le notizie dei giornali di tutto il mondo sono piene di storie accomunate dal coinvolgimento di movimenti di protesta che hanno portato tantissime persone per le strade. Anche se le mobilitazioni sono nate da motivi differenti, a seconda del contesto, hanno tra loro un elemento comune: la mancanza di chiari leader. È così a Hong Kong, in Cile, in Iraq, nel Libano e altrove. È così anche da noi.
Vista la perdurante assenza di progettualità dell’attuale classe dirigente di quaranta-cinquantenni sedicenti rottamatori, non ci resta che confidare che la discesa in piazza di questi giovani e giovanissimi privi di leader sia in grado, vista la velocità con la quale si sono materializzati dal nulla, di dare vita a qualcosa di radicalmente nuovo.

Intanto, una politica PIÙ GENTILE, capace di tradurre, in forme più avanzate di partecipazione e rappresentanza, le enormi possibilità offerte dall’economia digitale. Visto che sin qui l’uso migliore che abbiamo saputo trovare per l’Intelligenza Artificiale e l’analisi dei Big Data è la pubblicità mirata su Facebook per uno shampoo, o un’app per ordinare la pizza senza dover alzare il telefono.
Mentre invece serve urgentemente regolare la sharing economy, avere idee concrete su cosa farsene della blockchain e trovare rapidamente sistemi efficaci per cambiamento climatico e disuguaglianze.

Nel 2010 uno degli autori più apprezzati del nostro tempo, Malcolm Gladwell, scrisse un potente saggio sul New Yorker contro l’attivismo da tastiera. Si intitolava “Perché la rivoluzione non sarà twittata”. Si era appena conclusa la primavera araba, con il suo eccessivo entusiasmo sulla democrazia che arrivava attraverso Facebook. Molti allora dissero che Gladwell si sbagliava, che non aveva capito l’intrinseca potenza positiva della Rete. Sono passati dieci anni ed è ora di dire che Gladwell aveva ragione: la Rete serve a connettersi, a informarsi, a far circolare idee. Ed è fondamentale per innescare un movimento. Ma poi devi uscire di casa per fare la storia.

UN RIBOLLIMENTO PLANETARIO

In Cile sono stati quattro centesimi di dollaro, il costo dell’aumento della metropolitana. In Libano la tassa di 20 centesimi al giorno della stessa moneta per le videochiamate con WhatsApp, Facebook, Messenger e FaceTime. In Sudan il pane, il cui valore è triplicato. In India le cipolle che hanno fatto registrate il record di rincaro del 700 per cento a causa dello scarso raccolto. In Ecuador la benzina più salata per la fine dei sussidi. Ad Haiti stessa miccia e non vengono più protetti gli alimenti di prima necessità. E non è rimasta immune nemmeno la ricca Arabia Saudita per il raddoppio del prezzo di un oggetto voluttuario, l’uso del narghilé nei caffè e nei ristoranti.
I diseredati del globo si ribellano a ogni latitudine. Gli sconfitti dalla globalizzazione, stanchi di veder crescere la forbice tra ricchezza e povertà, riempiono le piazze, sfilano in corteo verso i palazzi del potere, scandiscono slogan, impauriscono i regnanti che talvolta cedono, e si rimangiano i provvedimenti quando ormai è troppo tardi.

La miccia lunga dello scontento ha esaurito la sua corsa e dopo l’esplosione non bastano le briciole. Quattro o venti centesimi di dollaro sono la causa scatenante che trascina un treno di insoddisfazione. La folla presenta un conto finale. Che non riguarda solo le tasche, il portafogli, contempla anche diritti negati, libertà, la richiesta di farla finita con caste troppo longeve nelle stanze del comando, dunque spesso corrotte. Fino a far scrivere a Bernard Guetta, su “Repubblica”, che risuonano contemporaneamente nelle strade le tre parole chiave della Rivoluzione Francese: libertà, uguaglianza, fraternità. E a scorgere i segni di un neo-illuminismo che avanza e che chiama in causa la ragione, il cervello, dopo la fase del populismo intestinale.

Le proteste hanno un minimo denominatore comune e caratteristiche assai diverse, e sempre più spesso sono senza leader, movimenti a cui manca il catalizzatore del consenso. Ma, sebbene nell’Italia ombelicocentrica ce ne stiamo appena accorgendo grazie alle Sardine, il 2019 è un anno di masse in rivolta. E magari Conakry, capitale della Guinea, o Khartoum, capitale del Sudan, non fanno notizia. Tuttavia una mappa ragionata del pianeta Terra e delle sue turbolenze ha tanti puntini rossi che denotano una malattia.

Il non ancora fatale, comunque significativo, 2019 ebbe il suo prologo nel suo predecessore 2018 vicino a noi, nella Francia dei Gilet Gialli, e il motivo fu l’annunciato aumento di 6,5 centesimi di euro al litri del gasolio e di 2,9 centesimi della benzina, per favorire la transizione ecologica. Fu la Francia rurale a sollevarsi, a invadere Parigi, a devastare i Campi Elisi, in odio alla Ville Lumière servita e riverita di mezzi pubblici mentre in campagna i tagli al welfare avevano cancellato treni e autobus, oltre a caserme della gendarmeria e piccoli ospedali. Rendendo l’automobile una necessità e non un piacere. Dopo 23 settimane di cortei ininterrotti e richieste che si sono fatte vieppiù politiche (“Macron démission”), nell’ultima primavera inoltrata il movimento che si vantava di non avere capi, o di averne una pluralità, si è disperso in mille rivoli. Non prima però di aver filiato imitatori nel confinante Belgio o in Serbia. Belgrado si univa a un malcontento “cittadino” che aveva già contagiato Varsavia, Budapest, Podgorica, Tirana, una corposa fetta dell’Est stanca di presidenti o primi ministri variamente populisti ed eletti col consenso massiccio delle aree lontane dai grandi centri. Una peculiarità europea riscontrabile anche nella Gran Bretagna della mai consolidata Brexit dove le città contestavano l’uscita dall’Unione Europea sancita con un referendum che avvalorava il dualismo urbanità contro ruralità.
Risultati pratici: scarsi o nulli. L’impasse inglese continua, a est c’è stata la conquista delle opposizioni di qualche capoluogo mentre la gente si dirada nelle piazze rassegnandosi al dominio di leader oltremodo longevi (fino a quando?).

Emigrando dall’Europa, il vento dell’insoddisfazione ha cominciato a spirare nel mondo arabo, toccando Paesi che erano rimasti immuni dalla “primavera” del 2011 poi velocemente abortita. L’Algeria, ex colonia francese, ha interpretato come un affronto la volontà di candidarsi per un quinto mandato del presidente Bouteflika, colpito da un ictus nel 2013 e da allora mai più comparso in pubblico. Evitato il contagio di otto anni fa quando si erano infiammate le confinanti Tunisia e Libia, oltre al poco distante Egitto, grazie alle generose elargizioni permesse dal gas e dal petrolio (prezzi bassi per gli alimentari e aumento degli stipendi), ora la situazione è completamente mutata perché il valore del greggio si è di molto abbassato ed è impossibile sostenere un welfare generoso. Non solo. Il perenne ricatto della “stabilità” reso possibile dalla memoria della sanguinosa guerra civile degli Anni Novanta non vale per le generazioni di giovani che si vogliono liberare di una gerontocrazia autoreferente e corrotta. Bouteflika ha dovuto rinunciare al suo proposito, sancendo una vittoria solo parziale degli insorti se le elezioni presidenziali sono state rimandate già due volte e chissà se si terranno davvero il 12 dicembre come previsto in una situazione nella quale ai candidati d’opposizione è di fatto impedito di fare campagna elettorale, le galere traboccano di prigionieri politici e le ONG denunciano sparizioni di personaggi contrari al regime. Stessa sorte di Bouteflika ha subito il dittatore sudanese Omar al-Bashir, dopo 30 anni di regno incontrastato. La crisi economica e le condizioni di indigenza di una larga massa della popolazione hanno partorito oceaniche manifestazioni a Khartoum dopo l’annuncio che sarebbe stato triplicato il prezzo del pane. I circa mille morti in piazza sono stati il costo della deposizione di al-Bashir pur se il cammino verso una parvenza di democrazia è ancora lungo, con i militari restii a lasciare il potere e a condividere con i civili l’incerta fase di transizione.

Si è dimesso anche il premier libanese Saad Hariri, sull’onda delle sommosse seguite alla tassa sulle telefonate via social network e nonostante il provvedimento sia stato ritirato. Lo sventurato Paese senza pace, però tradizionale paradiso del sistema bancario internazionale, affronta un’emergenza che il governatore della banca centrale Riad Salameh non esita a definire vicina al collasso. Servizi pubblici obsoleti. Terzo debito pubblico al mondo, 152 per cento. Deficit delle partite correnti al 25 per cento, entrate costituite in gran parte dall’IVA e che dunque colpiscono tutti allo stesso modo. E l’1% della popolazione che detiene un quarto della ricchezza. Il tutto ingigantito dall’enorme afflusso di profughi della guerra siriana (un milione e mezzo in totale: uno ogni 4 abitanti). I giovani sono i protagonisti dei cortei, tutti insieme, stanchi delle divisioni sanguinose dei padri tra sunniti, sciiti, cristiani, drusi. Così come i loro coetanei perlopiù disoccupati sono i protagonisti dei disordini esplosi in Iraq e repressi dal regime o delle marce anti Al Sisi nell’Egitto sotto il pugno di ferro dei militari.

L’America Latina è l’altra area emblematica. Il Cile è paradigma e sintesi della “globalizzazione della protesta”. Dopo il colpo di stato di Augusto Pinochet fu laggiù, alla “fine del mondo”, che i Chicago Boys sperimentarono in modo violento il loro modello ultra-liberista con l’avallo del dittatore, tra i migliori amici di Margaret Thatcher. Era la fine degli Anni Settanta. Quarant’anni dopo ecco i risultati. L’uno per cento della popolazione detiene un quinto della ricchezza, il salario medio è di circa 400 euro e le pensioni di 170 euro, in uno Stato dove il costo della vita è paragonabile a quello italiano. E dove dunque la promessa del benessere per tutti è stata largamente disattesa e la corsa ai consumi a rate ha gettato le famiglie sul lastrico dopo il vano inseguimento dello stile dei benestanti. L’aumento del biglietto della metropolitana (e va ricordato che Dilma Rousseff, in Brasile, cadde anche per il rincaro che il suo governo decise sul prezzo dell’autobus), poi ritirato dallo spaurito presidente della repubblica Sebastian Pinera, ha acceso il fuoco sulle note della proverbiale canzone “El pueblo unido jamás será vencido”. La risposta è stata, se non nell’ampiezza, nelle modalità simile a quella del golpe: ricorso ai militari, torture, violenze, come se il richiamo di una storia recente di modi spicci fosse irresistibile.

Spostandosi a nord, in Ecuador troviamo uno stato d’emergenza di due mesi vergato dal presidente Lenin Moreno che ha anche spostato la sede del governo dalla capitale Quito a Guayaquil. Perché a Quito tassisti, autotrasportatori, studenti, rappresentanti della popolazione indigena non hanno digerito la revoca dei sussidi per il carburante in vigore dagli Anni Settanta. Scontri con la polizia e arresti sono il film pressoché quotidiano a causa della misura concordata con il Fondo Monetario Internazionale in cambio di un credito di oltre 4 miliardi di dollari per il Paese. Lo stesso FMI aveva imposto analoga misura ad Haiti e la benzina aveva sofferto un balzo del 50% trascinando un malcontento dovuto anche alla scarsità dei beni di prima necessità e alla corruzione di cui è accusata la classe politica. Classe politica nel mirino anche in Perù e Bolivia per l’accusa di brogli.

La mappa non sarebbe completa se non si citassero almeno due casi pur dai presupposti molto diversi. Naturalmente Hong Kong e la “rivolta degli ombrelli” contro la legge sull’estradizione e più in generale contro l’ingerenza dell’ingombrante Cina. E la Barcellona della rabbia per le pesanti condanne ai leader indipendentisti, dove non tramonta il sogno secessionista.
Pura politica? Non del tutto se la Catalogna, area più ricca della penisola iberica, rivendica la volontà di un maggior ritorno sul territorio delle tasse che devolve alla fiscalità generale. Tra soldi e diritti la connessione è molto più solida di quanto si creda.

Ok Boomer!

E IN ITALIA?

In Italia, tolta la novità delle Sardine, el pueblo non solo non appare unido, ma non appare proprio. La stessa definizione di popolo fatica a trovare una declinazione che non sembri strumentale. Ci sono i populisti, è indubbio, ma il popolo dov’è? Sarebbe lecito aspettarsi che siano i movimenti a coordinare il dissenso e renderlo visibile, ma in questi anni sembra che i populismi abbiano svolto esattamente il compito opposto: quello di disinnescare il conflitto popolare e convogliarlo verso forme controllabili e sempre meno destabilizzanti. Lo stesso Beppe Grillo rivendicò per il Movimento 5 Stelle il ruolo di camera di compensazione della rabbia popolare, dichiarando che era solo grazie a loro se l’Italia non aveva avuto rivolte nelle strade.

Le ragioni di questa scomparsa della piazza fino all’avvento delle Sardine sono diverse. La prima — ma anche la meno evidente — è che in Italia manca totalmente una coscienza nazionale, in assenza della quale a prosperare sono i nazionalismi, che ne sono la devianza. A differenza di tutti i Paesi nei quali in questo momento stanno avvenendo i moti di piazza, l’Italia non è stato un Paese colonizzato — se non per porzioni e in tempi diversi — e non ha mai dovuto reagire tutta insieme al potere violento di un soggetto più forte che almeno per negazione abbia obbligato gli italiani a definire i criteri di un’identità collettiva. Nemmeno la guerra, il più rozzo degli strumenti di coesione nazionale, ha potuto svolgere questa funzione, perché negli ultimi duecento anni i soli conflitti che gli italiani hanno combattuto, oltre a quelli quella civile della resistenza partigiana contro i fascisti, sono stati quelli che aggredivano il territorio altrui, anziché difendere il proprio.

Al dato dell’assenza di coscienza nazionale si aggiunge un’evidenza che è in parte consequenziale: la politica in Italia è personalizzata, non collettiva. Dal 1994 sui simboli elettorali hanno cominciato a comparire nomi di persona, spostando simbolicamente il progetto politico dal corpo sociale a quello individuale del capo. Vent’anni di bipolarismo, la scomparsa delle modalità di partecipazione di base e un linguaggio gradualmente sempre più centrato sulla figura e sulle gesta del capo/capitano, senza distinzioni di destra e sinistra, hanno generato un meccanismo di identificazione nel leader che ha sublimato la partecipazione collettiva, quella che però secondo Gaber costituiva il cuore stesso della libertà democratica.
Al contrario, come detto in precedenza la caratteristica più interessante dei recenti moti di popolo nel mondo (eccezion fatta per il movimento ambientalista dei Fridays for Future) è che non sembra esserci un leader a convocare le persone in piazza. Le comunità reagiscono in modo spontaneo a condizioni che sono percepite come oppressive per tutti, non solo per qualcuno a vantaggio di qualcun altro.

In Italia a tenere banco con numeri da rivolta popolare sembrano piuttosto le sfide televisive tra leader, sistematicamente messe in scena con un linguaggio machista e muscolare, costruito secondo lo schema cinematografico dello scontro tra titani, Alien vs Predator, due Golia senza alcun Davide. Dentro a quello schema non ci sono più elettori partecipi ma eterni telespettatori, tanto nell’urna quanto nelle chiamate pubbliche sotto le insegne di partito, dove la categoria di popolo si diluisce in quella di tifoseria e le migliaia di convenuti si identificano nel loro campione, sostenendolo con il coro acritico di una curva allo stadio.

Lo scenario politico italiano in questo modo appare più come uno spazio di rappresentazione che di rappresentanza, e non appare strano che in questa cornice bidimensionale le grandi battaglie per intestarsi il dissenso e gestire il consenso avvengano sui social media, che spesso vengono definiti “piazze virtuali”, pur non essendolo — sono invece realissimi luoghi di disinnesco della piazza, che offrono l’illusione della presenza attiva senza i risultati della partecipazione diretta.

Se è vero che chi progetta spazi progetta comportamenti, una politica davvero responsabile del futuro oggi rinuncerebbe alla modalità leaderistica, che favorisce il disimpegno e la logica della delega, e aprirebbe nuovi spazi di condivisione e partecipazione, a partire dai quartieri fino all’ultimo degli organi istituzionali. Se nessuno lo fa, è perché in fondo la piazza piena non piace ad alcun potere.

Ok Boomer!


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