È come se l’elettorato si muovesse alla stregua di un enorme banco di pesci, oppure di uno stormo di volatili, di quelli capaci di oscurare il sole. In fremente attesa di identificare un capo da seguire simultaneamente, un Pifferaio Magico in grado di attrarli al suono melodioso delle sue promesse.
«Quando raggiunsero il fianco della montagna
un meraviglioso portale vi si aprì,
come se si fosse creata improvvisamente una caverna;
il Pifferaio entrò e i bambini lo seguirono,
e quando alla fine tutti furono all’interno,
la porta nella montagna si chiuse velocemente.»
Negli ultimi 5 anni a turno Renzi, Di Maio e Salvini hanno incarnato un ideale di capo carismatico, hanno parlato a tutti gli italiani esprimendo una visione capace di attrarre consenso molto al di là del proprio elettorato: così grande da avvicinarli a un livello di rappresentatività tale da portarli a governare il Paese in sostanziale autonomia e a imprimere una svolta culturale – di immagine, di linguaggio – all’Italia intera. Salvini, addirittura, nello spazio di un solo lustro è riuscito a passare prima dal 6,2% (1,6 milioni di voti, elezioni europee 2014) al 17,4% (5,7 milioni di voti, elezioni politiche 4 Marzo 2018) e poi a raddoppiare il consenso fino al 34,3% (9,1 milioni di voti, elezioni europee 26 Maggio 2019), percentuale identica a quella del PCI di Berlinguer nel celeberrimo record raggiunto il 21 Giugno 1976. Il suo elettorato originario, quel sei su cento di appena un quinquennio fa, rappresenta una sparuta minoranza di coloro che lo sostengono oggi.
Se si vuole vincere, ci vuole un unto del signore che sia riconosciuto come tale dai propri elettori ma soprattutto da coloro che votano normalmente per un altro partito.
È sorprendente ma è così: è un’epoca in cui i voti si spostano a milioni di qua e di là come sulle montagne russe (ogni riferimento a Putin è puramente casuale) sulle note di una melodia magica.
Nella Prima Repubblica, quando la DC raggiungeva a più riprese il 40%, si presumeva ragionevolmente che quello stabilito dalla Balena fosse un sistema di potere duraturo e stabile: a ogni elezione semi-plebiscitaria ci si poteva rassegnare per almeno i successivi 20 anni; se il PSI di Craxi guadagnava l’1% i giornali strillavano per una settimana “clamorosa onda lunga”; quando il PCI cominciò a essere in vista dei venti o venticinque punti percentuali, addirittura si mobilitarono le forze atlantiche con la Strategia della Tensione, Gladio e la massoneria per fermare il “pericolo rosso”.
Oggi una formazione che a un’elezione raggiunge picchi di un terzo dei voti totali è meno solida di una palafitta piantata in una palude fangosa.
Il PD ha preso il 40,8% nel 2014 e si è ritrovato al 19% solo quattro anni dopo. Il Movimento 5 Stelle ha preso il 32,7% alle politiche 2018 e un anno dopo sta sotto al PD al suo minimo, 17%. La Lega occupava una dozzina di poltrone a Montecitorio nella scorsa legislatura: oggi è al 34,3% e se il 26 Maggio 2019 si fosse votato per le Politiche invece che per le Europee, le sarebbero toccati 250 o più deputati.
Cosa avevano in comune il PD del 2014, il M5S del 2018 e la Lega del 2019? Come hanno fatto ben tre formazioni politiche diverse ad avere in mano, nel breve volgere di 5 anni e in modo apparentemente travolgente, il pallino del gioco politico nazionale?
Leadership. Un uomo solitario su uno schermo (non più quello di una TV come un tempo: ora è un PC, un tablet, uno smartphone). Un Pifferaio Magico.
Proprio nello stesso momento in cui l’elettorato faceva trionfare Salvini alle Europee 2019, lo stesso elettorato confermava sindaci, al primo turno e con percentuali bulgare, Dario Nardella a Firenze, Giorgio Gori a Bergamo, Antonio Decaro a Bari, Matteo Ricci a Pesaro e Matteo Biffoni a Prato: tutti di centrosinistra, l’area opposta a quella di Salvini. A conferma che con una leadership forte e capace di parlare a tutti, anche e soprattutto agli avversari (come quella di un Nardella di un Gori o di un Decaro), si può vincere anche nella più avversa delle condizioni.
Un uomo dotato della capacità di mettere in piedi una proposta che per natura, energia e ampiezza produca una specie di esplosione del consenso. Rapidissima a crearsi, grazie anche alla Rete e ai social media, ma anche a rischio di spegnersi con la medesima rapidità.
Un uomo e il suo “piffero”. Ossia un messaggio chiaro, semplice, inequivocabile. Anche politicamente scorretto, se necessario. Scomodo. A prova di bambino, anche un poco screanzato. E strategico, non meramente programmatico. Visionario. De-ideologicizzato — ’ché le ideologie sono un orpello del Novecento.
Donald Trump, durante la campagna per la Casa Bianca, ebbe modo di dire che gli americani lo avrebbero eletto presidente anche se fosse sceso sulla Quinta Strada armato fino ai denti e avesse fatto fuoco sui passanti.
Leadership. Irresistibile per gli elettori degli altri, ancor più che per i propri.
Salvini, con messaggi che ad alcuni fanno letteralmente venire il voltastomaco — dai porti chiusi al disprezzo per il 25 Aprile, dall’uso propagandistico del Viminale a quello blasfemo del rosario —, si fa capire senza equivoci e senza indecisioni. Alcuni lo votano per quello. Altri lo votano nonostante quello. Alla fine sia i primi che i secondi votano per lui. E nessuno dei suoi sodali lo ha mai contraddetto: nessuna parola di Zaia o di Maroni contro le intemerate salviniane. Zitti e mosca.
Tutto il contrario di ciò che succede da altre parti: Renzi continua a subire fuoco amico, Di Maio si è appena messo nelle stesse condizioni. Prima o poi toccherà anche al pifferaio che suona oggi.
Un’altra melodia seducente e indispensabile che il Pifferaio fa uscire dal suo Piffero Magico è l’impressione di essere “esterno al sistema”, non compromesso con l’establishment, con i fantomatici “poteri forti” e “gufi” e “professoroni” a turno richiamati prima da Renzi, poi da Di Maio e ora da Salvini. Di essere “nuovo”. Gli elettori, in un Paese distrutto dalla crisi economica e ingessato fra debito pubblico e corruzione, richiedono a gran voce “cambiamento”, una novità qualsiasi. Come nella moda. Come nei modelli di auto. Come in tutte le dinamiche consumistiche.
Così è stato per Renzi nella sua fase “rottamatore”, così per Di Maio leader di un movimento iconoclasta che voleva scardinare il Parlamento con l’apriscatole, come una confezione di tonno. Quando poi l’elettorato a torto o a ragione li ha percepiti come parte integrante dell’establishment, quando la fatica di governare e il compromesso che giocoforza ne deriva hanno attenuato la loro spinta innovativa, entrambi hanno perso, e rovinosamente. Il loro piffero ha cominciato a produrre note stonate ed è stato coperto dal vociare scomposto dei soci del pifferaio.
Succederà ancora. A meno di rivoluzioni, guerre, meteoriti mass-extinction che ci piombano addosso dallo Spazio. Succederà ancora proprio perché non esiste più ideologia, non esiste un vero programma politico, non esistono politiche economiche, esiste solo consenso fine a se stesso e sollecitato 24/7 sui social: ogni Pifferaio alla lunga stanca, la sua melodia passa di moda come i pantaloni a zampa di elefante.
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