Sperduti. Smarriti.
Questa è la definizione esatta del nostro momento storico come italiani.
L’Unione Europea, così come si configura attualmente, non è riuscita a dare una risposta alle trasformazioni globali, a partire dalla Caduta del Muro, e queste difficoltà si sono acuite nel tempo evidenziando l’incapacità di affrontare adeguatamente la crisi economica del 2008, crisi che ci trasciniamo ancora. Nell’ultimo trentennio l’Europa ha smarrito alcune ragioni fondamentali per le quali era stata pensata, ideata, voluta e sperata. Doveva essere una comunità, i cui valori vertevano su solidarietà e sussidiarietà. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, nel momento in cui si rafforzavano titani come USA e URSS e ne emergevano di nuovi come la Cina, l’europeismo era considerato non come una rinuncia delle sovranità statali ma come l’unico modo per difenderle in un sistema globalizzato in cui il potere politico e militare passava nelle mani degli imperi e dei grandi Stati politici. Con la CEE e l’UE, il continente che sovrasta il Mediterraneo è invece venuto meno alle aspettative.
Populismo e “sovranismo” — un insieme eterogeneo di nazionalismo protezionistico, tradizionalismo religioso e identitarismo locale — sono gli effetti di un venir meno dell’ispirazione europeista, e contemporaneamente di una subalternità culturale al modello planetario neoliberista che s’era prepotentemente affermato prima con Ronald Reagan e poi con Margaret Thatcher. Tutte le scuole politiche europee uscite nel secondo Dopoguerra si sono trovate subalterne a tale modello.
Specialmente a sinistra. E specialmente in Italia. Il vituperato Renzi è soltanto l’epigono di una lunga storia che attraversa prima i laburisti inglesi, poi i socialdemocratici tedeschi, infine la maggioranza dell’Ulivo italiano.
E nel momento in cui il populismo centro-nordico trionfa, il pericolo di un simmetrico populismo meridionale (vittimistico e parassitario) era — e ancora è — sempre incombente.
Il Debito Pubblico è cresciuto anche prima del governo Conte e non è mai stata un’emergenza della nostra politica economica: era la derivata di politiche di supposta crescita. Una possibilità, non una preoccupazione. Allo stesso modo, la fine dello Stato di diritto come concezione diffusa deriva molto dal ventennio berlusconiano, che nei fatti ha sdoganato il populismo. Anche gli “80 euro” di Renzi sono una forma di populismo. Certo, oggi Salvini afferma di non voler rispettare il 3% del rapporto deficit/PIL: ma quanti hanno detto la stessa cosa, almeno una volta, prima di lui? Troppi. Sono gli stessi che una volta al governo definivano l’Unione Europea come una sorta di matrigna austera e insensibile, perché non concedeva loro di spendere quanto volevano.
Di Maio e Salvini non sono “colpa” di Berlusconi e Renzi, le responsabilità sono diffuse; i pentaleghisti si sono inseriti in un terreno già precedente arato. Questi mesi non sono un “incidente della Storia”, il disordine li precede. Chi ha fatto la “voluntary disclosure”? Non è anche quello un incentivo all’irresponsabilità fiscale?
Aldilà della perdita di identità a sinistra, oggi abbiamo a che fare con una destra che ha abbandonato ogni ideologia neoliberista. La stessa Lega non ha nulla in comune con la destra tradizionale ma ha sposato in toto una prospettiva di destra nazionale e sociale. Laddove non c’è un pericolo, lo inventano. In un Paese con il 20% di disoccupazione generale e il 50% di quella giovanile, con i redditi in calo e il potere di acquisto precipitato, è normale si viva una situazione di radicale incertezza e precarietà. La destra, come ha sempre fatto, utilizza questa insicurezza per andare a caccia del responsabile e individuare il capro espiatorio: prima erano gli avversari politici, ora è il turno degli stranieri.
Andrebbe fatto un discorso onesto sugli errori del passato. Una cosa del tipo: «Amici, guardate che l’unico modo per salvare lo Stato nazionale e la propria sovranità nel mondo contemporaneo, se non vogliamo ridurci a servi dei grandi imperi, passa per il (ri)costruire un’Unione Europea sui valori di solidarietà e sussidiarietà dei primordi». In sostanza, ripristinare il sogno di Spinelli a Ventotene e l’integrazione europea post-bellica. E una volta detto ciò si spiega a tutti, razionalmente, quello che va cambiato.
Previa indispensabile autocritica sulle politiche attuate in questi anni, va dimostrato di aver capito finalmente le ragioni della sconfitta, una sconfitta dovuta a difetti culturali di grande portata e non a “pecche sulla comunicazione” come qualcuno vorrebbe farci credere.
Siamo in attesa che il PD torni a essere un soggetto progressista, di sinistra e in difesa degli strati sociali più deboli. A oggi, sta facendo opposizione da destra: critiche rivolte contro il reddito di cittadinanza, il salario minimo, il decreto dignità, perfino in difesa dell’austerità imposta dall’Europa. All’unisono con Forza Italia. I dirigenti Dem difendono ancora il Jobs Act e il precariato, Macron e Juncker! È paradossale, perché il governo gialloverde sarà costretto, per far quadrare i conti, a proporre perfino una patrimoniale: una tassa per i ricchi a cui una sinistra sensibile al tema della redistribuzione delle ricchezze dovrebbe essere favorevole. Invece il PD ha già detto che si opporrà, per dire.
Insomma, lì dentro non hanno ancora capito, dopo più di un anno, le ragioni della sconfitta del 4 marzo 2018: non si interrogano sul perché vincono soltanto ai Parioli e non nelle periferie. Pensano ancora di aver perso le elezioni a causa delle fake news diffuse da Putin.
Il neo-arrivato segretario Zingaretti avrà successo solo se riuscirà a modificare radicalmente lo statuto del partito, costituendo un gruppo dirigente che sia davvero competente e autorevole, e che sia capace di lanciare grandi sfide programmatiche su temi come l’economia, la cultura, la scuola, la città.
Gli inizi però non promettono nulla di buono. Si continuano a ignorare segnali che arrivano dalla vita reale: come quando si ignorarono i voti che la Lega prendeva tra gli operai di Vicenza. (Un solo esempio: un listone per le Europee che infila dentro di tutto e di più, «un’alleanza», come ha spiegato Zingaretti, «che va da Macron a Tsipras», un autentico zoo che parte dal medico di Lampedusa e finisce con Carlo Calenda, lo scalpitante rampante che fino a sei mesi fa propugnava il Fronte “Repubblicano”…!)
Il consenso non è più nei recinti dei partiti e delle ideologie, ma rimane lì fuori con una identità ancorata intorno ai fatti. E aspetta solo di trovare nuovi protagonisti che lo interpretino.
Per esempio, in campo Ambiente. Come il successo dei Verdi in giro per l’Europa dimostra.
A parità di investimenti, il numero di posti di lavoro che si crea è triplo nel settore delle tecnologie per l’efficienza energetica e delle rinnovabili rispetto al comparto “oil and gas”. Invece i profitti delle major petrolifere sono immensi mentre le conseguenze negative su ambiente e salute vengono esternalizzate e pagate dalla collettività. Il refrain lo conosciamo bene: il ricatto “salute contro lavoro” (come a Taranto); dignità umana contro sopravvivenza; spoliazione dei territori contro finta modernizzazione. Guardare al territorio semplicemente come un’area da saccheggiare e devastare, e i cui impatti sulla popolazione dal punto di vista sociale, economico e sanitario possono essere tranquillamente ignorati.
Se vogliamo attirare investimenti dall’estero, dobbiamo dare la certezza che sappiamo dare vita a produzioni sostenibili ed energie alternative, dimostrare di saper affrontare il problema della riduzione e del riciclo dei rifiuti. Peraltro, qui c’è un altro paradosso: dal punto di vista del riciclo siamo tra i Paesi più avanzati, ma non siamo in grado di sfruttare questa forza, perché non abbiamo l’industria per lavorarli. Esportiamo i rifiuti, nonostante siamo in grado di riciclare tutto. Anche il tema dell’economia circolare è rafforzato e suggerito dal terzo settore: se dessimo forza a questo intreccio tra economia sociale ed economia circolare, potremmo davvero salvarci.
Governo “gialloverde”, un anno di fraintendimenti
Lo scenario del governo grillino-leghista dal suo insediamento è riassumibile in pochi ragionamenti, tutti fatti male.
Nei primi scontri con la UE, l’argomento era: «La Francia per finanziare la sua manovra economica farà un deficit del 2,8%. Siamo un Paese sovrano esattamente come la Francia. I soldi ci sono e si possono finalmente spendere a favore dei cittadini. In Italia come in Francia». È vero. Fra il 2008 e il 2016 la Francia ha sforato la famigerata soglia del 3% del deficit ogni anno, nove volte su nove, ed è stata punita con la procedura d’infrazione. Solo nel 2017 il disavanzo di bilancio è sceso al 2,6%.
Però a noi non lo lasciano fare. Ed è semplice capire perché.
Nonostante ripetute infrazioni, la Francia ha un rapporto Debito/PIL inferiore al 100%: si avvicina soltanto, alla zona del pericolo, e soprattutto ha uno spread zero virgola, mentre quello dei Titoli di Stato italiani supera stabilmente quota 200. E il rapporto Debito/PIL italiano è al 132%.
Poi c’è il “giochino dell’altalena”: fin dai tempi di Berlusconi, i governi italiani presentano un deficit basso ad aprile per poi alzarlo progressivamente nel corso dell’anno con vari trucchi contabili, e sempre fingendo la faccia sorpresa, per poi passare i mesi autunnali a negoziare con Bruxelles e BCE su un livello intermedio. Insomma, li prendiamo regolarmente per il naso da quasi 20 anni.
In breve, il ragionamento “lo fanno loro, lo facciamo pure noi” non fa una grinza. Il fatto è che questo “pure noi” riguarda un Paese che sui conti è profondamente malato, e da decenni in malafede con l’Europa. Non rispettiamo mai i patti. E “succhiamo” sempre più soldi laddove non dovremmo (ci perdiamo per esempio gran parte dei fondi europei per lo sviluppo perché i nostri amministratori regionali non sanno presentare i progetti. E sono paccate di miliardi).
Questo governo paga colpe non sue. Ma la sostanza non cambia: il malato con la febbre a 40 non lo puoi far alzare per andare a correre la maratona. Così, come se niente fosse, «perché lo fa pure la Francia» (che non ha alcuna febbre).
«Non ci possiamo impiccare sui decimali e sugli algoritmi», rispondono piccati i vertici italiani dello Stato di fronte ai rilievi internazionali. È giusto. Sacrosanto. Il problema dell’Italia non è tanto il debito quanto la crescita ferma.
Ma se, già indebitato fino al collo come sei, ti metti a fare una manovra a ulteriore debito non per la dannata “crescita” bensì per condoni fiscali, per abbassare le tasse a chi ha di più, per creare 400mila nuovi pensionati il cui peso cadrà totalmente sulle spalle di chi oggi ha 16–25 anni ed è già disoccupato-precario-sottoccupato, per dare un reddito minimo a chi non lavora “in modo che consumi” ma senza garantirgli un lavoro… chi vuoi che ti creda, quando dici che la tua manovra “alzerà il PIL”?
Se chiedi ulteriori soldi, lo fai per creare infrastrutture, per il cablaggio a banda larga, per l’alta velocità da Salerno alla Sicilia, per mettere in moto la sostenibilità ambientale nell’edilizia, per aumentare la produttività attraverso il digitale e lo snellimento della burocrazia, per la ricerca, per l’istruzione. In una espressione che tanto piace oggi, per “creare decine di migliaia di nuovi posti di lavoro attraverso politiche keynesiane”. Uso i soldi che mi prestano per comprare e per piantare semi, che dopo anni diventeranno piante, alberi, frutti. Non per annaffiare un paio di orticelli asfittici e vasi con piante ornamentali già esistenti, prendendo per i fondelli i creditori: «Fidatevi, sembrano rinsecchiti, ma ora vedrete come faranno frutti a quintali, anche le piante ornamentali».
Non è in corso un “accanimento contro l’Italia”: è solo che non si fidano di noi. Non intendono pagare oltre le nostre (dis)avventure.
E hanno ragione. «Tanto a Maggio ci sono le Europee e i vari tecnocrati ce li leviamo dalle scatole», pensa Salvini, prendendo una cantonata grande quanto una montagna: chiunque venga dopo, non allargherà i cordoni della borsa per finanziare noi, non prenderà i soldi dei Tedeschi o degli Olandesi o dei Belgi o dei Francesi per riversarli nelle casse italiane.
La grande presa in giro: la “Crescita”
A livello di “massimi sistemi” non c’è nulla di così complicato.
Capire è semplice. È agire, il problema. Un po’ come per i Cambiamenti Climatici.
Era il 1992, al governo c’era Giuliano Amato, alle Finanze il compianto Giovanni Goria e al Tesoro Piero Barucci. In un’intervista TV il giornalista interrogava Goria sui disastrati conti pubblici e il ministro rispose, candido e un po’ contrito: «Ne usciremo. Ma a pagare saranno i nostri figli».
Ecco, è esattamente quello che sta succedendo oggi: quei “figli” di cui parlò Goria 27 anni fa siamo noi. Paghiamo le politiche dissennate cominciate già allora, dopo la Caduta del Muro e la fine della Guerra Fredda. E i nostri figli pagheranno più di noi.
Perché hai voglia a inseguire in eterno la “crescita” per far funzionare la macchina e finanziare i tuoi debiti: è un meccanismo infernale che non può durare. Un errore di fondo insito nel Consumismo: funziona per mezzo secolo quando esci da una guerra e devi ricostruire tutto. Non in tempi di pace.
Stringendo la prospettiva al nostro futuro come Italiani, per quanto ci riguarda siamo legati mani e piedi da un lato all’andamento delle “cose globali”, dall’altro alla struttura stessa del nostro benessere, basata sul “consumo”. Bastano poche riflessioni per capire che questo farà sì che non avremo alcun modo di decidere il nostro fato, almeno finché non arriva una guerra o una super-catastrofe (asteroide?).
Come mai negli ultimi decenni tutti i Paesi industrializzati hanno accumulato debiti pubblici sempre più consistenti, fino a raggiungere (nel 2010) valori che vanno da un minimo dell’80% del prodotto interno lordo nel Regno Unito al 225,8% in Giappone? Nell’Eurozona, sempre a valori 2010, il rapporto debito/PIL è salito dal 79,3 all’85,1%. Eppure il “patto di stabilità” firmato dai Paesi dell’Unione Europea nel 1999 fissava al 60% la soglia massima di questo rapporto. E ancora: perché gli Stati e le amministrazioni locali spendono sistematicamente cifre superiori ai loro introiti? Perché il sistema bancario induce le famiglie a spendere cifre superiori ai loro redditi?
Alla risposta ci si arriva d’intuito: perché la sovrapproduzione di merci ha raggiunto un livello tale che se non si acquistasse a debito, crescerebbe la quantità di merci invendute e si scatenerebbe una crisi in grado di distruggere quel sistema economico e produttivo fondato sulla crescita infinita del PIL, inventato dagli Americani.
Proprio nel tentativo di far ripartire la crescita e aumentare il PIL, negli ultimi 15 anni in Italia è stata finanziata la rottamazione delle automobili, sono state concesse agevolazioni fiscali per la costruzione di nuove case, sono stati dati incentivi all’installazione di impianti a fonti rinnovabili senza porre vincoli a favore degli autoproduttori né della tutela ambientale, è stata deliberata la costruzione di opere pubbliche tanto costose quanto inutili.
Ciononostante, gli incrementi della spesa pubblica in deficit non hanno riavviato la crescita (come del resto in tutti gli altri Paesi industrializzati), né hanno diminuito la percentuale dei disoccupati (che anzi è aumentata). Insomma, abbiamo speso denaro pubblico, abbiamo aumentato il debito sovrano e non abbiamo ottenuto nulla.
Per quale ragione gli stimoli forniti alla ripresa economica attraverso la spesa pubblica non hanno dato i risultati attesi? Perché nei Paesi industrializzati lo sviluppo tecnologico ha determinato un eccesso di capacità produttiva che cresce di anno in anno. Macchinari sempre più potenti producono in tempi sempre più brevi quantità sempre maggiori di merci con un’incidenza sempre minore di lavoro umano per unità di prodotto. Per questo la disoccupazione aumenta invece di diminuire.
Inoltre queste tecnologie sono molto costose, e per pagarle le aziende si orientano sempre più verso la finanza; in più i macchinari non possono rimanere fermi, perché ne deriverebbero forti danni economici in termini di ammortamento dei capitali e di mancati guadagni: devono lavorare a pieno regime, e tutto ciò che producono deve essere acquistato anche se non ce n’è bisogno. Quindi le tecnologie accrescono l’offerta di merci in misura superiore alla crescita della domanda e ciò comporta una diminuzione dell’occupazione, la diminuzione dell’occupazione riduce ulteriormente la domanda. Perciò in queste condizioni perverse l’unico modo per incrementare la domanda è l’indebitamento.
Noi italiani, poi, disattendiamo completamente ogni ragionamento sul futuro. Come può per esempio salvarsi un Paese, se lascia che i suoi giovani stiano a casa a non fare nulla o se ne vadano all’estero perché in Italia non hanno opportunità? Qui si misura l’assenza di lungimiranza della nostra classe dirigente. I giovani sono pochi, perché non facciamo più figli da troppi anni; e sono sempre più poveri, perché i migliori se ne vanno all’estero, mentre ne abbiamo 2,2 milioni che non studiano e non lavorano. Una classe dirigente responsabile si dannerebbe per farli uscire dalla “discarica dei talenti” in cui sono confinati: ci sono tantissimi talenti anche tra i cosiddetti Neet, e ce li stiamo perdendo tutti. E peggio ancora va “alle” giovani di questo Paese: abbiamo fatto grandi passi indietro nell’uguaglianza di genere.
I giovani italiani hanno anche meno diritti politici di chiunque in Europa. In Italia per essere eletti all’Europarlamento bisogna avere 25 anni, che è l’asticella più alta in Europa: in Francia puoi essere eletto a 23 anni, in Germania a 20. Come noi c’è solo la Grecia, che tuttavia fa votare anche i diciassettenni. Li facciamo fuggire, li cestiniamo e non diamo loro i diritti civili che hanno i loro coetanei. E la cosa più grave è che nemmeno ce ne preoccupiamo, di dar loro un po’ di rappresentanza in più.
LA CANZONE DELL’ALTROVE
Eravamo ragazzi, annoiati a morte, compressi in edifici scolastici fatiscenti, vessati da insegnanti repressi e depressi, e ci dicevano: «Studiate, sennò non sarete nessuno nella vita». Malgrado tutto, studiammo.
Dopo aver studiato ci dissero: «Ma non lo sapete che la laurea non serve a niente? Avreste fatto meglio a imparare un mestiere…». Lo imparammo.
Dopo averlo imparato ci dissero: «Che peccato, però: tutto quello studio… per finire a fare un mestiere?». Ci convinsero e lasciammo perdere.
Quando lasciammo perdere, rimanemmo senza un centesimo. Ricominciammo a sperare, disperati. Prima eravamo troppo giovani e senza esperienza. In un attimo eravamo già troppo grandi, con troppa esperienza e troppi titoli.
Eppure finalmente trovammo un lavoro: a contratto, ferie non pagate, zero malattie, zero tredicesime, zero Tfr, zero sindacati, zero diritti. Lottammo per difendere quel limbo.
Non facemmo figli — per senso di responsabilità —, e fummo adulti. A quel punto altri adulti più adulti di noi ci dissero, dall’alto dei loro lavori trovati facilmente negli Anni ’60, con uno straccio di diploma o anche solo con la licenza media, quando “si vinceva facile” davvero: «Siete dei bamboccioni, non volete crescere e mettere su famiglia». Così ci dissero, e intanto pagavamo le loro pensioni, mentre dicevamo per sempre addio alle nostre. Alcuni ci riproducemmo malgrado tutto, e allora ci urlarono: «Ma come, senza una sicurezza né un lavoro con un contratto sicuro, fate figli? Siete degli irresponsabili». Non rispondemmo: potevamo mica ucciderli per rabbia?
Così emigrammo. Andammo altrove, alla ricerca di un angolo sicuro nel mondo. Lo trovammo, ci sentimmo bene. Ci sentimmo finalmente “a casa”. Ma un giorno, quando meno ce lo aspettavamo, il “Sistema Italia” fallì e tutti si ritrovarono col culo per terra. Allora ci dissero: «Ma perché non avete fatto nulla per impedirlo?».
E ora pure il casino libico
Come se non bastasse la politica, ci si mette di mezzo anche la geopolitica.
In Libia l’Italia è rimasta con il cerino dell’appoggio ad Al-Sarraj in mano. Un cerino acceso che si consuma a gran velocità. Gli USA, che nel luglio scorso ci avevano promesso (incontro a Washington tra Trump e Conte) una cabina di regia comune per la Libia? Non pervenuti. D’altra parte c’è l’Arabia di mezzo e quelli di Washington sanno che del proconsole bin-Salman, da loro rifornito di armi e aiuti di ogni genere, possono fidarsi. Purtroppo i Sauditi stanno con Haftar. L’Unione Europea? Non pervenuta, anche se un’eventuale deflagrazione della Libia diventerebbe — non foss’altro che per la prossimità geografica — una questione europea. Non pervenuta, l’Europa, anche di fronte allo scandaloso comportamento della Francia, che fa professione di europeismo e di fedeltà all’ONU ma da dieci anni conduce la guerra in Libia: nel 2010 con Sarkozy che bombardò Gheddafi, poi con Hollande che rifornì di armi Haftar, ora con Macron che manda i “consiglieri militari” ad aiutare il generale. Juncker e compagnia bella, per il solito loquaci, non hanno nulla da dire all’Eliseo?
Il nostro Paese non decide che cosa vuol essere, qual è il suo posto nel mondo. Oscilla sempre tra velleità e timidezza, ambizione e provincialismo, realismo cinico e sogno svagato. Un Paese che ha un esercito di professionisti, pure bravi, ma non vuole impiegarlo. Che ospita 72 bombe atomiche altrui, ma non ha mai ratificato con alcun governo il Trattato per la proibizione delle armi nucleari (però predica il disarmo!). Che è piazzato al centro del Mediterraneo ma per farsi valere deve chiedere il permesso a questo e a quello.
In Libia l’Italia è sola o quasi. Lo sforzo del governo, che difende Al-Sarraj e con lui la legalità internazionale, sembra forse nobile ma certo vano, perdente. Siamo, tanto per cambiare, dalla parte sbagliata della Storia.
Quando tu mobiliti i principî e i buoni sentimenti e gli altri i carri armati, è tutto molto chiaro fin dai tempi di Clint Eastwood e della storia del fucile e della pistola: tu perdi, gli altri vincono. Se Haftar vincerà — e vincerà prima o poi —, l’Egitto e la Francia avranno insediato un Gheddafi 2, faranno man bassa delle risorse petrolifere della Libia, avranno un interesse comune nello spazio del Mediterraneo mentre le petromonarchie del Golfo Persico, già in ottime relazioni con il presidente egiziano Al-Sisi, avranno in Haftar un uomo di fiducia. A noi resterà la coscienza di aver operato “per il bene e per la pace”. Stando così le cose, l’Italia potrebbe anche rinunciare alle Forze Armate come ha fatto il Costa Rica, diventare un Paese neutrale come la Svizzera, trasformarsi in una specie di Vaticano laico, presente in tutti consessi internazionali e pronto a lavorare per evitare o estinguere i conflitti: non sarebbe poco e potrebbe perfino funzionare.
Ma se vogliamo condurre una politica estera che protegga il nostro interesse nazionale, allora non possiamo esimerci dallo stare in modo solido sulla scena internazionale. E per starci con qualche risultato, dobbiamo essere pronti a impiegare i sistemi degli altri oppure ad applicare le necessarie contromisure. Il che non vuol dire partecipare a una guerra ogni tre anni come fanno, per esempio, Francia e Regno Unito. Ma nemmeno raccontarsi che, andando sempre d’accordo con tutti, i risultati ci cadranno in mano come pere mature. La Francia va d’accordo con quasi tutti, ma per avere le pere, in Libia ha sganciato bombe nel 2011 e le sgancia tuttora, sia pure per interposto generale Haftar. In politica estera possiamo essere generosi o interessati, altruisti o egoisti, ma non tutt’e due insieme.
Ora arrivano i mesi del mare calmo nei quali, anche in circostanze non di emergenza, partenze e sbarchi dalla Libia aumentano fisiologicamente. Nel caso attuale le partenze aumenteranno esponenzialmente perché nessuno vuole stare in un posto dove si è scatenato l’inferno.
Ossia, non si parla solo di eritrei, senegalesi, maliani e quant’altri, i “migranti classici”: si parla degli stessi libici. Tripoli ha oltre un milione di abitanti, Misurata 400mila, tutta la Tripolitania 4 milioni. I due principali porti di partenza verso l’Italia sono proprio Tripoli e Misurata.
Per Salvini è il peggior incubo possibile.
Non può più negare che in Libia ci sia una guerra. Non può più affermare che i porti di Tripoli e Misurata siano “sicuri”. Non potrà più sostenere che quelli in partenza dall’inferno libico non saranno “rifugiati”, tutelati dal diritto internazionale. E per di più nessun migrante soccorso in mare potrà essere riportato verso il porto in cui è partito — appunto, Tripoli e Misurata.
Non solo. Ora più che mai siamo isolati in Europa: a meno di improbabili operazioni ONU, nessun Paese muoverà un dito per aiutare l’Italia.
Si parla di qualcosa come 800.000 persone che a causa della guerra in Libia potrebbero presto cercare la salvezza via mare (perché la salvezza si cerca fottendosene delle onde e delle leggi), approdando ovviamente anche — soprattutto — in Italia. E intanto noi qui, divisi come tifosi di una squadra di provincia in pro-Salvini e anti-Salvini, finiamo come sempre a parlare di lui, mica di quei poveri disperati oppure di un mondo che sembra non volerla smettere con le guerre e con un’Europa inerme in attesa delle prossime elezioni.
Sì, è vero, si sprecano i convegni degli addetti ai lavori e dei pochi che ci ricordano la Storia, i suoi percorsi quasi sempre uguali e le storture di un sistema di ricchezza in mano ai pochi e di disperazioni dilaganti. Ma l’immigrazione come tema forte, come risposta alla proposta (seppur becera) di Salvini, dov’è? Qualcuno ancora insiste nel non capire che non c’era nessuna proposta in quel che fu di Minniti (un salvinismo annacquato) e nemmeno si vergogna quando gli si ricorda che fu proprio l’attuale ministro dell’interno a elogiare l’operato di Minniti in una frase che da sola fotografa l’iniziativa dei governi Renzi e Gentiloni, di provare a trattare con chi apre e chiude le partenze a suo piacimento in base al momento politico e al referente di turno. Qual è la proposta della sinistra, del PD, su un’ondata di immigrazione e disperazione che sembra prepararsi alle porte dell’Italia? Qualcuno osserverà che è rimasta sul tavolo a Bruxelles la revisione del Trattato di Dublino che prevedeva la ridistribuzione dei migranti: sarà anche vero, ma in attesa che l’Europa vada al voto e si definisca politicamente (l’aria, però, non è proprio buona per questo tipo di accordo), cosa avrebbe intenzione di fare l’Italia-di-sinistra?
Non esce una proposta che sia una che trovi la consistenza di entrare nel dibattito politico senza dover per forza tirare in ballo Salvini: così si assiste allo scontro tra chi comunque un’idea ce l’ha (meschina quanto si vuole) e chi invece naviga al buio, preferendo attaccare Salvini e dando l’idea di non avere idee alternative. Lo stesso madornale errore che per un quarto di secolo ha inchiodato la sinistra italiana a Berlusconi.
Siamo un Paese che ha un forte senso di solidarietà verso chi sta peggio. E il volontariato, cattolico e laico, da nord a sud, ne è la prova più tangibile. Non dovremmo scambiare la libertà per un po’ di sicurezza in più.
Perché, in ogni caso, con questo scenario il governo ballerà fino a crollare?
Perché l’altro vicepremier, il ragazzotto grillino di belle speranze, il “socio del Capitano”, si troverà tra l’incudine degli sbarchi incontrollati e il martello dei porti chiusi e della “fermezza” di Salvini, che intanto sbraiterà (senza risultati) contro la Francia.
Che farà, Luigi Di Maio? Il cane al guinzaglio, come nei casi Aquarius e Diciotti, buttando così a mare in acque libiche, oltre ai poveracci, anche il poco consenso che gli è rimasto e facendo pure esplodere il Movimento Cinquestelle — già in pessima salute per i troppi errori —? O appoggerà la fronda umanitaria “buonista” che verosimilmente coinvolgerà i sindaci di Lampedusa, Siracusa, Palermo e Napoli?
I due soci stanno aspettando da un anno le Elezioni Europee convinti di veder trionfare in Europa il populismo sovranista, in modo da poter fare ulteriore Debito Pubblico a ufo per finanziare politiche clientelari e di corto respiro. Ora invece con la guerra in Libia rischiano di arrivarci divisi e senza più nemmeno un governo in comune.
E non si può neanche gioire dello scenario, visto che comunque vada, a meno che qualcuno di saggio non fermi l’alleanza Francia-Egitto-Arabia Saudita che arma e finanzia Haftar (ma dove lo troviamo?), ci prepariamo a una stagione da migliaia di vittime, sia sulla terraferma che in mare, giusto a pochi km da noi.
Ecco dove siamo e cosa siamo, più o meno, in questo preciso momento storico.
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