«Studia Keynes!» — o Le Grandi Manovre

Tempo di lettura: 8 minuti

Sono mesi che ho le mie fisime su quest’accoppiata di governo. Arrivati al primo vero scoglio (la “manovra”), quello che propongono mi sa di fuffa già di suo. E quando provi ad argomentare obiezioni su fatti e numeri, c’è chi ti dice: «studia Keynes!».
Sarà. Eppure comincio a sospettare che per capire il vero fine della “Manovra del Popolo”, almeno dal punto di vista leghista, basti aspettare…

✔︎ 26/10: Standard&Poor’s ci declassa a “spazzatura”;
✔︎ 29/10: la Commissione europea boccia il DPB (Documento Programmatico di Bilancio, quello dove i numeri vanno messi per forza, e al centesimo, in tutte le caselle) e apre la procedura di infrazione;
✔︎ Novembre: fuggi-fuggi dai titoli italiani (saremo nella STESSA situazione che portò a Monti, ma stavolta il governo non cadrà: ci si limiterà a spostare tutta la fuffa a data da destinarsi);
✔︎ Salvini e Di Maio in coro: «Visto? È colpa della UE se non possiamo fare nulla di quanto promesso»;
✔︎ 23–26/05/2019: Elezioni Europee. Trionfo del “sovranismo”. Merkel a cuccia. Juncker a casa. Moscovici a casa. Cambio di rotta nelle politiche UE.
✔︎ 2019–2021: si riscrivono i trattati, allargando le maglie dell’economia ma richiudendoci a riccio nei rispettivi confini; si passerà a due monete (una sorta di Euro del nord ed Euro del Sud) ma si configurerà un’epoca di marginalità per una buona metà dell’eurozona attuale. Più piccoli, più chiusi, con un impoverimento che forse si stabilizzerà ma di sicuro non diminuirà. E con l’invecchiamento della popolazione ci sarà una ricchezza sempre minore.

Fine del film.

Spesso quando si parla di uscita dall’euro o di “disgregazione dell’Unione Europea” o di sovranismi vari, si ha l’impressione che un futuro libero dai vincoli attuali sia il ritorno di un’Italia — o di un’Europa — degli Anni ’60: il futuro visto come la riproposizione di un certo tempo passato, che peraltro una gran parte di noi non ha neanche vissuto (e non è neppure esistito).
Il futuro non lo conosce nessuno, ma possiamo tentare di immaginarlo, a partire dalle tendenze attuali.

Non si può escludere che sul medio-lungo periodo vada a finire così: due grandi Paesi come la Germania e la Francia stringeranno i rapporti per una vera unione, con altri quattro-cinque Paesi dell’area Nord (del resto Francia e Germania hanno appena firmato degli intenti comuni bilaterali in materia di convergenza fiscale per le imprese). La frontiera del Reno, per secoli una barriera, è oggi una cerniera di comunicazione con investimenti forti da parte dei due Paesi per un’integrazione strategica che nessun fallimento italiano o europeo potrà fermare.
Un’unione a velocità sostenuta tra i due Paesi, con un legame stretto tra l’elemento latino e quello germanico, costituirà, pur in assenza di altri grandi Paesi, un centro pienamente legittimo di influenza economica, culturale e politica continentale con proiezioni extracontinentali. Quell’Europa andrà avanti. Forse con una moneta sua (l’Euro del nord, come l’ho chiamato su), ma questo aspetto è secondario.

[edit del 9 aprile 2020:]

La Gran Bretagna, se pur manterrà l’integrità politica, dopo Brexit non potrà fare altro che riconsegnarsi a un “liberismo alla Dickens” nel tentativo di mantenersi hub globale di qualcosa di più ampio di una “piccola isoletta”, come l’aveva chiamata Putin in tempi non sospetti (e i tempi attuali stanno favorendo proprio Putin nel suo disegno di sgretolamento dell’unica forza politica che può fermarne certe ambizioni). E l’Est europeo, fuori dall’ombrello dell’UE, tornerà di riffa o di raffa sotto l’influenza russa.

Il Mediterraneo, Italia compresa, sarà lo spazio di tante piccole e grandi Turchie, con livelli di libertà percepita diversi, con economie tra l’asfittico e il discreto, a seconda dei momenti e dopo l’eventuale shock di uscita dalla moneta unica, con una diminuzione di servizi ai cittadini e quasi certamente di passi indietro su alcuni diritti. Corsi e ricorsi storici. Possiamo arrangiarci a vivere in un’area di questo tipo? Lo vedremo, nel caso.
Non è solo questione di governi, è anche questione di popoli e pulsioni sotterranee che periodicamente si manifestano. Di certo il “ritorno al passato” tale e quale non è possibile (quale passato, poi?), ma il futuro realistico che più somiglia al passato, e che in fondo sarebbe coerente con una certa storia europea in declino dell’ultimo secolo, a me pare questo.
Si tratterebbe insomma di vivere in una post-Europa che ha fallito il suo progetto di integrazione (progetto anch’esso del tutto coerente con la storia europea e, anzi, contributo a un miglioramento del mondo), una post-Europa che si gerarchizza secondo linee geopolitiche che riaffiorano e che esistono. E che si arrende nel lasciare mano libera ad altre forze globali (Nord-America, Cindia).

Tutto questo accadrà a meno che non si faccia uno sforzo per un futuro davvero nuovo, di superamento delle difficoltà attuali nella direzione di un rilancio che, diciamocelo chiaro, è tutto da inventare e richiede una dose di coraggio addirittura epocale, un coraggio da europei (perché gran parte della storia europea è una storia di coraggio nel cambiamento). Abbiamo le risorse culturali, intellettuali, morali, d’immaginazione, per pensare e produrre questo sforzo? Forse, attualmente, no. Non più.

Trovo scandaloso e inaccettabile che nessuna delle forze politiche che ci dovrebbero guidare abbia mostrato la capacità di proporre un orizzonte chiaro. Alla vigilia di elezioni europee cruciali, le forze che governano l’Italia assumono decisioni le cui conseguenze non sanno spiegare, o fingono che esse non abbiano un impatto che investe la democrazia stessa e il destino del Paese per i prossimi 30 anni.
Le forze di opposizione, di centro-destra o di sinistra che siano, non emettono una sillaba sull’Europa, a parte le frasi fatte, e non ci fanno capire (perché non lo sanno?) come riformerebbero l’Unione Europea. E l’unica pista possibile per la prosperità dei popoli europei è una riforma dell’Unione, un’accelerazione dello stare insieme.
È desolante osservare che la politica italiana, di qualsiasi orientamento, non voglia e probabilmente non sappia produrre un pensiero sull’Europa (che può anche voler dire contro l’Europa, certo, almeno quella attuale dei burocrati), un contesto cognitivo, uno straccio di scenario che invece di farci affondare in azioni momentanee e senza costrutto ci aiuti a capire che fine stiamo facendo.

Per intanto io, tornando all’oggetto di questo blogpost («studia Keynes!»), più che guardare a Keynes, guardo a ciò che ha previsto Stiglitz… analizzando Keynes.
Vado per gradi.

1.

Chiariamo un punto. Io non sono un economista e non ho studi di economia alle spalle. Leggo molto, però (e non sul web: sui cari vecchi libri). E mi informo molto. E mai da una sola campana. Dopodiché, mi piace discutere sui social con altre persone. Per crescere.

E chiariamo un secondo punto. Cruciale. John Maynard Keynes visse tra il 1883 e il 1946. Ai tempi di Keynes non esistevano né la globalizzazione né, soprattutto, i sistemi finanziari attuali dove immense quantità di denaro si spostano da un punto a un altro del globo con un clic, in decimi di secondo. Qualsiasi politica, qualsiasi governo, qualsiasi dottrina, devono tener conto di questo particolare.

La “grande crisi” che colpì l’America e gli altri Paesi occidentali nel periodo compreso tra il 1929 e il 1932 smentiva le teorie della scuola classica e in particolare la “teoria di Say”, che riteneva che il sistema economico si trova sempre in una situazione di equilibrio e fenomeni di scostamento dalla piena occupazione del lavoro e degli altri fattori produttivi erano da considerarsi solo transitori, cioè fasi di passaggio tra due situazioni di equilibrio.
Fu in questo contesto che si sviluppò la teoria dell’economista inglese. Keynes affermò che la condizione tipica del sistema economico non è l’equilibrio, bensì la sottoccupazione: le risorse disponibili e la domanda sono inferiori rispetto all’offerta. Ciò in quanto, al crescere del reddito, i consumi crescono in maniera meno che proporzionale. Quindi per poter mantenere un determinato volume di occupazione è necessario che si effettuino investimenti sufficienti ad assorbire la differenza tra la produzione totale e i consumi. Per questo, Keynes riteneva necessario l’intervento dello Stato che, attraverso la spesa pubblica, può determinare un aumento del livello di occupazione e, di conseguenza, un aumento dei redditi delle famiglie e, quindi, dei consumi. Le imprese, di fronte all’aumento della domanda, avrebbero aumentato la produzione creando così nuovi posti di lavoro e innescando un meccanismo di ripresa.

Notiamo qui due concetti basilari di Keynes, che tutti sembrano dimenticare quando di questi tempi lo nominano (a sproposito): consumi, posti di lavoro.
Ci ritorneremo subito.

2.

L’aumento della spesa pubblica, essendo dispendiosa, può portare lo Stato verso un disavanzo del bilancio, detto “deficit spending”, termine con il quale si intende proprio l’aumento del deficit pubblico dovuto a una crescita della spesa pubblica che ha come finalità quella di portare a un aumento della domanda. Secondo la “teoria keynesiana”, nei momenti di sottoccupazione, è utile aumentare la spesa pubblica anche a costo di incorrere in un deficit spending, perché tale aumento porterebbe successivamente a una situazione di avanzo.

Una situazione di disavanzo pubblico significa che lo Stato ha più spese di quelle che sono le sue entrate. Quindi, per coprire le maggiori spese, deve far ricorso a dei prestiti che dovrà poi restituire con il pagamento degli interessi, prestiti che sono rappresentati da titoli del debito pubblico collocati presso le banche e gli investitori. Poiché lo Stato si indebita e deve restituire anche gli interessi, un ricorso continuo al deficit spending può portare a un aumento del debito pubblico.

Le teorie keynesiane furono alla base del “New Deal”, un piano di interventi pubblici finanziati dallo Stato adottato negli Stati Uniti d’America sotto il presidente Roosevelt che permise agli USA di uscire dalla crisi del 1929. Il piano prevedeva l’inizio di una serie di lavori pubblici, sussidi economici ai disoccupati, oltre che salari minimi per coloro che avevano un posto di lavoro, e forme di assicurazione sulla vecchiaia.
Ma era, appunto, l’America: un gigante, anche se con l’influenza e la febbre. Presto o tardi, un gigante del genere sarebbe uscito comunque dalle ambasce, per “capacità intrinseca”, diciamo così.

L’Italia del 2018 non è l’America. Tutt’altro.
Siamo un Paese ingessato, con la scala sociale bloccata, con un’economia interna asfittica, in ritardissimo con il digitale (manna per tutti gli altri Paesi), ignorante, allergico alle regole, con una burocrazia ipertrofica, con una produttività ridotta ai minimi termini, un posto da cui la meglio gioventù è costretta ad andarsene e in cui i processi civili durano 15 anni. E come se non bastasse, abbiamo già accumulato 38mila euro di debito a persona, neonati compresi: il terzo Debito del mondo. Insomma, siamo un… gigantello che arretra — o meglio, immobile da 20 anni e che viene superato dagli altri — e con un febbrone da cavallo.
Non c’è Keynes che tenga: noi, il «disavanzo pubblico che deve finanziare lo sviluppo per qualche anno», ce lo stiamo già giocando da più di 20 anni! Spendiamo e spandiamo a ufo, alle spalle degli altri, fin da quando è caduta la Prima Repubblica: ma quasi senza frutto.

3.

E qui tornano in ballo i due pilastri di Keynes: consumi, posti di lavoro.

È il lavoro, l’unica soluzione sana per un Paese. È il lavoro, che porta ai consumi. Non un reddito per indivanados, e nemmeno la flat tax. (Peraltro, reddito di cittadinanza e flat tax sono altra cosa, rispetto a quelli proposti. Peraltro, il New Deal si basò su grandi opere ed edilizia pubbliche: da noi non ce n’è traccia.)
Quando le entrate fiscali sono basse, lo Stato non può effettuare quegli investimenti nelle infrastrutture, nell’istruzione, nella ricerca e in campo sanitario che sono vitali per recuperare la forza economica nel lungo periodo.

Ciò di cui abbiamo bisogno è introdurre un massiccio programma di investimenti — come abbiamo fatto dopo la crisi del 1929 — che aumenterà la nostra produttività negli anni a venire, e che porterà a un incremento immediato dell’occupazione.
Dobbiamo compiere la transizione dalla produzione industriale ai servizi di cui le persone hanno bisogno, preferendo le attività produttive che aumentano il nostro tenore di vita, anziché quelle che aumentano i rischi e aggravano la disuguaglianza. A questo riguardo, ci sono molti investimenti ad alto rendimento che potremmo effettuare. L’istruzione è di importanza fondamentale e UNA POPOLAZIONE CON UN LIVELLO ELEVATO DI SCOLARIZZAZIONE È UN MOTORE BASILARE DELLA CRESCITA ECONOMICA.

Occorre sostenere la RICERCA DI BASE. Gli investimenti pubblici nei decenni precedenti — per esempio, per lo sviluppo di Internet e delle biotecnologie — hanno contribuito ad alimentare la crescita economica dappertutto. Tranne che in Italia. Senza investimenti nella ricerca di base, che cosa darà forza alla prossima ondata di innovazione, al prossimo “Made in Italy”?
La crescita economica a lungo termine agli attuali ritmi di consumo di risorse è impossibile, quindi finanziare la ricerca, l’addestramento dei tecnici e le iniziative per una produzione di energia più pulita ed efficiente ci aiuterebbe non solo a uscire dalla recessione, ma anche a costruire un’economia robusta per i decenni a venire.
Infine, le nostre INFRASTRUTTURE in declino, dalle strade alle ferrovie, dagli argini alle scuole e ai ponti (vedi la tragedia di ferragosto 2018 a Genova), sono il primo obiettivo per investimenti remunerativi.
Le piccole e medie imprese, specie quelle nuove, sono in massima parte la fonte di nuovi posti di lavoro in qualsiasi economia e sono state colpite in modo particolarmente duro fra il 2008 e oggi. Quel che serve è inoltre separare le banche dal business pericoloso della speculazione e riportarle nel noioso solco dell’attività creditizia a chi vuole lavorare e produrre (e metter su casa e famiglia).

Pare che in Spagna l’abbiano capito. E dire che non è che stiano messi benissimo neanche lì. Tramite un accordo fra “grillini” e “piddini” spagnoli (Podemos e Psoe), è stato messo a punto un programma che si basa su quattro pilastri: aumento dell’imposta patrimoniale, innalzamento del salario minimo (€900), taglio delle tasse universitarie, robusto programma di edilizia popolare. In altre parole: diritto alla casa, salari dignitosi, formazione accessibile per tutti, grossi investimenti pubblici. Insomma, Keynes! Altro che assistenzialismo (reddito di cittadinanza), meno tasse per i ricchi (flat tax) e condoni…

4.

E qui veniamo all’oggi. Alla “Manovra del Popolo”. Il governo grilloleghista fasciostellato è un mostro a due teste che deve spartirsi una torta di per sé già piccolissima e pure presa a debito. Da creditori che già ci guardano storto da un pezzo. E per far cosa? Per creare nuova impresa? Per infrastrutture? In nome di Keynes, per creare posti di lavoro? No.

Da un lato — la testa gialla del “mostro” (M5s) — per “aiutare gli ultimi” con un reddito triennale (rinnovabile) in attesa di un’occupazione che dovrebbe essere garantita dai “centri per l’impiego”, ossia da enti che attualmente collegano disoccupati e occupazione solo per il 3% (da decenni, solo 3 persone su 100 ricevono offerte di lavoro in questo modo). Dall’altro lato — la testa verde del “mostro” (Lega) — per ridurre il prelievo fiscale per l’elettorato del nord, non attaccando i grandi patrimoni né le rendite finanziarie né le spese militari né semplicemente i redditi più alti — e non è un caso che, alla fin fine, Confindustria festeggi lo scampato pericolo, ringraziando la Lega.
Un cocktail tossico che emerge dal connubio di un partito che nasce a difesa dei giovani, dei precari e dei “dimenticati” con un altro partito che invece rappresenta limpidamente i detentori di capitali e gli interessi antisociali dei forti.

Per dirla in un altro modo.
La “domanda” è quella giusta: sono i cittadini, sono i popoli a dover decidere, non i trattati, gli spread, i mercati, la finanza, gli algoritmi.
È la risposta che è sbagliata. Si cerca di non scontentare nessuno, rinviando il problema ai posteri pur di tenersi buoni tutti. Esattamente i guai in cui siamo incappati dal Pentapartito in poi. «Facciamo godere un po’ tutti oggi, poi ci pensa Pantalone».

C’è poi una questione che potrebbe diventare addirittura urgente se, come si comincia a intuire, dovessero ulteriormente peggiorare i rapporti tra i due soci gialloverdi oggi al comando insieme. Lo vede chiunque che il “mostro a due teste” M5s-Lega è fortissimo quanto a consensi complessivi, ma sempre più fragile al suo interno sulle scelte delle cose da fare, specie in materia economica. Lo vede chiunque che Salvini, forte dei sondaggi che lo dànno addirittura avanti (il 4 marzo aveva soltanto metà dei voti Cinquestelle), ha in mente di cannibalizzarsi tutto il centrodestra e sottrarre voti ai suoi stessi attuali alleati, per poi dar loro il benservito. Lo vede chiunque (perfino Di Battista, che infatti Casaleggio già pensa di riportare in Italia, dentro il governo, con un rimpasto) che il M5s è ogni giorno sotto ricatto, la Lega comanda o strappa, cioè fa saltare il banco per prenderselo tutto.

E anche l’Europa — no, il mondo intero — sta prendendo una brutta piega.
In quella stessa Spagna testé citata per l’accordo “keynesiano” fra Podemos e Psoe, il nuovo leader del Partito Popolare spagnolo, Pablo Casado, ha debuttato sulla scena internazionale con una dichiarazione sui migranti in pieno stile Salvini, forse pure peggio. Casado ha vinto la battaglia per la successione a Rajoy profilandosi molto a destra, pur essendo a capo di un partito teoricamente in linea con i popolari europei — la Merkel, per capirci —. In Austria la destra popolare e “moderata” (del tutto establishment da decenni) è già al governo con quella estrema, nazionalista e antiestablishment. Negli Stati Uniti Trump mescola bene gli interessi dell’una e dell’altra, destra economica liberista e destra nazionalista radicale. C’è una saldatura di fatto, a livello internazionale, tra la “vecchia” e la “nuova” destra, quella moderata e quella neofascista. La prima è responsabile (insieme al centrosinistra che la emulava, s’intende) della catastrofe del sistema di cui era architrave e contro il quale sono appunto nati i partiti cosiddetti antiestablishment. La seconda da questo fallimento (e dalla rabbia conseguente) ha tratto la sua linfa e la sua popolarità. Ora causa ed effetto della crisi si avvicinano alle nozze.

L’Europa è quello che è, ma ha garantito settant’anni di pace e prosperità: per la prima volta nella storia dell’umanità.
Quello verso cui ci stiamo precipitando a rotta di collo è invece una nuova epoca di conflitti, di dittature, di fascismi e nazionalsocialismi.


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