Facebook in crisi di credibilità

Tempo di lettura: 12 minuti

Tutto è cominciato con questo post di Mark Zuckerberg in persona:

Dice Zuckerberg che «ora la priorità di Facebook è fare qualcosa per il benessere delle persone». E che per fare questo vuole cacciare i mercanti dal tempio e riprogrammare i flussi del “wall”, abbandonando il suk di cazzate e consigli per gli acquisti che è adesso. Parole che in prima istanza andrebbero prese con le molle, dato che per un bel pezzo Zuckerberg ha urlato ai quattro venti, contro ogni ragionevole evidenza, che il suo giocattolo «non è una media company»: i suoi ingegneri software si rompevano la schiena per rendere Facebook il più vasto news outlet del pianeta e lui andava in giro a dire che si trattava d’altro.
Il social per eccellenza ha avuto in questo decennio un ruolo cardine nella decadenza della qualità informativa in rete. La cosa è avvenuta per un sacco di motivi fra loro più intrecciati delle vene di un avambraccio. Perché è diventata la più estesa comunità di tutti i tempi (oltre 2 miliardi di utenti), largamente condizionabile; perché fra i vari business models ha immaginato un proprio ruolo di “edicola informativa globale”; perché la natura stessa della piattaforma ha scremato le informazioni secondo criteri innovativi rispetto a quelli soliti della notiziabilità. Perché gli stessi editori, ingolositi dai flussi ciclopici di clic che Facebook indirizzava verso di loro, hanno sbracato spesso e volentieri scegliendo di adattare il proprio palinsesto, prima sulle rispettive pagine FB e poi sui propri siti web, ai nuovi criteri di visibilità imposti dalla piattaforma californiana. Una sorta di dittatura della stupidità ispirata dall’algoritmo, poi velocemente e inarrestabilmente diffusasi nell’etere.

«Be’, ora basta», annuncia il buon Mark, classe 1984. Il capo di Facebook delinea un futuro a breve termine in cui l’aggiornamento dell’EdgeRank, l’algoritmo che regola la visibilità dei contenuti su Facebook, porterà gli utenti a investire meno tempo sulla piattaforma. La soddisfazione dei navigatori crescerà, ma i minuti spesi su Facebook diminuiranno.
Rivoluzione? Débâcle? Ennesimo colpo ben assestato? Sta di fatto che gli effetti di quel che ha deciso il board del social network più grande del mondo si stanno facendo sentire sia nei monitor degli utenti in cui compaiono sempre meno post di associazioni, pagine di marche commerciali, organizzazioni e, soprattutto, siti di news; sia in Borsa, dove la svolta di Facebook è stata accolta molto male e il giorno dell’annuncio in poche ore il titolo ha perso il 4%.
Una débâcle che dice alcune (premature) cose sugli effetti della decisione di Mark Zuckerberg. La prima e più evidente è che non si tratta di un aggiustamento da poco. La seconda è che, se le cose andranno davvero come “Zuck” ha scritto, il volto, la natura e il modello di business di Facebook cambierebbero profondamente.

Spariranno i feed filler (le principali vittime di questa rivoluzione), ossia i contenuti che ingolfano la timeline degli utenti con video vari; compariranno meno pagine sponsorizzate; non ci saranno più contenuti rimbalzati mille volte di utente in utente. E il risultato, almeno in teoria, dovrebbe essere una pagina più pulita, meno dispersiva, più simile al Facebook delle origini, quando vi si leggevano pochi e selezionati contenuti.

In questo modo, confida Zuckerberg, la scelta di dare priorità ai post personali, fatti da persone, e non a quelli pubblicati da pagine pubbliche, potrebbe portare a ridurre la diffusione di fake news e di post che attirano haters e troll che da tempo intossicano l’aria e rendono il social un caravanserraglio di bufale e violenze verbali. E fin qui tutto bene. Dall’altro però potrebbe (addirittura nel manifesto di Zuckerberg dovrebbe) portare a una sensibile riduzione del tempo che ogni utente trascorre su Facebook. E questo, com’è comprensibile, ha mandato in fibrillazione gli investitori, perché il tempo degli utenti è esattamente il cuore del business di Facebook, ciò di cui si nutre: Facebook si regge sul tempo dei suoi utenti. Il tempo degli utenti che, vagamente inebetiti e quasi ipnotizzati, scorrono la timeline di Facebook: più tempo trascorriamo on line, più pubblicità vediamo, più Facebook guadagna.
Ora invece Zuckerberg manda all’aria questo modello. Perché?

Il pio desiderio del self-made-man miliardario più giovane di sempre

“Zuck” sa bene che migliorare l’esperienza degli utenti significa legarli a Facebook per gli anni a venire. La Borsa è un’intelligenza compulsiva che ragiona a trimestri ed è comprensibile che gli investitori non afferrino le scelte di un imprenditore visionario che invece ha abbondantemente dimostrato di ragionare su orizzonti di 10-15 anni. Mark Zuckerberg del resto non ha mai avuto problemi a generare panico dentro Wall Street e il consolidamento del suo impero è sovente passato attraverso questi terremoti densi di paranoia collettiva.
Già oggetto nel 2010 di un meraviglioso film di David Fincher (The Social Network) quando ancora Facebook non era il fenomeno massivo di oggi, il ragazzino ebreo pel di carota quasi buttato fuori da Harvard, ora 5° uomo più ricco del mondo con un patrimonio stimato di 72,4 miliardi di dollari, sa che il piacere con cui gli utenti scorrono le pagine di Facebook rappresenta una metrica molto più importante del semplice numero di minuti spesi sulla piattaforma. È come partecipare a una qualunque festa: chi presenzia un’ora e si diverte con gli amici porta a casa un’esperienza superiore a chi ha presenziato tre ore passando tutto il tempo seduto in disparte. Ebbene, il nuovo algoritmo del News Feed (quel tasto Home che tutti premiamo più volte al giorno, la “bacheca”) dovrebbe combattere proprio questo fenomeno: la fruizione passiva della piattaforma. Facebook vuole che gli utenti siano attivi, che appunto partecipino alla festa, piuttosto che consumare in modo spento e annoiato il chiacchiericcio di fondo cui sono quotidianamente sottoposti da aziende e media.

Facebook investe molto nella ricerca per perfezionare il proprio News Feed. La ricerca scientifica legata al News Feed avviene sia in privato, nei laboratori a Menlo Park, che in collaborazione con prestigiose università americane. E se Facebook decide di modificare il proprio algoritmo anche solo di una virgola è per un motivo ben preciso, sempre. Il “wall” è la sezione più importante di Facebook. Rappresenta la mistica valle di mezzo in cui si manifesta il mondo dell’utente in modo imprevedibile e stimolante — scroll dopo scroll, refresh dopo refresh —. Sbagliare la ratio con cui i contenuti vengono offerti agli utenti significa fare la fine di Twitter, una piattaforma magnifica per l’interazione one-to-one-in-real-time ma assolutamente caotica e inadatta per il consumo emozionale di contenuti online.

Facebook dice ora di voler premiare i post di amici e parenti. Insomma, «più gattini, nipotini e BuongiornoKaffèeeee?, che notizie e brands», gattini e nipotini e vacanze che per Menlo Park rappresentano quanto di più vicino all’utente nel suo grafo sociale. In altre parole le persone che, da un punto di vista meramente statistico, produrranno i contenuti “più rilevanti per l’utente” stesso. Le loro novità, i loro pensieri e le loro esperienze sono e saranno sempre, secondo Menlo Park, l’elemento di maggiore curiosità per l’utente che, prima ancora di essere un insieme binario di 0 e 1, è soprattutto un animale sociale interessato al proprio contesto. Bando all’engagement-bait, lunga vita alle interazioni genuine.

Fin qui l’obiettivo di facciata. Ma uno che lavora intanto potrebbe chiedersi: e tutto quello che abbiamo fatto fin qui? E i soldi spesi per la visibilità?

Già, e tutta la fatica fatta fin qui?

Facebook non è solo profili personali, è anche (e ormai soprattutto) bacino mondiale di aziende. I predicatori della meritocrazia a tutti i costi e dei mondi ideali rispondono più o meno come segue.
«Brand e media non hanno diritto di lamentarsi circa il calo di visibilità gratuita». Pubblicare contenuti organici a costo zero su terreni altrui significa siglare un tacito accordo a vita in cui le regole del gioco possono essere riscritte da un momento all’altro. Se Facebook decide di aggiornare il proprio algoritmo, brand e media ne devono prendere atto adattando le proprie strategie di comunicazione.
«Brand e media non hanno diritto di lamentarsi circa il calo di visibilità a pagamento». Le aziende si troveranno a dover investire budget maggiori per intercettare gli occhi di clienti e potenziali tali, vero. Ma lo strumento pubblicitario di Facebook resta la più grande macchina dell’advertising mai realizzata. La segmentazione del pubblico, i posizionamenti delle inserzioni e il basso costo delle campagne rendono Facebook un gioiello cui è impossibile rinunciare per chi vuole fare business nel 2018.
«A vincere la guerra dell’attenzione organica su Facebook saranno le aziende più intelligenti». Parliamo delle aziende che innoveranno in modo strategico i propri contenuti gratuiti anziché piangere sul cambiamento dell’algoritmo. Parliamo delle aziende che converseranno con i propri clienti (e potenziali tali) anziché spingere solo e soltanto i propri prodotti o servizi.
L’ultimo aggiornamento del News Feed ci dice che i social network per sopravvivere devono restare luoghi di conversazione tra persone. Le aziende che riusciranno a umanizzarsi si inseriranno in questa conversazione per trarne i frutti, senza disturbare. Tutte le altre resteranno a piangere sui cambiamenti di Facebook, dimenticando che in casa degli altri non si comanda. Al massimo si ringrazia per l’ospitalità.

Tutto molto giusto. Fa parte della filosofia ottimistica secondo cui i professionisti e i brands di talento non hanno mai nulla da temere. «Ciò che conta è saper comunicare, non la piattaforma su cui si comunica, che può cambiare o evolversi in direzioni inaspettate», dicono.

Però.

Intanto, quando parliamo di talenti che non hanno nulla da temere, stiamo parlando di eccezioni, aziende e/o personaggi pubblici da milioni di seguaci, che certo possono migrare dove credono. Ma non di milioni di persone normali e poco famose che comunque hanno una piccola vetrina su Facebook che stanno cercando di far crescere con fatica, e che rappresenta magari una delle poche strade a disposizione in un’economia in crisi e bloccata.
I social network, quelli veri, in genere non guadagnano soldi (chiedere a FriendFeed buonanima). Le relazioni fra le persone non spostano denaro. Le foto di mia cugina in vacanza in Egitto non creano un modello di business. Né per me, né per Facebook stessa.
“Dare più spazio agli amici” e ridurre la visibilità delle pagine aziendali significa soprattutto una cosa: alzare la posta per le aziende, che dovranno sborsare molti più soldi, investendo ancora più denaro in sponsorizzazioni furiose. Letta la storia in questo modo, l’afflato buonista appare molto più debole e forse sarebbe stato molto più corretto annunciarlo con questo titolo: «Facebook, d’ora in poi le aziende dovranno pagare di più». Il nuovo algoritmo danneggerà milioni di piccole aziende e associazioni che ormai su Facebook lavorano, molte delle quali magari non saranno in grado di reggere il calo di visibilità. Chi darà loro voce? Chi le difenderà? Nessuno, con certezza, perché non esiste margine di discussione. «In casa degli altri non si comanda. Al massimo si ringrazia per l’ospitalità».

E poi, perché dare la priorità ai post degli amici aumenterebbe il nostro benessere? Siamo davvero sicuri che la qualità della nostra esistenza sia data dal condividere e commentare post su gatti, bambini, nascite, compleanni, battesimi, malattie e dintorni? E che la ricchezza di un post siano solo interazioni, cioè commenti, anche se fatti di cuoricini, sorrisi e auguri, tutti uguali? Le emozioni veicolate su Facebook sono spesso fini a se stesse. Ci sentiamo meno soli, certo, ridiamo o piangiamo per una foto: ma la vita è fatta anche di riflessione, critica, discussione su temi che riguardano il vivere comune, la qualità della nostra democrazia, e molto altro. Altrimenti si tratta solo una continua celebrazione del privato, in una bolla autoreferenziale che alla lunga ci rende persino stupidi, “privati” appunto di altre dimensioni fondamentali per una vita davvero ricca e piena [vd. questa precedente analisi].
La decisione di puntare tutto sui profili privati non è inoltre priva di ulteriori conseguenze. Se il faro si accende su di noi, significa che saremo ancora più visibili, studiati, profilati. Facebook saprà di noi ancora più cose, prive di “rumore di fondo”, e questa profilazione è strategica ai fini della pubblicità. La quale ovviamente è ben lungi dall’essere espunta dal social. Altro che, di nuovo, i buoni sentimenti (si pensi solo a quante app Facebook vende i nostri dati, sia pure con il nostro formale assenso).
E gli altri media, quelli veri? E i giornalisti? A differenza di quanto aveva detto tempo fa, proclamando la volontà di fare un accordo con i giornali per la diffusione delle news di qualità, ora Facebook annuncia che le notizie e gli approfondimenti saranno meno visibili danneggiando non solo editori e giornali ma soprattutto stabilendo, in maniera paradossale, che la lettura silenziosa di un articolo abbia meno valore di un commento, magari su una torta di compleanno o un nuovo completino. Per il signor Zuckerberg la lettura è “fruizione passiva”, punto e basta, e pazienza se magari ha generato idee, o contribuito a far cambiare atteggiamenti e pregiudizi, a beneficio della verità, del benessere (quello sì) della democrazia.

Sheryl Sandberg, COO di Facebook

E comunque, se l’obiettivo è di combattere la disinformatija, in realtà potrebbe esserci l’effetto opposto. Se infatti ciò che conta sono le opinioni e gli scambi tra parenti e amici, a scapito di contenuti di approfondimento, le fake news avranno via libera, perché la questione della verità di un contenuto non si porrà più minimamente: “non riguarda Facebook”. È il fallimento dell’oggettività, della chiarezza, e di sicuro non è un bene per le nostre democrazie. Ma la cosa più grave di tutte riguarda il potere che Facebook ha ormai sulla nostre vite lavorative. Si tratta di una corporation grazie alla quale milioni di persone sviluppano la loro attività. Ora, fino a che punto si può sostenere che essendo in casa altrui bisogna ringraziare qualunque cosa la casa ci passi? Il problema è gigantesco: può infatti una delle imprese più grandi del mondo cambiare le regole del gioco senza che nessuno rifletta prima sulle conseguenze di tali cambiamenti, che magari mandano aziende (sempre più ricattabili) sul lastrico? Aziendine di meno di 10 addetti (ma che essendo milioni, costituiscono decine di milioni di posti di lavoro) che hanno speso, nel loro piccolo, negli anni, centinaia o migliaia di euro per “ottenere visibilità”: che fine fa quell’investimento, grande o piccolo che sia (ma anche qui, moltiplicato per milioni di aziende, esso ammonta a miliardi di euro, dollari, yen, etc.)? Chi ne risponde? Ci vorrebbe, davvero, un “sindacato” dei fruitori del social più grande del mondo, perché la nostra vita — e non è una battuta — ormai è ben più concretamente minacciata dalla decisione di Facebook di cambiare i suoi algoritmi che dalla minaccia di una guerra tra Trump e la Corea del Nord. Possiamo continuare a far finta di niente di fronte a questa sorta di dittatura via internet?

La verità è però un’altra. Più semplice

Dopo il primo, “allarmante” post del 12 gennaio 2018 da parte del boss («Nuclear Bomb» lo definisce AdWeek, la più importante rivista pubblicitaria americana, bibbia dell’advertising, immagine a sinistra), man mano che Wall Street entrava in fibrillazione sono fioccati altri post dal board di Menlo Park tesi quasi certamente a calmare un attimo le acque. Nel più franco di questi, il product manager Samidh Chakrabarti identifica l’interferenza straniera, la disinformazione e la polarizzazione politica come tre aspetti dei social media che minacciano non solo la fiducia in Facebook, ma nella democrazia (sic!). Tutti e tre, ammette Chakrabarti, hanno svolto un ruolo di primo piano nelle elezioni presidenziali statunitensi del 2016, e rappresentano un pericolo per le prossime elezioni democratiche — ovunque si svolgano.
Il direttore operativo Sheryl Sandberg ha detto a un pubblico di Bruxelles che l’azienda avrebbe fatto di più per aumentare la privacy e prevenire gli abusi sul suo sito: per esempio l’assunzione di 20.000 persone entro la fine dell’anno per monitorare e rimuovere i contenuti dannosi, più un corrispondente investimento in intelligenza artificiale. «Sappiamo che le aziende tecnologiche devono fare meglio e che noi di Facebook dobbiamo fare meglio. Abbiamo molto da migliorare», ha detto Sandberg. «Non abbiamo fatto abbastanza per fermare l’abuso della nostra tecnologia».

LA FIDUCIA NELLE PIATTAFORME SOCIAL È IN CADUTA LIBERA
Un nuovo studio Edelman (l’agenzia di relazioni pubbliche più importante al mondo) sostiene che la fiducia nei social media si è ormai erosa in tutto il globo. Il calo più brusco anno su anno della fiducia globale nelle istituzioni e nel web è stato registrato a fine 2017 negli Stati Uniti, dove è avvenuto un vero e proprio crollo (il livello è sceso all’11%, il più grande declino su scala internazionale). Piattaforme sociali come Facebook e motori di ricerca come Google sono visti come “la parte meno credibile e autorevole del mondo dei media”.

Mentre i social al loro avvento erano stati percepiti come più affidabili del giornalismo stesso, ora essi hanno un divario di credibilità sempre più ampio, in quanto gli utenti si preoccupano di informazioni false e della capacità di distinguere le fonti buone da quelle cattive. In quasi tutti i Paesi, quando si tratta di fiducia nei media, i social sono passati dall’essere la soluzione ai problemi di informazione al costituire il vero e proprio nocciolo del problema.

Lo studio Edelman apre uno spiraglio sui dilemmi di Menlo Park di queste settimane. Tra gli intervistati, il 63% dice di non poter/saper distinguere tra buon giornalismo e fake news, il 59% lamenta una sempre maggiore difficoltà nell’operare la distinzione; solo il 36% dice che i media stanno facendo un buon lavoro di controllo sulla qualità dell’informazione, mentre il 61% dichiara che a causa dei fallimenti dei media, nessuno può essere più sicuro di cosa sia vero e cosa non lo è. Peraltro non si tratta di una questione di ceti ma è un fenomeno trasversale: i cittadini sempre informati, di istruzione medio-alta e alto reddito — quelli storicamente più inclini a fidarsi delle istituzioni ufficiali —, ora si fidano delle piattaforme social allo stesso bassissimo tasso (42%) del resto della popolazione.
Gli utenti sono vulnerabili alla manipolazione da parte di “cattivi attori” che sfruttano gli algoritmi per i propri fini, e gli ultimi cambiamenti apportati da Facebook al News Feed, con la paventata scomparsa dei post delle pagine, dei giornali e delle marche commerciali, potrebbero essere inquadrati proprio come un tentativo di rimediare a questo crollo della fiducia: custodire la qualità delle informazioni, proteggere i consumatori, salvaguardare la privacy. In sostanza, Facebook è alla ricerca della migliore strategia per riconquistare il credito perduto dei suoi utenti. (Certo è paradossale, se consideriamo che nel Sistema Solare un terrestre su 3 è iscritto a Facebook, e che gli altri pianeti sono privi di WiFi…)

Sorprendentemente, la fiducia nel giornalismo e nei giornalisti è invece aumentata. In generale, sostiene lo studio di Edelman, le persone si fidano del giornalismo in sé ovunque lo trovino, ma non si fidano più di “come” lo trovano.

UNA RISPOSTA AL CROLLO DI STIMA
Alla luce di ciò, il “tour” delle scuse pubbliche di Facebook seguìto alle accuse di aver contribuito alla manipolazione delle ultime elezioni presidenziali USA, e la recente trasformazione del suo News Feed, acquistano molto più senso. La piattaforma sta in pratica tentando di eclissare il proprio ruolo di fornitore di notizie, massimizzando di converso la mission delle origini (mantenere le comunicazioni personali tra gli utenti). È il ritornello ormai familiare: «Facebook è un’azienda tech, non una media company».
Nel frattempo, l’ISBA — un gruppo di inserzionisti britannici — chiede a Facebook, Twitter, Instagram e altri network di sottoporsi a un organismo indipendente per monitorare le loro piattaforme e creare politiche comuni per la rimozione dei contenuti inappropriati. «Ciò creerebbe autorevolezza nelle piattaforme stesse e sarebbe positivo per la loro reputazione», afferma Phil Smith, direttore generale dell’ISBA. Inoltre, come gli inserzionisti sperano, «così i social terrebbero a bada la minaccia di una regolamentazione diretta da parte dei governi». Ed ecco centrato il punto!

Questo è, al netto delle ipocrisie, del «Facebook ci vuole bene e ha a cuore il nostro benessere», il cuore del problema.
Facebook da anni sta cercando di costruire un mercato globale per il commercio locale, la pubblicità e la comunicazione interpersonale. I media supportano questo mercato offrendo agli utenti qualcosa di utile da leggere e condividere. Nella misura in cui i contenuti dei media vengono dirottati per il profitto politico e/o la truffa, essi devono essere neutralizzati se possibile, e se necessario “cauterizzati”. Altrimenti diventano tossici per il modello di business.

SE FACEBOOK DIVIENE SINONIMO DI DISINFORMAZIONE, NON PUÒ PIÙ ESSERE UNA PIATTAFORMA COMMERCIALE.
SE FACEBOOK VIENE ASSOCIATO A “CATTIVI ATTORI”, NON PUÒ PIÙ ESSERE UN LUOGO SICURO PER LE INFORMAZIONI PERSONALI.
E nella misura in cui questi “cattivi attori” possono innescare cambiamenti politici offline, il rischio per Facebook è che i governi agiscano con mano pesante nel regolare tutto ciò che accade sul sito.

Questa fosca prospettiva è ciò che rende le fake news un “dramma esistenziale” per Facebook, Google e chiunque altro si occupi di informazione su Internet. È per questo che il network di Zuckerberg sta facendo i passi annunciati (meno pagine, più amici e parenti sulla bacheca): è un’offensiva di PR per risolvere un problema cruciale per la stessa esistenza dei social network. Con buona pace dei nostri cari gattini che sarebbero più importanti di una PepsiCola o di un Corriere della Sera qualunque — i quali si potranno sempre recuperare più in là: basta che paghino bene (e la Macelleria Filippo, e l’Organizzazione ABCD No-Profit di Servizio agli Anziani? Si fottano, mangino brioches).

(Zuck, del resto, come dicono ormai in tanti ha probabilmente in programma la candidatura alle Presidenziali USA del 2020 o 2024.)

* * *

A guardar bene, comunque, tutta questa fibrillazione sul News Feed e sulla “ritirata” della visibilità per giornali e attività commerciali mal si concilia con i movimenti che Facebook sta facendo in giro.
Come sottolinea Wired in un articolo uscito ieri, il social network partì fagocitando i sistemi di messaggistica e cercando di scalzare il primato di YouTube sui video. Dove non è riuscito a inserirsi direttamente, lo ha fatto attraverso le sue proprietà (prima il fallito tentativo di acquisire Snapchat, seguìto dall’invenzione — più che altro un plagio di Snapchat — delle “Storie” di Instagram, altro social di proprietà di Zuckerberg). In barba al refrain «meno minuti su Facebook, ma più piacevoli», le mosse di Menlo Park all’esterno denunciano l’obiettivo opposto: “Più cose si possono fare su Facebook, più tempo si passa incollati lì sopra”. Un obiettivo in base al quale postare contenuti ha scarsa importanza. L’azienda, per guadagnare, ha bisogno di spettatori, più che di autori. Per completare il disegno di un ecosistema che trattenga l’utente nell’orticello blu, il social network deve avere tre cose in catalogo (e relativo palinsesto): i video, lo sport, la musica. Ed è proprio su quello che continua a lavorare, con acquisizioni e progetti.

Per esempio, “Watch”, la tv. È stata lanciata nel 2017 e la funzione è divisa in due schede: una dedicata ai nuovi show, l’altra con un elenco di contenuti giudicati interessanti dall’utente. La sperimentazione è partita ad agosto ed è per ora disponibile solo negli Stati Uniti. Facebook sa di non poter giocare alla pari con le grandi produzioni. O meglio, non con gli stessi contenuti: mettersi in gara con Netflix, Amazon Prime Video e tutto il resto sarebbe un suicidio. Ulteriori delucidazioni a riguardo le ha date Ricky Van Veen, a capo della Strategia Creativa del social network, intervenendo a una conferenza a Miami: «Non vinceremo mettendoci in competizione con le prestigiose produzioni di drammi da un’ora, c’è già chi lo fa egregiamente. In questo momento l’idea è quella di fare i migliori spettacoli che possiamo e lasciare che siano il miglior motore promozionale della piattaforma Watch. […] Il News Feed potrebbe essere il miglior strumento di reclutamento degli spettatori che sia mai stato inventato». Ed eccolo lì: proprio quello che sta cambiando in questi giorni. Se un direttore creativo FB ti parla del News Feed in qualità di “strumento di reclutamento”, il pensiero non ti va subito alla cara vecchia “audience”? E da che mondo è mondo, l’audience alta non è — fra le altre cose — il termometro del costo degli spot? Il punto quindi è fare in modo che la tv di Facebook e la sua bacheca si spalleggino a vicenda. I contenuti dovranno poter essere commentati, par di capire: «Uno spettacolo dovrebbe attivare una comunità, sia esso un gruppo demografico, di affinità o una nuova comunità formata attorno a uno spettacolo. L’aspetto più importante di Watch è quell’elemento sociale. C’è così tanto che puoi fare quando i contenuti e le conversazioni avvengono su vasta scala sulla stessa piattaforma». Tipo garantire agli inserzionisti che lì la gente c’è, commenta, parla, e resta online. Audience, ragazzi: altro che balle.

Poi ci sarebbe la faccenda dello sport: secondo Variety e il Guardian, Facebook avrebbe assunto Peter Hutton, CEO del network Eurosport (di Discovery), per guidare le trattative sullo streaming sportivo.
Menlo Park però non dimentica di essere un social network nato per far condividere contenuti creati dagli utenti. E così, dopo aver aperto al 4K, in agosto ha comprato la startup tedesca di computer vision Fayteq, nota per la creazione di plug-in per programmi di video editing (come Adobe After Effects) capaci di togliere e aggiungere oggetti dai video esistenti.
E c’è la musica. Dopo aver introdotto Live Audio, cioè lo streaming in diretta — per l’Italia, ha iniziato Fiorello — e dopo aver scippato a YouTube Tamara Hrivnak per metterla a capo della Global Music Strategy di Facebook, ora l’azienda si è messa a stringere accordi con le case discografiche. Già con Messenger è possibile ascoltare per intero i brani di Apple Music, direttamente all’interno delle conversazioni. E se un giorno i brani per intero li trasmettesse direttamente Facebook?

E lo shopping? Qui Facebook ha schierato Marketplace. Nato dal successo di molti “gruppi” d’acquisto e scambio, la sezione, integrata pienamente nella versione mobile del social, è uno dei bacini catalizza-attenzione più “letali” che ci siano (salvo non essere del tutto refrattari allo shopping).
Per il lavoro non si fa niente? Che domande, certo: dopo aver già lanciato lo strumento Facebook Jobs, dedicato alle Pagine, a fine 2017 la piattaforma ha testato una più dettagliata versione delle informazioni nei profili professionali, strutturate proprio come quelle di un curriculum. LinkedIn trema.
Non è finita: “Today In”, strumento per ora disponibile solo in alcune città degli USA e facente parte del Facebook Journalism Project (sic!), è una sezione dedicata alle notizie locali e della community del territorio. Un modo per stimolare il giornalismo locale, così come la rivalutazione di un concetto di social più ristretto, rispetto a quello di una comunità globale che ha ridotto di parecchio ormai i sei gradi di separazione. Certo, Facebook ha negato che la sezione possa essere rilasciata altrove nel mondo: ma al momento suona particolarmente in assonanza con la sbandierata “riscoperta delle origini”.

E infine c’è la Cina. Nei piani a lungo termine c’è la volontà di tornare a bussare alle porte della Cina dove Facebook, insieme ad altri, è vietato da tempo. «Avere troppo giornalismo intorno al proprio marchio è un errore per qualsiasi piattaforma che intenda farcela in Cina», ha del resto dichiarato Wolfgang Blau, presidente di Condé Nast. Cogliendo la palla al balzo dell’estenuante dibattito sulle fake news, e delle beghe della propaganda politica che ha portato l’azienda davanti al Congresso con l’accusa di non aver vigilato (se non addirittura favorito) “gli hacker russi”, Zuckerberg, riducendo il profilo di media company del servizio, potrebbe dare un colpo al cerchio e uno alla botte: minore esposizione politica da un lato, avvicinamento a Oriente dall’altro. I numeri della popolazione cinese non possono non fare gola a un colosso tech qual è Facebook: è ormai gara per penetrare per primi il ricchissimo mercato (perfino Google per ora ne è fuori).

REDMOND, WA – Il presidente cinese Xi Jinping (al centro) parla con l’amministratore delegato di Facebook Mark Zuckerberg (a destra) mentre Lu Wei, lo zar cinese di Internet, osserva, durante un incontro di CEO e altri dirigenti nel campus principale di Microsoft Corp. il 23 settembre 2015 a Redmond, Washington. Xi e i top manager di aziende statunitensi e cinesi hanno discusso una serie di questioni, tra cui le relazioni commerciali, la protezione della proprietà intellettuale, la trasparenza della regolamentazione e l’energia pulita, secondo i rapporti pubblicati. (Photo by Ted S. Warren-Pool/Getty Images)

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