Vivo in un Paese mafioso e fascista

Tempo di lettura: 42 minuti

Art. 1: L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro. Garantito dalla mafia (e dal Duce)

Il terreno è di nuovo pronto, ahimé.
Così Marco Travaglio il 9 luglio:

Appena il boss stragista Giuseppe Graviano, intercettato nell’ora d’aria, ha dato segni d’insofferenza e lanciato propositi di vendetta per le promesse non mantenute dai tanti che trattarono con Cosa Nostra per conto dello Stato e anche per conto proprio in attesa di farsi essi stessi Stato fra il 1992 e il ’94, nel biennio delle stragi, lo Stato non ha perso tempo e ha subito risposto. Con una sequenza di atti tutti formalmente legittimi, ma tutti impensabili fino a qualche mese fa.
1) La Cassazione ha respinto il diniego del Tribunale di sorveglianza di Bologna alla scarcerazione di Totò Riina, detenuto da 24 anni al 41-bis per scontare 15 ergastoli, invocando il suo diritto a una “morte dignitosa” nel letto di casa sua, come se fosse la cosa più normale di questo mondo.
2) Forza Italia ha chiesto formalmente agli amici del PD di ammorbidire il nuovo Codice antimafia che allarga le maglie dei sequestri dei beni a chi risponde “soltanto” di corruzione o concussione, delitti sempre più difficili da distinguere da quelli delle nuove mafie.
3) Marcello Dell’Utri ha chiesto di tornare a casa anche lui per fantomatici motivi di salute, anche se dei 7 anni inflittigli per concorso esterno in associazione mafiosa ne ha scontati solo 3.
4) Lo stesso Dell’Utri ha ottenuto il permesso di farsi intervistare su La7 in una saletta del carcere, caso più unico che raro per un condannato detenuto per mafia e mai pentito, per definirsi “prigioniero politico” e benedire il governo Renzusconi prossimo venturo, mentre l’intrepido intervistatore lo chiamava “senatore”.
5) La Cassazione ha annullato le conseguenze della condanna definitiva di Bruno Contrada a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, in un “incidente di esecuzione” che non entra nel merito del verdetto e discute la colpevolezza, ma rende “ineseguibile e improduttiva di ogni effetto” la sua stessa pronuncia.

[…] ora, all’improvviso, con le minacce di Graviano dal carcere e le larghe intese dietro l’angolo, si può dire e fare tutto. Anche mettere nero su bianco che uno stragista con 15 ergastoli sul groppone non deve morire in carcere, ma a casa sua. Anche sostenere, restando seri, che un superpoliziotto, già capo della Mobile e della Criminalpol a Palermo e poi numero 3 del Sisde, non sapeva che incontrare e favorire i boss, farli fuggire, avvertirli dei blitz dei colleghi (tutti ammazzati), restituirgli il porto d’armi, fosse reato: lo scoprì solo quando glielo disse la Cassazione a sezioni unite in un altro processo. E allora si batté una mano sulla fronte: «Cazzo, a saperlo per tempo non avrei lavorato tanti anni per la mafia prendendo lo stipendio dallo Stato! Ma non potevate dirmelo prima?».
Questa vergogna senza eguali viene contrabbandata per “garantismo”, mentre scava un fossato ormai incolmabile fra diritto e giustizia, fra regola e prassi, fra imputati di serie A e di serie B, fra potenti e poveracci, fra ricchi e poveri. A furia di depenalizzare reati gravissimi, agevolare prescrizioni, allargare immunità, regalare franchigie ai soliti noti, è sempre più difficile accettare le sentenze di una giustizia forte coi deboli e debole coi forti. Il mese scorso un tizio di Palermo che aveva rubato un pezzo di formaggio in un supermercato di Mondello s’è beccato 16 mesi senza la condizionale: cioè finirà in galera. E quelli che per anni (entro e non oltre il 1994) hanno venduto lo Stato alla mafia la faranno franca l’uno dopo l’altro.

E un ex-magistrato di valore come Gian Carlo Caselli, due giorni dopo:

1) La responsabilità del dott. Contrada per i gravissimi fatti che egli ha commesso è supportata da solide prove riscontrate da molti giudici (Tribunale, due volte la Corte d’Appello e Cassazione). Lo stesso ufficio che ora ha cambiato idea negando validità alla condanna definitiva.
2) La mafia non è solo kalashnikov, tritolo e traffici vari a partire dalla droga. Questo è il lato militare/gangsteristico del pianeta mafia. Ma c’è anche quello oscuro e osceno (nel senso letterale e traslato di “fuori scena”). Sono le collusioni segrete con persone delle istituzioni e dell’imprenditoria. Quelle che contribuiscono alla conservazione e al rafforzamento dell’organizzazione. La sua spina dorsale. È proprio quel che ha fatto Contrada sistematicamente. Per esempio favorendo la continuazione della latitanza di alcuni boss, tra cui Salvatore Riina. Per cui sostenere che Contrada non sapeva di violare la legge penale è roba surreale. Che ricorda certe battute di Totò delle quali un illustre critico ha detto “che mettono in dubbio la stessa esistenza della realtà”.
3) L’unico strumento per contrastare le collusioni è il concorso esterno in associazione mafiosa (416 bis). Negare la configurabilità del concorso esterno, nerbo della mafia, equivale in pratica a negare la stessa mafia. Lo hanno fatto – senza minimamente curarsi della concretezza dei fatti – la Cedu (Corte europea dei diritti dell’uomo) e la Cassazione, la cui decisione avrebbe ricalcato la Cedu. Passi per quest’ultima, formata in stragrande maggioranza da magistrati stranieri. Ma la Cassazione no! Sa bene che Cosa Nostra esiste. Sa bene che negare il concorso esterno significa colpire l’unica concreta possibilità (ai tempi di Contrada come oggi) di intervenire contro le collusioni, elemento vitale della mafia. Negare il concorso esterno è un’offesa alla logica e al buon senso. Soprattutto è un’offesa a Giovanni Falcone che di questo strumento aveva fatto uso. Per di più sostenendo (ordinanza-sentenza del maxiter del 17 luglio 1987) che «le collusioni di persone inserite nelle pubbliche istituzioni… sono sussumibili a titolo concorsuale. E bisogna farlo se davvero si vuole ‘voltare pagina’ per contrastare efficacemente ‘la crescita di Cosa Nostra e la sua natura di contropotere’».
4) Dunque è una bufala che non esista il concorso esterno in associazione mafiosa. Esiste da sempre nel nostro ordinamento per tutti reati, in base all’art. 110 del codice penale. Nel furto è colpevole il ladro ma anche il palo, che realizza appunto il reato di concorso esterno. E non si capisce perché quel che vale per tutti i reati non debba valere anche per la mafia. Salvo concedere un privilegio inammissibile ai collusi (in prevalenza “eccellenti”…) e alla organizzazione criminale.
5) Un’altra bufala è che il concorso esterno in mafia ha cominciato a esistere solo dopo le elaborazioni della Cassazione. A parte che mai la suprema Corte ha ipotizzato una tesi così stramba, pur essendosi occupata della materia decine e decine di volte, l’elaborazione presuppone necessariamente il reato. Se non c’è reato non c’è neanche possibilità di elaborazione. Elementare!
6) Infine io non credo che la Cassazione possa accucciarsi pedissequamente su una sentenza straniera, sia pure della Cedu. Penso debba prima operare una rigorosa verifica della rispondenza alla specificità del caso concreto. E qui si tratta di configurabilità del concorso esterno, già riscontrata da quattro sentenze emesse — si badi — in nome del popolo italiano. Ne va dell’indipendenza della magistratura! Un fondamentale valore costituzionale. Di cui tutti i magistrati devono essere gelosi. Persino la Cassazione.

Cosa c’entra tutto questo discorso? È il preambolo per parlare di quello che sta succedendo in Italia nel 2017. Come spiega ancora un giornalista vigile e lucido, Marco Damilano su L’Espresso, negli stessi giorni di Travaglio e Caselli:

Sono passati decenni, repubbliche, riforme costituzionali. Partiti secolari sono tramontati, leadership scintillanti sono appassite. Resta l’errore di avversari e analisti: la sottovalutazione, la mancanza di consapevolezza, l’incapacità di vedere cosa si muove nel profondo, nel sotterraneo della società. E come un fantasma, un fiume carsico che riaffiora appena trovi lo sbocco, in questa estate 2017 di deserto della politica, di piazze vuote e urne prosciugate, rispunta la Destra.
Si era quasi dimenticata di esistere, come soggetto politico unitario. Si era camuffata, nascosta, mimetizzata, in una legislatura che l’ha vista divisa in mille rivoli: un frammento attorno a Angelino Alfano a puntellare i governi guidati dagli uomini del PD (Letta, Renzi, Gentiloni) in cambio di poltrone di lusso, un drappello di leghisti e di fratelli d’Italia di discendenza più mussoliniana che garibaldina, il corpaccione berlusconiano in apparenza dormiente, assente, in coincidenza con l’impeachment del suo Capo cacciato dal Parlamento e ridotto ai servizi sociali dopo la condanna in Cassazione del 2013. E poi l’indecifrabile esercito del Movimento 5 Stelle che ostentava equidistanza, né di destra né di sinistra, incolore come uno schermo trasparente o come il camaleonte, che assume di volta in volta i colori degli avversari. Invece, al momento giusto, nella fase finale della legislatura, quando al voto politico mancano pochi mesi, eccola ritornare, la Destra italiana, con le sue molteplici facce. Sovranista, nazionalista, populista, no tax, no migranti, anti-parlamentarista. E fascista.

Dopo il ballottaggio delle elezioni amministrative di giugno è il centrodestra l’«attore dominante»: vince in un comune su due, conquista stabilmente le regioni del Nord, mette radici sempre più stabili in Emilia e in Toscana, l’ex “cuore rosso” del Paese. E se dalla fredda analisi dei dati quantitativi si passa alle ragioni della valanga neroazzurra, ai temi utilizzati in campagna elettorale e ai suoi uomini più rappresentativi, cadono molte raffigurazioni circolate a livello nazionale. Ad esempio quella di un centrodestra di «chiaro profilo liberale, moderato, basato su radici cristiane, vincente in tutta Europa e oggi anche in Italia», come recita il burocratico comunicato di Berlusconi all’indomani del voto. È il ritratto di un centrodestra simile ai democristiani di Angela Merkel, il PPE, il partito popolare europeo che ha portato alla presidenza del Parlamento di Strasburgo l’italiano e forzista Antonio Tajani. Piacerebbe molto a Gianni Letta e a un pezzo di Forza Italia che non vuole finire egemonizzato da Salvini. Peccato a che a Monza, 11,6 chilometri e 26 minuti di macchina da Arcore, la coalizione berlusconiana abbia riconquistato il comune presentandosi con un volto decisamente diverso.
[…] Protesta contro lo Ius soli e saluto fascista: così l’estrema destra decide di manifestare il proprio dissenso alla legge in discussione al Senato. Dopo il sit-in a Palazzo Madama con CasaPound, Forza Nuova sceglie di marciare per la città invocando il Duce. Tra i blindati della polizia, braccia tese intorno a piazza Cavour, sulle note di “Camicia nera la trionferà”. Al termine del corteo 50 persone sono state denunciate per manifestazione non autorizzata, violenza e resistenza a Pubblico Ufficiale e apologia di fascismo.
[…] Temi, battaglie, parole d’ordine, fanno scuola nel cuore del centrodestra vincente. Immigrazione. Frontiere chiuse. No allo ius soli, che il centrosinistra ha portato in aula alla vigilia del voto, dopo anni di paralisi. Il sindaco eletto di Sesto San Giovanni Roberto Di Stefano, Forza Italia, ha strappato alla sinistra la sua Stalingrado dopo settant’anni sventolando la bandiera del no alla moschea. A Budrio, alle porte di Bologna, la sinistra è passata all’opposizione, nella cittadina sconvolta dal delitto di Igor il russo, ancora latitante. E Salvini ha percorso in lungo e in largo i paesini liguri, emiliani, toscani. «Buongiorno da Marliana, qui suonano le campane e girano le palle!», ha salutato il leader della Lega in diretta Facebook dalla cittadina di 3200 abitanti in provincia di Pistoia dove erano arrivati 48 profughi. La sinistra litiga sulla Rete e organizza gli apericena, la destra assalta il territorio più remoto e le sue paure.
[…]
Immigrazione e sicurezza sono il campo elettromagnetico che attrae l’elettorato che vota centrodestra. Compreso quello che, nel primo turno delle elezioni amministrative, ha votato per il Movimento 5 Stelle. Le ricerche dell’Istituto Cattaneo dimostrano che per M5S si è chiusa la prima fase “movimentista”, quella dei meetup, tendenzialmente di nuova sinistra, ambiente e consumi, e la seconda “identitaria”, quando bisognava trasformare il movimento in un soggetto strutturato. In questa fase “tattica” gli elettori si mescolano più facilmente con il centrodestra per due motivi: perché anti-renziani, e dunque votano tutto quello che si oppone al PD, e per una vicinanza ad alcuni temi della destra. Per citare le ultime settimane: la polemica contro le Ong che fanno salvataggio in mare per i migranti, la svolta securitaria a Roma di Virginia Raggi contro i rom e l’accoglienza dei profughi, l’astensione al Senato sullo ius soli (che vale voto contrario), l’inserimento nel pantheon del leader del MSI e capo gabinetto della Repubblica di Salò Giorgio Almirante da parte di Luigi Di Maio — e sì che nel 2014 Beppe Grillo e Gian Roberto Casaleggio si erano contesi con Renzi l’eredità di Enrico Berlinguer.

Una sovrapposizione di elettorati che preoccupa Renzi. Il segretario del PD era il campione della nuova politica post-ideologica, tutta modernità e comunicazione, doveva essere il primo leader che alla guida di un partito di sinistra riusciva a penetrare nell’elettorato moderato, berlusconiano, di destra. E invece l’operazione sfondamento appare fallita: ai ballottaggi il centrosinistra si blocca, non prende i voti del fronte avversario o degli esclusi dal secondo turno, anzi, perde per strada i suoi elettori. Renzi non è amato a sinistra, e si sapeva, ma non recupera a destra. Si è ripetuto alle amministrative il fenomeno del 4 dicembre, quando sul no al referendum costituzionale si sono saldati il centrodestra al completo, da Forza Italia alla Lega a Fratelli d’Italia, il Movimento 5 Stelle e un pezzo di sinistra, compresa quella di Pier Luigi Bersani che allora era ancora dentro il PD.

[…] Si è rialzato il muro della Destra, e adesso a sgretolarlo non sarà Renzi, per paradosso l’unico a poterlo fare è l’uomo che lo ha costruito nel 1994, Silvio Berlusconi. L’uomo di Arcore è dilaniato tra un doppio destino che gli sembra ugualmente infelice. Diventare il padre nobile del listone di centrodestra, la fusione o la federazione Forza Italia-Lega-Fratelli d’Italia, che finirebbe presto egemonizzato da Salvini e da Giorgia Meloni, come ha capito il presidente della Liguria Giovanni Toti, vincitore a Genova e a La Spezia, pronto a mollare Berlusconi per la nuova alleanza. Oppure prepararsi a fare da stampella a una leadership traballante come quella di Renzi. Tutto dipenderà dalla legge elettorale, ma non è detto che basti. Anche perché, per sfuggire al triste dilemma dei due Mattei, Berlusconi sta coltivando i due schemi contemporaneamente. Un piano A e un piano B, saranno le circostanze a stabilire quale sia quello prioritario. E sta preparando, di conseguenza, una doppia leadership futura.

Il piano A prevede di andare da soli alle elezioni con Forza Italia, con il volto rassicurante, popolare, merkeliano e europeo, il capofila in quel caso sarà il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani, già portavoce di Berlusconi a Palazzo Chigi nel 1994, forzista della primissima ora ma inserito stabilmente nell’establishment del PPE europeo, in ottimi rapporti con i democristiani tedeschi che spingono su Berlusconi perché scelga lui.
[…] Anche nel piano B, il listone unico Forza Italia-Lega-Fratelli d’Italia, Berlusconi non ha nessuna intenzione di affidare la guida a un leghista. Ed è già stato testato in questa campagna amministrativa, senza dichiararlo, l’appeal elettorale di un altro forzista della prima ora, ma di segno opposto rispetto a Tajani, il giornalista televisivo Paolo Del Debbio […] acclamato ovunque come si addice a un leader in rampa di lancio.

Tajani e Del Debbio sono due volti di un identico berlusconismo. Ritorna la Destra ed è sfaccettata, come sempre è stata la destra italiana, multiforme, ideologicamente inconsistente, e c’era il fascismo di destra e il fascismo di sinistra, e c’era il liberale conservatore e il rautiano sociale, e c’era la destra confindustriale che si opponeva alla nazionalizzazione dell’energia elettrica e quella militare tentata dal golpe e quella clericale legata al Vaticano. Eppure la destra è solidissima nel suo radicamento, nella difesa spietata dei suoi interessi, nel suo blocco sociale di riferimento: quello che manca alla sinistra in tutte le sue sfumature, dalla leggerezza di Renzi al rancore di D’Alema, è questa la mucca nel corridoio di cui vagheggia Bersani. Questa Destra così disunita e così minacciosa ha ancora bisogno di Berlusconi per mettersi insieme. E solo lui la può far saltare: conclusione amara dopo anni di rottamazioni annunciate, partiti della Nazione che perdono nei paesi, leadership innovative più nella presunzione che nella realtà. Per parafrasare Heidegger, solo un Berlusconi ci può salvare. Altrimenti, rivincono loro.

È questo, che sta succedendo.
Ci stiamo rimettendo di nuovo nelle mani di Berlusconi.
Ossia, senza usare giri di parole, in balia di una (grossa) parte di Paese intimamente mafiosa: nella mentalità, nei modi, nelle prassi. Nella Storia.
Del resto il paragone fra Stato e mafia — intesa come quella “vera”, le organizzazioni strutturate come Cosa Nostra, Camorra e Ndrangheta — è impietoso: lo Stato perde su troppi fronti. Non garantisce il lavoro, la mafia sì. Non garantisce i pagamenti, la mafia paga sull’unghia. I tribunali statali non garantiscono un processo veloce ed equo, quelli della mafia a loro modo sì. Lo Stato non garantisce sicurezza e ordine pubblico, invece dove regnano ndrine e cosche non si muove foglia che il boss locale non voglia. Non possiamo sorprenderci se un adolescente sogna di affiliarsi alla Ndrangheta e scrive una lettera al boss “mettendosi a disposizione”.

Le indagini sui rapporti di Silvio Berlusconi con la mafia hanno una storia lunga e controversa. A oggi, il loro risultato più rilevante è la sentenza (definitiva nel 2014) che ha condannato il principale collaboratore di Berlusconi, Marcello Dell’Utri, a sette anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa, e che ha stabilito che negli anni Settanta lo stesso Dell’Utri fece da tramite in una trattativa tra alcuni boss mafiosi e Berlusconi culminata in una riunione a Milano, con la quale Berlusconi acconsentì di pagare per la protezione sua e della famiglia dai sequestri che allora temeva, o da altro.
Dice tra l’altro la sentenza di Cassazione:

In tale occasione veniva concluso l’accordo di reciproco interesse, in precedenza ricordato, tra “cosa nostra”, rappresentata dai boss mafiosi Bontate e Teresi, e l’imprenditore Berlusconi, accordo realizzato grazie alla mediazione di Dell’Utri che aveva coinvolto l’amico Gaetano Cinà, il quale, in virtù dei saldi collegamenti con i vertici della consorteria mafiosa, aveva garantito la realizzazione di tale incontro.
L’assunzione di Vittorio Mangano (all’epoca dei fatti affiliato alla “famiglia” mafiosa di Porta Nuova, formalmente aggregata al mandamento di S. Maria del Gesù, comandato da Stefano Bontate) ad Arcore, nel maggio-giugno del 1974, costituiva l’espressione dell’accordo concluso, grazie alla mediazione di Dell’Utri, tra gli esponenti palermitani di “cosa nostra” e Silvio Berlusconi ed era funzionale a garantire un presidio mafioso all’interno della villa di quest’ultimo.
In cambio della protezione assicurata Silvio Berlusconi aveva iniziato a corrispondere, a partire dal 1974, agli esponenti di “cosa nostra” palermitana, per il tramite di Dell’Utri, cospicue somme di denaro che venivano materialmente riscosse da Gaetano Cinà. […] In proposito la Corte d’appello di Palermo ha, con motivazione esente da vizi logici e giuridici, dimostrato, con i ragionamenti probatori in precedenza illustrati, che, anche nel periodo compreso tra il 1983 e il 1992, l’imputato, assicurando un costante canale di collegamento tra i partecipi del patto di protezione stipulato nel 1974, protrattosi da allora senza interruzioni, e garantendo la continuità dei pagamenti di Silvio Berlusconi in favore degli esponenti dell’associazione mafiosa in cambio della complessiva protezione da questa accordata all’imprenditore, ha consapevolmente e volontariamente fornito un contributo causale determinante, che senza il suo apporto non si sarebbe verificato, alla conservazione del sodalizio mafioso e alla realizzazione, almeno parziale, del suo programma criminoso, volto alla sistematica acquisizione di proventi economici ai fini della sua stessa operatività, del suo rafforzamento e della sua espansione.

Le prime indagini su Berlusconi e la mafia risalgono ufficialmente al 1996, anche se c’è una mai chiarita questione delle indagini a Palermo citate in un’intervista da Paolo Borsellino nel 1992 (quella celebre a Canal+) e di cui non c’è traccia ufficiale (l’unica spiegazione, non del tutto convincente, è che si trattasse di indagini su fatti che lo coinvolgevano senza che fosse indagato). Nel 1996 Berlusconi fu indagato a Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa, e negli anni successivi fu indagato a Firenze e a Caltanissetta rispettivamente per la campagna di stragi del 1992-1994 e per quelle in cui vennero uccisi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Tutte le inchieste furono archiviate. Le grandi ipotesi accusatorie non sono mai state dimostrate, non sono mai giunte a condanne, sono state sostenute solo da dichiarazioni non riscontrate di diversi collaboratori di giustizia. Ma il quadro è sconfortante, e ha dato luogo a denunce di vario tipo non solo nella “società civile” ma anche per esempio nell’Arte, basti pensare al film “Il Caimano” di Nanni Moretti.
Il quadro recita:

Berlusconi, nell’ambito degli accordi coi mafiosi di cui sopra, ha usato grandi investimenti della mafia per avviare e sostenere le sue imprese, soprattutto nel settore delle costruzioni; ha usato il sostegno della mafia al momento della sua candidatura in politica nel gennaio 1994 e per la sua vittoria successiva; ha avuto delle complicità di qualche tipo con i boss Graviano nel periodo in cui questi organizzavano la serie di attentati mafiosi in tutta Italia tra il 1992 e il 1994 (periodo in cui stando a quell’intervista di Borsellino qualcuno in Sicilia stava indagando già su Berlusconi e Dell’Utri).

È il contesto della cosiddetta “trattativa Stato-mafia”, quello dell’inizio degli anni Novanta. Gli anni dell’omicidio del parlamentare siciliano della DC Salvo Lima (12 marzo 1992) e dell’imprenditore Ignazio Salvo (17 settembre 1992), delle stragi di Capaci (23 maggio 1992) e di via D’Amelio (19 luglio 1992) contro i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino — e delle loro scorte —, delle bombe in via dei Georgofili a Firenze (27 maggio 1993) e in via Palestro (27 luglio 1993) a Milano, delle autobombe esplose a San Giovanni in Laterano e a San Giorgio in Velabro, a Roma, e del fallito attentato contro il giornalista Maurizio Costanzo (14 maggio 1993).
“I Graviano” sono Giuseppe e Filippo Graviano, boss del quartiere Brancaccio di Palermo, arrestati nel gennaio 1994 a Milano e considerati gli ideatori della campagna di stragi di Cosa Nostra tra il 1992 e 1993. I due fratelli sono figli di Michele Graviano, che secondo alcuni pentiti investì nelle aziende di Silvio Berlusconi i soldi della mafia.

I Graviano brothers

È allucinante. Stiamo per riaffidarci di nuovo a quest’uomo dalle zone di oscurità così ingombranti. Qui non si sta affermando che l’ex-Cavaliere abbia sul groppone (’ché coscienza sarebbe parola immensa) le stragi di mafia ’92–’94, ci mancherebbe.
Su quella storia lì le verità indicibili, e che però conoscono tutti, sono lineari malgrado gli ultraventennali depistaggi: Borsellino fu ucciso perché “si mise di traverso” alla famigerata trattativa Stato-mafia; i successivi attentati — via dei Georgofili, via Palestro ma soprattutto (il più indicativo) quello contro Maurizio Costanzo — mostrano chiaramente ai più smaliziati un tentativo di influenzare il nascente “partito della nazione” che sta per essere messo in campo al posto della moribonda Democrazia Cristiana, ossia Forza Italia. Attentati che ancora oggi sono al centro di inchieste, processi, polemiche violente, misteri: ricondotti storicamente alla ascesa di un clan mafioso “dei corleonesi” guidato dal boss Salvatore Riina (in carcere dal 1993) e alla sua intenzione di un attacco contro lo Stato, nel quale obiettivi e connivenze non sono tuttavia mai stati chiariti con completezza.
L’ipotesi 2014 dei magistrati della procura di Palermo responsabili delle inchieste sulla “trattativa Stato-mafia” — a partire dalle dichiarazioni di alcuni mafiosi — è che dopo gli anni 1992 e 1993 lo Stato abbia cercato di raggiungere con Cosa Nostra un accordo che avrebbe previsto la fine della stagione stragista in cambio di un’attenuazione delle misure detentive previste dall’articolo 41 bis. Come scrisse La Stampa:

A detta dell’accusa, la trattativa prosegue anche oltre l’arresto di Totò Riina nel ’93, e vive uno dei suoi momenti più drammatici col fallito attentato dello stadio Olimpico nel novembre dello stesso anno (per cui verranno arrestati i fratelli Graviano). In quel periodo, la mancata proroga di circa 300 regimi di 41 bis a detenuti mafiosi (ma non a personaggi di spicco) rappresenterebbe una prova del cedimento da parte dello Stato. Stesso discorso per la fuga di Provenzano nel ’95.

Riviviamo tutto nelle parole del giornalista e saggista Enrico Deaglio.
Nicola Mancino, all’epoca dei fatti, era ministro dell’Interno. Tra il novembre del 2011 e il dicembre del 2012 ci furono diverse telefonate tra lui e Loris D’Ambrosio, consigliere giuridico del futuro Presidente della Repubblica Napolitano, per cercare di far attivare il coordinamento dell’Antimafia nazionale (diretta da Pietro Grasso, oggi presidente del Senato) sulle due procure di Palermo e Caltanissetta. Ci furono anche delle telefonate dirette fra Mancino e il presidente della Repubblica e questa questione portò all’inizio del 2013 a uno scontro istituzionale tra Napolitano e la procura di Palermo, con la nota distruzione delle intercettazioni.
I giorni seguenti la strage di via D’Amelio (19 luglio) furono di grande angoscia. Magistrati e poliziotti di Palermo erano in rivolta, la famiglia Borsellino aveva rifiutato i funerali di Stato, l’esercito italiano stava per scendere in forze in Sicilia, la Lira stava crollando sui mercati, il “nemico” (ma chi era?) sembrava in grado di condurre a termine inaudite operazioni militari. C’era bisogno di rincuorare l’opinione pubblica e di trovare un colpevole rapidamente. La polizia comunicò immediatamente che la bomba era stata messa in un’utilitaria. Già il 13 agosto il Sisde di Palermo annunciò di aver individuato l’automobile usata e la carrozzeria dove era stata preparata; alla fine di settembre venne nominato il “colpevole”, nella persona di Vincenzo Scarantino, 27 anni: era stato lui a organizzare il furto della Fiat 126. Lo accusavano altri tre delinquenti arrestati un mese prima per violenza carnale. (Un mese dopo, intanto, in seguito a un’indagine collegata agli ultimi impegni investigativi di Borsellino e sulla base delle dichiarazioni di alcuni pentiti, veniva arrestato per il reato di “concorso esterno in associazione mafiosa” il numero tre del Sisde, Bruno Contrada.) Le prime indagini furono, effettivamente, scandalose per una quantità enorme di omissioni e di iniziative grottesche, quali quella di riempire 56 sacchi neri di detriti dell’esplosione e di spedirli a Roma per farli valutare dall’FBI. Vennero interrogati pochissimi testimoni, in particolare non vennero interrogati alcuni inquilini del palazzo che dopo vent’anni si scoprì essere stati molto importanti; il consulente informatico della polizia, Gioacchino Genchi, venne estromesso dalle indagini da La Barbera; non si seppe nulla per tre mesi e mezzo della borsa di Paolo Borsellino, che era rimasta sul sedile posteriore dell’auto che lo trasportava e poi depositata in una questura. I familiari denunciarono subito la scomparsa di un’agenda di colore rosso che il giudice portava sempre con sé.
Ma c’era Scarantino, e questo contava. Il suo arresto era stato annunciato così dal procuratore Tinebra: «Siamo riusciti con un lavoro meticoloso e di gruppo, con la partecipazione di magistrati, tecnici e investigatori, che hanno lavorato in sintonia, a conseguire un risultato importante quale l’arresto di uno degli esecutori della strage di via D’Amelio». Appena di Scarantino si seppe qualcosa di più, fu però una vera delusione, tanto apparve fasullo. Era un ragazzo, di bassissimo livello intellettuale, piccolo spacciatore, non affiliato a Cosa Nostra benché nipote di un boss della Guadagna, il quartiere meridionale di Palermo dove era conosciuto come lo scemo della borgata. Però aveva confessato, e nei mesi seguenti questo personaggio così improbabile, da semplice ladro d’auto che scambiava con qualche dose di eroina, si trasfigurò in astuto organizzatore, reclutatore di un piccolo esercito, stratega militare, partecipante di prestigio alle riunioni della Cupola. Ma già di fronte alle obiezioni dei giornalisti nella prima conferenza stampa il procuratore Tinebra aveva risposto: «Scarantino non è uomo di manovalanza». Come denunciò subito l’avvocato Rosalba De Gregorio, difensore di alcuni imputati coinvolti da Scarantino: «Scarantino era un insulto alla nostra intelligenza». Messo a confronto con due grossi boss collaboranti, questi stessi si indignarono che la polizia potesse pensare che Cosa Nostra si avvalesse di un personaggio simile («Ma veramente date ascolto a questo individuo?»). I verbali con gli esiti di quei confronti sparirono: non li fecero sparire però i servizi segreti, ma i pm.
L’inchiesta marciava spedita con molta hybris da parte di La Barbera, sicuro che sarebbe riuscito a piazzare un prodotto che lui per primo non avrebbe comprato. Il ragazzo stesso, peraltro, si smentiva, ritrattava, denunciava, piangeva, ma nessuno gli dava retta malgrado emergessero via via testimonianze di violenze e pressioni sulla sua famiglia, dei verbali ritoccati e concordati, degli interrogatori condotti in modi anomali: le sue ritrattazioni erano «tecniche di Cosa Nostra che conosciamo bene», scrisse il pm Nino Di Matteo, che in una requisitoria sostenne che «la ritrattazione dello Scarantino ha finito per avvalorare ancor di più le sue precedenti dichiarazioni»; «dietro questa ritrattazione c’è la mafia» disse il pm Palma. Intanto, il procuratore di Palermo Sabella che aveva interrogato Scarantino su altro lo aveva invece ritenuto «fasullo dalla testa ai piedi»: «decidemmo di non dare alcun credito alle sue rivelazioni».
In tre successivi processi — Borsellino 1, Borsellino 2, Borsellino Ter — l’attendibilità di Scarantino venne certificata da un’ottantina di giudici, tra Assise, Appello e Cassazione. Il ragazzo aveva intanto denunciato torture a Pianosa, promesse, inganni — arrivò perfino a fuggire dal suo rifugio e a telefonare al tg di Italia1 per denunciare la sua situazione —, ma i magistrati non vollero credergli e Scarantino riuscì a ottenere solo pesanti condanne per calunnia.
Arnaldo La Barbera, in quel frangente, per meriti scarantiniani, diventò prima Questore di Palermo e di Napoli, poi Prefetto, poi capo dell’Ucigos, l’Ufficio centrale per le investigazioni generali e per le operazioni speciali, della Polizia di Stato. L’ultima immagine ce lo mostra con casco e scarpe da tennis all’assalto della scuola Diaz durante il G8 del 2001 nella “giornata nera” della polizia italiana. Allontanato dall’incarico dopo quello scandalo, La Barbera morì per un tumore al cervello nel 2002 a soli 60 anni.
Tutta la “baracca Scarantino”, intanto, continuò placidamente fino al 2008, senza che nessuno — giornalisti, politici, mafiologi, commissione antimafia, CSM — trovasse strano che, in mezzo a tanti discorsi su strategie, trattative, struttura di Cosa Nostra, et cetera, la realizzazione della strage di via D’Amelio fosse stata affidata a un ragazzo bocciato tre volte in terza elementare; un ragazzo che non era stato neppure ricompensato per la sua impresa — dopo il “colpo del secolo” aveva continuato a tramestare nel suo quartiere rubando gomme.
Poi nel 2008 compare sulla scena lo spietato assassino di don Puglisi — il parroco ucciso dalla mafia nel 1993 a Palermo —, toccato improvvisamente dalla fede. Si chiama Gaspare Spatuzza e, oltre a raccontare tutta la stagione delle stragi di mafia degli anni Novanta di cui è stato protagonista, candidamente afferma: «Scarantino non c’entra, la strage l’ho organizzata io». E fornisce prove, indirizzi, particolari completamente diversi da quelli che fino ad allora una schiera di magistrati aveva valutato “perfettamente riscontrati” con il pentito “attendibilissimo” Scarantino (in sostanza, non avevano riscontrato un bel niente: alla prima verifica sul campo di quello che disse Spatuzza sul furto dell’auto si capì che quella verifica non era mai stata fatta sulla versione di Scarantino). Pur nell’imbarazzo, gli ergastolani vengono scarcerati (alcuni hanno invece addirittura già scontato tutta la pena per la collaborazione alla preparazione dell’attentato): ma non assolti, si badi. Nove anni dopo, la revisione del loro processo si è conclusa ieri, 13 luglio 2017, con l’assoluzione di tutti gli imputati.
A Caltanissetta, nel 2012, inizia invece il “Borsellino quater”, nato dalle confessioni di Spatuzza e terminato il 18 aprile 2017 con alcuni altri ergastoli e la conferma della condanna per calunnia (nei confronti dei suoi coimputati) a Scarantino, prescritta grazie all’attenuante di «essere stato indotto a commettere il reato» da non meglio identificati «apparati di polizia». Si aspettano, dopo 25 anni, le motivazioni, ma probabilmente le aspettative saranno deluse: la colpa delle ingiuste condanne precedenti sarà addossata al defunto La Barbera, nessun magistrato complice del depistaggio — in buona o cattiva fede — sarà coinvolto. Dei poliziotti si dirà che sì, forse, avranno torturato un po’, ma che le accuse contro di loro non avrebbero retto in aula. La gran parte dell’informazione giornalistica continua a raccontare il depistaggio come “una serie di bugie” del “falso pentito” Scarantino, che avrebbe ingannato decine di esperti poliziotti e magistrati.

All’inizio di giugno 2017 si diffonde un altro scoop: Giuseppe Graviano, il dimenticato boss di Brancaccio, è stato intercettato per ben un anno nel solito cortiletto della cella del 41 bis, mentre colloquia con il solito “detenuto civetta” incaricato di farlo parlare. E cosa dice? Prima di tutto che ha messo incinta sua moglie in cella — mentre era in teoria severamente ristretto al 41 bis — e poi che Silvio Berlusconi è un ingrato traditore. Che lui lo ha fatto ricco, e poi gli ha fatto un “gran favore”. Ma poi venne arrestato, proprio a Milano, pochi giorni prima delle elezioni del 1994 e quell’ingrato non è stato in grado di farlo uscire di galera, mentre invece spendeva i suoi soldi con le puttane. Pronta la smentita dell’avvocato di Berlusconi, Ghedini, e le ricostruzioni che in gran parte concordano sul fatto che Graviano sapesse di essere intercettato e quindi va’ a sapere cosa fosse vero e cosa no: ma intanto nei giorni scorsi quelle conversazioni registrate sono state ammesse agli atti del processo in corso sulla “cosiddetta (!) trattativa tra Stato e Mafia”, e Graviano sarà ascoltato. Il processo sulla Trattativa si trascina da anni, ne durerà ancora molti e ha diviso l’opinione pubblica, in queste proporzioni: il 90 per cento se ne frega; il 5 per cento pensa che il pm Nino De Matteo che la conduce sia il nuovo Falcone e un perfetto ministro nel prossimo governo Cinque Stelle; il restante 5 per cento pensa sia una cialtronata.
Ma gli scoop non sono finiti. Sempre Enrico Deaglio sul Venerdi di Repubblica, luglio 2013:

Il 12 giugno la corte di Caltanissetta si è trasferita a Roma per ascoltare il famoso pentito. Quel giorno, nella routine delle videoconferenze e dei paraventi, è però successo un “incidente”.
L’avvocato Flavio Sinatra, difensore degli imputati Salvino Madonia e Vittorio Tutino, sta controinterrogando il teste Spatuzza. Gli domanda se avesse già detto in passato a qualcuno, ciò che lo rese famoso nel 2008. Spatuzza nega. L’avvocato gli domanda se avesse parlato della strage di via D’Amelio con altri magistrati e il pentito si innervosisce. “Non ricordo”. Ed ecco il colpo di scena: si materializza un verbale di interrogatorio di Gaspare Spatuzza reso nel 1998 nientemeno che all’allora capo della Procura nazionale antimafia Pier Luigi Vigna (morto nel 2012) e al suo vice, Piero Grasso, l’attuale presidente del Senato. Contenuto? Beh, diciamo: esplosivo. Sconcerto in aula. Da dove salta fuori il verbale? Nientemeno che dal fascicolo del pubblico ministero, dove risulta protocollato nel 2009, ma nessuno, prima dell’avvocato Sinatra, si era mai accorto della sua esistenza. L’avvocato Sinatra chiede che il verbale sia messo agli atti; la parte civile della famiglia Borsellino si associa; lo stesso fa quella del Comune di Palermo.
La Procura invece si oppone perché il verbale non porta la firma del pentito, e quindi è un documento senza valore giudiziario. La Corte le dà ragione e non lo ammette.

Il presidente del Senato chiese allora al Venerdì che si facesse chiarezza sul documento (era, più esattamente, un verbale di “colloquio investigativo”) e una corretta interpretazione dei fatti venne affidata all’allora procuratore di Caltanissetta Sergio Lari, raccolta dal giornalista Piero Melati per il Venerdì: «Copia del verbale e il file della registrazione sono stati trasmessi a Caltanissetta nel dicembre 2008 dal procuratore antimafia Grasso per verificare l’attendibilità dello Spatuzza che, come noto, nel giugno del 2008 aveva cominciato a collaborare. Per un mero disguido il verbale e il file con la registrazione sono stati inseriti nel fascicolo del pm del processo Borsellino Quater, piuttosto che nel fascicolo della DNA (Direzione Nazionale Antimafia) dove andavano custoditi gli atti non processualmente utilizzabili sulle stragi del 1992».
E della cosa non si parlò più. Alcuni mesi fa, però, dopo 4 anni (i processi durano molto, in Italia), l’avvocato Sinatra è tornato alla carica e questa volta — eravamo nelle fasi finali del dibattimento — la Corte gli ha dato ragione: il verbale non è stato più considerato impresentabile, ma è ufficialmente entrato a far parte degli atti pubblici (il file pare di no, piuttosto illogicamente).
Riannodiamo i fili tornando al 1997. Arnaldo La Barbera lascia la Questura di Palermo e si trasferisce a quella di Napoli. Il suo posto viene preso da Antonio Manganelli. Sotto la sua direzione avviene l’arresto di Gaspare Spatuzza, il terribile killer di don Puglisi, il 2 luglio 1997. Un arresto anomalo per la città di Palermo: scontro a fuoco, cento bossoli sul terreno, lo stesso arrestato ferito (stavano cercando di farlo fuori?). Secondo alcune ricostruzioni, Spatuzza parla subito e racconta dei legami tra il suo capo, Giuseppe Graviano e Silvio Berlusconi, oltreché della strage di via D’Amelio. Secondo altre, lo fa solo qualche mese dopo. Chi l’abbia ascoltato, non si sa. L’unico reperto storico che abbiamo è proprio il famoso verbale, “colloquio investigativo” a cui Spatuzza partecipa (ma non firmerà) nel carcere dell’Aquila il 26 giugno 1998. Lo interrogano Pier Luigi Vigna, procuratore generale antimafia e Piero Grasso, suo vice. In realtà, il colloquio sembra svolgersi secondo certi riti siciliani, ed è quindi condotto quasi esclusivamente da Grasso. Si capisce che non è la prima volta che i tre si parlano. E anche che non sarà l’ultima. Nel colloquio Vigna e Grasso cercano conferme su una serie di cose che hanno in testa («abbiamo un quadro in mente, ma che abbiamo bisogno di verificare») legate alla campagna di attentati mafiosi tra il 1992 e il 1993:

  1. La logistica dei vari attentati a Roma, Milano, Firenze;
  2. I legami dei boss Graviano con Fininvest, Dell’Utri, Berlusconi (sui rapporti tra la mafia e Berlusconi e Dell’Utri si indagava già da alcuni anni);
  3. Le modalità dell’arresto dei fratelli Graviano a Milano, ritenuti mandanti delle stragi, per capire se l’arresto sia stato deciso e accelerato da qualcuno in quel determinato momento.

Spatuzza non risponde a tutte le domande. Sta trattando (è una repubblica di trattative, questa). Nel 2014 spiegherà in aula che «allora la mia non era una collaborazione. Avevo solo mostrato disponibilità perché dentro di me mi ero ravveduto». Ma sulla strage di via D’Amelio offre notizie assolutamente inedite e che anni dopo verranno confermate:

  • l’esplosivo usato non è Semtex, ma un residuato bellico fornito da un pescatore palermitano, recuperato in mare dove ce n’è molto; lo stesso esplosivo è stato usato anche per la strage di Capaci e per altri attentati.
  • Scarantino è un falso pentito inventato dalla polizia. Le persone che Scarantino ha accusato e che sono state condannate non c’entrano con la strage di via D’Amelio.

Il colloquio si chiude con il rifiuto di Spatuzza a controfirmarlo — a ulteriore garanzia della sua informalità — e con il rinvio della discussione a un prossimo appuntamento, che non sappiamo se ci sia stato.
Cosa è successo, dopo? Tutto e niente: tutto, intorno alle indagini e ai processi che hanno ribaltato in quasi vent’anni le tesi e le condanne iniziali; niente intorno a quelle rivelazioni di Spatuzza del 1998, sparite fino al ritrovamento del verbale, quasi un fossile riemerso da un’altra èra, per un «mero disguido», sedici anni dopo nelle carte di un pm di Caltanissetta.
In concreto — nei dieci anni trascorsi tra il 1998 e il 2008 — nulla è successo per impedire che il depistaggio proseguisse. La magistratura di Caltanissetta non ha preso la minima iniziativa, anzi ha semplicemente passato gli anni a cercare di impedire che il depistaggio (e il suo ruolo in esso) venissero rivelati.
Anche nei successivi altri nove anni (dal 2008, data del pentimento ufficiale di Spatuzza a oggi, 2017), è successo molto poco. I magistrati che avevano sposato la falsa pista si sono tutti autoassolti. I poliziotti accusati di torture sono stati “archiviati”. E nessun particolare passo avanti — indagini patrimoniali, ricerche di conferme, uso di intercettazioni, collocamento di microspie o quant’altro e neppure altri “colloqui investigativi” — risulta sul contesto del delitto Borsellino e della campagna delle stragi indicati da Spatuzza. Le indagini hanno piuttosto preso, incredibilmente, altre strade.
«La mancanza di indagini e di risultati, in ben 19 anni, mi fa concludere che il depistaggio sia riuscito perfettamente e sia ancora in corso», conclude amaramente Deaglio. E ci sono dentro (non è dato sapere fino a che punto e con quali ruoli) anche vertici dello Stato di ieri e di oggi.

L’assassino e stragista Gaspare Spatuzza, “pentito” e “in trattativa”

Ma perché? Perché noi Italiani siamo fatti così male? Quali buie, torbide ragioni ci inducono ad accodarci plaudenti al despota di turno, sempre più privi di ogni senso di responsabilità civile? Perché quelli di noi rimasti con un po’ di sale in zucca sono da secoli (il problema è antico) costretti a vergognarsi di “essere italiani” al cospetto di stranieri che ci accusano — a ragione — di decadenza, corruzione, debolezza, conformismo, passività politica e morale?

Intanto perché la Sinistra ha abdicato.

Non si finisce nella merda per puro caso o per mancanza di alternative: è che queste ultime hanno tradito. La Sinistra nasce “internazionalista”: nel secolo degli Stati nazionali al loro massimo — l’Ottocento —, teorizza lo scontro non tra nazioni ma tra classi sociali. Classi traversali alle patrie. Ciò nonostante, nel corso della seconda metà del secolo successivo tutte le conquiste della Sinistra, e delle classi popolari che la Sinistra allora rappresentava, sono avvenute attraverso gli Stati nazionali. Cioè attraverso leggi di tutela dei ceti deboli e dei lavoratori che venivano approvate dagli Stati nazionali, e al loro interno implementate.
È così che per esempio sono nate le socialdemocrazie scandinave, il modello migliore di società mai raggiunto dall’umanità. E qualcosa di non troppo diverso è avvenuto anche altrove (dalla SPD in Germania al Labour inglese).
Così è nato il “welfare”, sono nate tutte le misure che hanno diminuito la forbice sociale in Europa. Anche in Italia, con lo Statuto dei Lavoratori e il Servizio Sanitario Nazionale pubblico e universale. (Perfino prima del centrosinistra, con il “piano casa” di Fanfani. Perché non serviva nemmeno sempre che le sinistre governassero: bastava la paura del Comunismo, perché qualcosa venisse concesso.) A Novecento avanzato, l’Europa era diventata l’area del mondo con le migliori misure sociali.
Poi, a partire dagli anni ’80, poco a poco son finiti gli Stati nazionali, o almeno le economie nazionali. I capitali hanno cominciato a viaggiare da un Paese all’altro. I mercati sono diventati globali. Le aziende hanno iniziato a delocalizzare: se lo Stato voleva tassarne gli utili per redistribuire, quelle andavano altrove.
Quindi i mercati — quelli ormai globali — sono diventati sempre più indispensabili per ogni spesa pubblica, avendo gli Stati debiti con essi. Dunque, premiando o punendo gli Stati-debitori, i mercati hanno preso a indirizzarne le scelte politiche. Uno Stato fa qualcosa di sgradito ai mercati? Con tre clic su un computer, questi fanno andare in default lo Stato in questione.
In un secolo, quindi, l’internazionalismo si è rovesciato: da ideale “di sinistra” e popolare è diventato uno strumento per togliere diritti, benessere e welfare alle classi popolari stesse. Nessuna politica sociale può più essere fatta dai singoli Stati nazionali. I poteri si sono spostati altrove. L’internazionalismo è diventato “di destra”, in senso economico.
La reazione è stata quella che vediamo: il neonazionalismo. L’aspirazione dei ceti bassi e di quelli proletarizzati a “tornare indietro”: verso le frontiere, i muri, l’identità nazionale contro tutti gli altri. Una cosa che però è di destra di suo, da sempre: infatti si declina in Trump e Le Pen.
Ci si illude che, rialzando muri, alla base della piramide sociale si possa riacquistare ciò che la globalizzazione dei mercati ha tolto.
Di qui la situazione attuale: ceti popolari, tradizionali elettori di sinistra, che ora votano la destra nazionalista. E — peggio — nuove generazioni che non sperano più che il mondo possa cambiare e hanno della politica un’idea di galleggiamento.
Ma anche una parte della Sinistra applica lo stesso ragionamento immediato, intuitivo: in quel campo di gioco lì — quello nazionale — vincevamo o almeno pareggiavamo, comunque qualcosa si otteneva; in questo campo di gioco qui — l’Europa, il mondo — si perde, e male, una manita proprio. Meglio sarebbe quindi, secondo questa logica, tornare agli Stati nazionali. Ed ecco che per esempio Renzi rincorre la Destra e Salvini sul loro stesso terreno («Aiutiamoli a casa loro»).

Eppoi perché siamo corrotti e corrosi dentro, profondamente, come popolo.

I conti del Paese sono messi così male soprattutto per un welfare enorme e sclerotico frutto di decenni di stratificazione clientelare, un’evasione fiscale sudamericana, una pubblica amministrazione esorbitante, tassi di assenteismo desolanti, repulsione collettiva per le regole, totale disinteresse per il bene comune. Ovvio che poi esprimiamo una classe dirigente inetta e spesso fuorilegge. Insomma, nessuno di noi è innocente davanti al proprio destino: ammetterlo, è il primo passo dei forti.
Peraltro ce lo ha già spiegato benissimo Ermanno Rea ne “La Fabbrica dell’Obbedienza”. A seguire ne cito una summa.

Perdono, condono, impunità, tolleranza, tangente, favore, collusione, corruzione: non si contano i lemmi che compongono il nostro dizionario del degrado, tutti strettamente intrecciati tra loro in modo da formare un unico percorso a carattere praticamente obbligato. La corruzione di massa ha soprattutto questo di insopportabile: si sottrae di fatto a ogni contraddittorio, pretende di non avere più un “diverso da sé”, un opposto con cui confrontarsi. Si costituisce come fatalità e norma.

Ci fu un tempo in cui l’Italia era “la civiltà” e gli altri “i barbari”. Uno splendore italiano che, al di là della gloriosa e irripetibile Romanità, raggiunse l’apice in epoche più recenti con l’Umanesimo e il Rinascimento.
Come illustra Wikipedia, «per “Umanesimo” si intende quel vasto movimento culturale che, iniziato negli ultimi decenni del Trecento e diffusosi nel Quattrocento, ha come caratteristica principale la riscoperta dell’Uomo attraverso la ricerca e la letteratura dei classici latini e greci: “humanae litterae” o “studia humanitatis”, da cui appunto trae origine il termine “Umanesimo”. Alla visione medievale della vita, che poneva Dio al centro dell’Universo e imponeva all’Uomo una totale sottomissione al volere e al potere della Chiesa, gli umanisti contrappongono una visione in cui l’essere umano è posto al centro dell’Universo ed è considerato artefice e padrone del proprio destino. Si diffonde una grande fiducia nell’intelligenza umana; si esaltano, in particolar modo, la dignità dell’Uomo, la sua superiorità sugli altri esseri naturali, le sue innumerevoli capacità creative. Centri di diffusione della nuova cultura sono soprattutto le grandi corti signorili, in particolare la corte di Lorenzo de’ Medici detto “il Magnifico”, presso la quale si riuniscono moltissimi artisti e letterati del tempo».
Pico della Mirandola fu autore di una “Oratio de hominis dignitate” che gli storici considerano il “manifesto” del Rinascimento, l’opera che meglio spiega e descrive il genio creativo dell’Italia di quegli anni. Di fronte alla «fervida Italia» (dal Trecento a tutto il Cinquecento) il mondo continuava reverente a inchinarsi: l’elogio attraversava i secoli e tutto lasciava credere che non sarebbe mai finito.
Umanesimo e Rinascimento avrebbero altresì portato ben presto l’Italia a unificarsi anche politicamente: il primato morale e intellettuale della Penisola in Europa avrebbe determinato la necessità di una simile conseguenza. Avremmo avuto l’Unità non nel 1861 ma già nel XVI secolo, saremmo stati avanti a Francia e Stati Uniti, e forse oggi l’Italia sarebbe qualcosa di molto diverso, e di più “grande” (e stimato), a livello planetario.
A conti fatti l’italiano, comunque lo si voglia giudicare oggi, spunta fuori da lì, proviene da quel «bagliore fatto di tante luci improvvisamente accese», a cominciare da quella di un idioma che quasi non fa in tempo a nascere e già si incarna in una serie di capolavori che dettano legge ancora oggi: basti pensare a Dante, Petrarca, Boccaccio. Non accadde da nessun’altra parte, sebbene una letteratura provenzale e una letteratura francese precedettero di oltre un secolo quella italiana (benché entrambe prive di forti personalità poetiche, con un significato forse più sociale e politico che artistico).

Che cosa successe, dunque? Che cosa impedì al nostro luminoso destino di compiersi?
Qualcosa avvenne, e di grosso, a livello teocratico: una “protesta” contro la Chiesa Cristiana corrotta. Gli eccessi mondani della Chiesa “secolare”, rappresentata dall’èra di Alessandro VI (1492–1503), erano esplosi sotto papa Leone X (1513–1522), la cui campagna per raccogliere fondi per ricostruire la Basilica di San Pietro con la “vendita delle indulgenze” fu la chiave che sollecitò la “protesta delle 95 tesi” di Lutero. Una dissidenza che portò alla scissione del Cristianesimo, con la Riforma Protestante, muovendo dalle istanze di Martin Lutero, Giovanni Calvino, Ulrico Zwingli, Thomas Müntzer e Filippo Melantone.
Alla spaccatura protestante, la Chiesa reagì con la causa primigenia di tutti i nostri mali attuali: la Controriforma.

Alla rottura dell’unità cristiana dovuta alla “ribellione” di Lutero, l’Europa si divaricò in due contrapposte concezioni religiose e politiche che non tardarono ad avere ripercussioni di carattere addirittura antropologico — in ogni caso, di natura culturale tra un’Italia attraversata da una prepotente vocazione teocratica (è esattamente a questo punto che nasce quella “questione cattolica” che non ci scrolleremo più di dosso) e un’altra cospicua parte del continente avviata sulla strada di una laicità destinata ben presto a trasformarsi in “rivoluzione borghese”.

L’italianissimo servilismo con prospettiva di lucro, o comunque di vantaggio contingente, e relativa mancanza di scrupoli e di senso della responsabilità, si caratterizzano sempre più come il portato di un lungo, lunghissimo addomesticamento che si sviluppa nei secoli a partire dalla Controriforma fino ai giorni nostri senza soluzione di continuità.

Vengono dalla Controriforma gli effetti nefasti del cattolicesimo sul popolo italiano, sul nostro modo di essere cittadini, anzi sudditi poco inclini alla responsabilità individuale, poco sensibili al nostro destino morale, sempre intenti a tessere compromessi con noi stessi e con il mondo, convinti che la ricetta della felicità stia soprattutto nel conferire deleghe in bianco a chiunque si mostri saldamente in possesso di quel bene ineffabile che si chiama “carisma” (parola greca che in origine significava semplicemente “grazia”, ma che nella teologia cattolica, come spiega il dizionario Garzanti, sta per «dono soprannaturale che Dio può elargire a un credente per il bene della Chiesa»). Viene voglia di dire che in cima ai nostri pensieri di italiani perfetti (per fortuna ci sono anche gli imperfetti) ci sono soprattutto “uomini della Provvidenza” dotati di molto carisma. L’odore che preferiamo è quello dell’incenso.

La Controriforma espulse dall’Italia quell’«homo novus» che era stato appena plasmato da Umanesimo e Rinascimento, e lo sostituì con un suddito deresponsabilizzato, vera e propria maschera della sottomissione e della rinuncia a ogni forma di autonomia di pensiero. Essa trovò nel popolo italiano un materiale umano nient’affatto malleabile — anzi di grana dura e speciale, come sta a dimostrare la vicenda di Giordano Bruno che muore sul rogo convinto che la libertà di giudizio è tutto e senza libertà di giudizio la vita non è più un bene, non vale nulla, meglio non viverla affatto —, e reagì muscolarmente.
Gli Italiani, non ancora “coagulati” in in vero e proprio popolo, furono costretti a vivere l’esperienza di una sottomissione (di cui continuano a pagare le conseguenze) attraverso quel “divieto di pensare in proprio” che si trasformerà ben presto in conformismo coatto e cortigianeria. Che cosa fu infatti la Controriforma se non l’obbligo ad affidarsi ciecamente alla parola dei papi e delle gerarchie della Chiesa, unica titolata a pronunciare sentenze di merito, e non soltanto nel campo etico e in quello dei comportamenti quotidiani, ma perfino in quello scientifico?
La Chiesa pretende di avere proprie risposte a qualunque quesito, terreno e ultraterreno. Risposte indiscutibili. Risposte che non ammettono alcun compromesso. Risposte che esigono soltanto cieca obbedienza. Possiamo ben dire che la Chiesa, tra il Cinquecento e il Seicento e anche oltre, farà conoscere con notevole anticipo all’Italia (e non soltanto) il fascismo che si annida tra le pieghe del potere, di qualsiasi potere e tanto più di quelli che non si accontentano di imporre le proprie regole con la forza bruta ma pretendono d’impossessarsi della coscienza stessa del cittadino, espugnandone mente e cuore.
Il modello Inquisizione, oltre a costituire una sorta di rappresentazione anatomica del potere dispotico, può essere considerato, almeno in parte, un caso di “fascismo vincente”. Fu messa in moto la più mostruosa macchina repressiva fino ad allora conosciuta, le cui conseguenze arrivano fino ai nostri giorni (e tutto lascia pensare che li supereranno).

Circa le tecniche per il controllo delle anime, l’istituto della “confessione” divenne lo strumento principe usato da Santa Romana Chiesa per raggiungere i suoi scopi. Per Agostino di Ippona (“sant’Agostino”, 354–430 d.C., massimo pensatore cristiano del primo millennio e certamente anche uno dei più grandi geni dell’umanità in assoluto), soltanto Dio sa se nel confessarmi ho detto la verità oppure ho mentito, quindi soltanto Dio è in grado di giudicarmi ed eventualmente assolvermi (i primi capitoli del libro Decimo delle “Confessioni” risultano particolarmente illuminanti su questo tema). La Controriforma sovvertì tale principio: essa conferì in maniera definitiva alla confessione carattere privato e auricolare; prevalse la concezione del peccato come crimine, almeno in parte risolvibile, oltre che attraverso il pentimento, sulla base di una “transazione” con l’autorità ecclesiastica. In altri termini, la Chiesa cattolica romana pretese (e pretende) di esercitare, attraverso la penitenza, un potere disciplinare sui singoli cristiani, in netta contrapposizione con la concezione protestante della penitenza che non ha niente da spartire con «l’espiazione mediante le opere o il pagamento in denari».

Concilio di Trento, XVI Sec.

Se una data di nascita può essere attribuita al cittadino italiano post-rinascimentale, essa cade fuori d’ogni dubbio in quel 1545 in cui prese il via il Concilio di Trento, fonte di decisioni capitali e irreversibili. Fu infatti nel corso di quell’assemblea che il nostro carattere nazionale prese definitivamente forma come “dipendenza” da un’autorità frapposta in maniera ineludibile tra noi e la nostra coscienza. Tra noi e il nostro Dio. Fu allora che i sacerdoti furono definitivamente sciolti dall’obbligo della segretezza riguardo alle rivelazioni apprese in confessionale e costretti a denunciare all’Inquisizione, oltre alle persone sospettate di eresia, anche i nomi dei loro eventuali complici. E fu sempre allora che cominciarono ad ardere, assieme ai roghi, anche i primi falò di libri giudicati in prevalenza veri e propri strumenti di Satana messi in circolazione per devastare menti e anime.
Nel contrasto della penitenza come “conversione”, rientro in se stessi, strada verso Dio, e la confessione come tribunale delle colpe, è racchiuso il più ampio conflitto tra una “religione della coscienza” e una “religione dell’autorità”. Fu ribadito e disciplinato il vecchio sistema delle pratiche e degli scambi maturato nel tempo intorno alla penitenza, che diventò di fatto la soluzione cattolica alla speranza di salvezza nell’aldilà, e nello stesso tempo lo strumento del dominio e controllo delle coscienze da parte dell’autorità ecclesiastica.

«Quando si pensa all’Italia si pensa al Rinascimento. Ma l’Italia attuale è l’opposto dell’Italia del Rinascimento. Essa è il prodotto di tutte le forze storiche che hanno voluto combattere gli effetti del Rinascimento cancellandone il risultato. La prima di queste forze è la Controriforma, sotto il suo aspetto primitivo dapprima, quello della fine del XVI e del XVII secolo: interdizione del teatro in Italia, direzione dell’arte, soppressione della letteratura umanistica e non religiosa, lotta conto il movimento scientifico. Cattolicesimo spagnolo e austriaco. Inquisizione. Spionaggio politico e religioso. Niente libri stranieri, proibizione di pubblicare qualunque cosa che non sia stata censurata cinque o sei volte. Questo stato di cose si prolunga sino al XIX secolo o piuttosto si generalizza. Vedere la descrizione di Stendhal e di Taine. Una sola eccezione sino alla fine del XVIII secolo: Venezia. Essa è anche il solo paese d’Italia dove ci sia ancora una pittura originale nel XIII secolo. Altrove la Chiesa sterilizza istantaneamente tutto ciò che tocca. È istruttivo vedere dei centri politici, intellettuali e artistici già molto brillanti, Ferrara e Urbino per esempio, ridotti a zero dall’oggi al domani, dopo che la Chiesa vi ha messo sopra le mani: stasi di qualsiasi produzione, morte e tristezza (ancora oggi); svendita delle opere d’arte da parte dei cardinali legati. […] La Controriforma, il contro-Rinascimento, si estende in Italia nel XVII e XVIII secolo. Si rinnova e si aggrava nel XIX secolo fino all’Unità. Nel XX secolo, dopo la seconda guerra mondiale. La Chiesa si affanna instancabilmente a spegnere tutto ciò che era stato alla base del Rinascimento: libertà intellettuale, libertà morale, curiosità scientifica, gusto della bellezza in se stessa, avidità di godere la vita, ricerca appassionata su tutte le idee.»
(Jean-François Revel, “Pour l’Italie”, 1958)

La confessione è a sua volta parente del pentitismo, fonte di delazione che si fonda su precisi programmi di scambio: protezione e benefici giudiziari contro informazioni, testimonianze, denunce. Non è forse diventata, l’Italia, il Paese dove tutti si pentono? In cui tutti si confessano? In cui tutti contano su una riabilitazione facile che restituisca loro la possibilità di nuovi peccati da confessare e di cui pentirsi in futuro?

Di fronte al ricco che ruba, evade, specula, mette sul lastrico la povera gente, la Chiesa non ha mai agitato crocifissi al grido di «Vade retro, Satana!». Il che ci autorizza a chiedere se questo silenzio, questa ostentata disposizione alla benevolenza, non abbiano incoraggiato e non continuino a incoraggiare abusi e reati, insomma se non configuri un “costo” economico per l’intera comunità.
C’è chi si chiede come possano tanti malavitosi, autori di delitti efferati, dirsi convintamente cattolici e partecipare a cerimonie e riti religiosi; se ciò non avvenga per effetto di un qualche paradossale equivoco da parte loro. Ecco un modo per dimenticare chi siamo e da dove veniamo. Come se roghi, supplizi e abusi di ogni genere non fossero stati garantiti da una vera e propria teologia della crudeltà e della delazione.
Un tema che non è stato ancora indagato — almeno non è stato ancora indagato a fondo — è quello delle connessioni tra la cosiddetta Onorata Società e le istituzioni religiose meridionali soprattutto nel nostro passato remoto, quando si originarono le prime strutture mafiose all’ombra dei potentati locali, impasto di aristocrazia terriera e clero (i rapporti della mafia con il potere non sono certo una novità del Novecento). Quanto al ruolo di alleato naturale sostenuto dalle gerarchie ecclesiastiche nei confronti dei ceti dominanti nell’Italia del Sud, esiste una vasta letteratura al riguardo: c’è solo l’imbarazzo della scelta. Secondo il giornalista Francesco Merlo, la mafia avrebbe addirittura mutuato l’intero sistema penale dell’Inquisizione. La “faccia tagliata”, per esempio, era la tortura che la Chiesa infliggeva all’eretico. E il “sasso in bocca” è la variante mafiosa della mordacchia inquisitoriale, pena comminata al bestemmiatore.

Servili, bugiardi, fragili, opportunisti: il mondo continua a osservarci stupito e a chiedersi donde provengano tante riprovevoli inclinazioni, tanta superficialità etica e tanta mancanza di senso di responsabilità. Colpa delle stelle?, del clima?, della natura beffarda che ci avrebbe fatti così per puro capriccio? Affatto!
Dopo oltre quattro secoli, la “fabbrica dell’obbedienza” continua a produrre la sua merce pregiata: consenso illimitato verso ogni forma di potere (tanto meglio se dal cuore marcio, dal momento che la Controriforma sa essere sempre molto indulgente con se stessa e con i propri alleati e sostenitori). Da allora nulla è più cambiato: l’italiano si confessa per continuare a peccare; si fa complice anche quando finge di non esserlo; coltiva catastrofismo e smemorante cinismo con eguale determinazione. Dall’Ottocento unitario al Fascismo, dal dopoguerra democristiano alla stessa dinamica del Compromesso Storico, fino alla maestosa festa mediatica del berlusconismo, il proverbiale “Mario Rossi” ha indossato la stessa maschera dell’ossequioso Girella, il protagonista del “Brindisi”, poesia scritta da Giuseppe Giusti e pubblicata nel 1844, un uomo che aveva la caratteristica di cambiare opinione in continuazione schierandosi sempre dalla parte del più forte, del vincitore — e di ciò si vantava —: «viva il potere!, viva i ricchi!, viva la Chiesa!».

Se ne può uscire? Certo che si può!

Non ho scritto tutto questo “sproloquio” solo per “lamentarmi e criticare”. Ho la presunzione di proporre anche delle soluzioni. Distruggo ma al contempo costruisco, insomma.
Sì che se ne può uscire. Alla lunga, rifondando di sana pianta il principio di Responsabilità, ripartendo dalla Scuola. Nel breve, cominciando intanto dalle due fondamentali questioni dei localismi e del divario Nord-Sudossia di quell’unità d’Italia che è ben lungi dall’essere completata.

Bisogna rimettere mano al disastro dei localismi. Le Regioni furono istituite a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta. Ma già nell’immediato dopoguerra alcune grandi figure mai abbastanza rimpiante, da Nitti a Togliatti, ammonivano sui pericoli dell’ordinamento regionale per la stessa sopravvivenza dello Stato italiano. Nitti per esempio non si limitò soltanto a raccomandare alle forze politiche di non abbandonare la Repubblica nelle mani degli interessi locali che avrebbero finito per dissolvere lo Stato: mise in luce l’impossibilità delle finanze italiane di sostenere le spese delle Regioni dimostrando, cifre alla mano, che esse avrebbero portato l’Italia al dissesto. La moltiplicazione e la contestuale deresponsabilizzazione dei centri di spesa ha fatto saltare i conti dello Stato, contribuendo decisivamente alla edificazione del terzo Debito Sovrano del mondo.
E bisogna riprendere in mano la “questione meridionale”. Che non significa riproporla nei termini “gramsciani”: è passato quasi un secolo e la depressione politica del Mezzogiorno non s’identifica più nel potere della classe agraria e nella sua alleanza subalterna con la borghesia industriale del Nord, ma nel potere di una borghesia mafiosa, e nello scambio tra il voto elettorale che essa garantisce al governo centrale e le risorse finanziarie che riceve tramite quello, e che gestisce attraverso i governi locali. Questa borghesia politica è legata alla mafia militare (quella dei Provenzano e dei Riina come dei Casalesi), in un rapporto dialettico che comporta tensioni e conflitti, ma che resta indissolubile: il che spiega l’eterna risorgenza delle mafie dopo i colpi anche durissimi che esse subiscono dall’apparato giudiziario e militare dello Stato.

Sul lungo periodo il lavoro da fare è politico/filosofico. Se una forza politica “dal basso” va fondata, questa non può che essere rivolta a correggere le imposture e l’impoverimento della società italiana, a valorizzare i meriti e a rispondere ai bisogni individuali e collettivi, per ricostruire in Italia l’etica della responsabilità.
Una forza che crede nella “libertà” intesa come possibilità di scegliere sulla base della propria responsabilità: contrastare i ricorrenti tentativi di invadenza delle burocrazie statali, delle religioni e delle ideologie nella sfera della libertà individuale, e fondare la propria azione sul rispetto dei diritti civili e umani — in Italia come nel mondo.
Uguaglianza fra le persone e libertà personale, contrariamente a quanto affermato dalle dottrine degli ultimi secoli — Comunismo, Fascismo, Liberismo —, sono indivisibili; è necessario operare affinché sia garantito a tutti il massimo delle opportunità; è necessario promuovere le condizioni perché ciascun individuo possa decidere il proprio destino. Libertà di pensiero, inoltre, deve significare riconoscimento del “valore” della diversità delle opinioni e delle fedi: bisogna contrastare ogni forma di fondamentalismo che tenda a trasformare i propri dogmi in leggi dello Stato che condizionano tutti gli altri; al contrario, è dalla diversità di opinioni che nasce lo sviluppo.
La religione, ancorché libera, deve restare nella sfera più intima dell’individuo, mai deve essere posta a discriminazione o, peggio, a supporto di qualunque idea, azione od omissione.
Cultura e lavoro sono i principî cardine: bisogna promuovere l’istruzione e la formazione durante l’arco di tutta la vita.
I sistemi di sicurezza sociale — sanità, istruzione, previdenza — devono salvaguardare e ove possibile migliorare le condizioni di vita dei cittadini, prevenendo i rischi di impoverimento e di esclusione. In tutti i campi della società devono essere aboliti privilegi e garanzie corporative, che sono freni alla crescita e fucine di ingiustizia.
La “sicurezza”, estesa a tutti, non deve ammettere acquiescenze e connivenze davanti a criminalità grande e piccola, violenza razzista e xenofoba, violenza nei confronti delle donne e dei minori.
A livello pratico, istituzionale, un movimento che venga “dal basso” non può/deve riconoscersi altro che in politiche dello “Stato sociale”: ciò significa non solo accettazione della democrazia parlamentare e del mercato capitalistico-con-correttivi, ma anche e soprattutto intervento regolatore dello Stato laddove liberalismo e capitalismo producono inevitabili sfasature. L’economia di mercato, sebbene la Storia ne abbia dimostrato le caratteristiche di modello vincente, non può infatti essere l’unico principio regolatore di una società e delle sue dinamiche.
Il Modello della Responsabilità, in Italia ormai disintegrato e quindi da ricostruire con l’insegnamento fin dalla più tenera età (scuole elementari e medie), è fondato sui diritti soggettivi assoluti di ogni individuo e degli individui nel loro insieme (dalle piccole comunità alle intere società): rispetto di salute, onore e proprietà, altrui e propria.

La Responsabilità è determinata dal comportamento; i comportamenti sono determinati dalla cultura. Per ricostruire il Modello della Responsabilità è dunque necessario ripartire dalle radici della cultura: l’educazione scolastica. Senza timore che fra le precedenti e le nuove generazioni si possa costituire una frattura insanabile: d’altra parte il mondo che i minori stanno ereditando è di per sé falcidiato da problemi giganteschi — povertà, disuguaglianza, inquinamento — che tutte le generazioni precedenti hanno solo acuito, per cui la “frattura” esiste già nella sostanza.
Gli esseri umani valutano l’accettabilità di un determinato comportamento usando norme sociali, e regolano i comportamenti tramite mezzi di controllo sociale; tuttavia ciò non è sufficiente, se alla base non c’è un modello culturale condiviso. È proprio questo che manca all’Italia: nessuna legge o polizia o magistratura o altra istanza può ricostruire il Modello della Responsabilità, può solo punire le inadempienze.
E nessuno, al di fuori della “sinistra classica” — intesa non come becera nostalgia dei P.C.qualcosa ma come forza progressista —, può ambire a ricostruire il Modello della Responsabilità.
Quanto al fascismo (ri)montante nella nostra sbandata società, la ricetta è quella che sintetizza mirabilmente Fabio Chiusi su L’Espresso: «Se si vuole privare il fascismo del terreno che lo fa germogliare, bisogna inaridirlo ogni giorno, non con le leggi ma con la dimostrazione quotidiana del rispetto di rapporti di vita e potere democratici, da parte di ogni fazione politica. Coltivare la passione del passato e della verità storica, incentivarla in ogni forma: questo sì si sottrae a ogni tentazione antidemocratica».

Semplice, no?


EXCURSUS 1

Scrive Enrico Deaglio nel suo libro Il vile agguato. Chi ha ucciso Paolo Borsellino” (2012):

Ora che sono passati vent’anni non solo non sappiamo chi l’ha ucciso, ma innumerevoli versioni, continue verità, continuano ad ucciderlo. Borsellino viene continuamente riesumato in uno spettacolo macabro che insulta la sua memoria e noi spettatori. È stato Scarantino. No Spatuzza. È stato Riina; no, i fratelli Graviano. La polizia ha imbeccato Scarantino per proteggere i veri colpevoli. È come piazza Fontana. È stato lo Stato, lo Stato Mafia, la Mafia Stato; il Doppio Stato. È stato Berlusconi, o perlomeno Dell’Utri. Sono stati i servizi. Deviati. No, quelli ufficiali. Sono stati Ciancimino e Provenzano. Sono stati gli industriali del Nord. È stato il ministro Mancino… La sua morte era necessaria alla trattativa. Anzi, era l’essenza della trattativa (a proposito, cos’è che stavano trattando?). È stato un volontario, lucido sacrificio di Borsellino che si è offerto come vittima per salvare la sua famiglia. È stata la prova della potenza infinita di Cosa Nostra a cui nessuno può sfuggire. È stato il Fato, del quale era in balia…

E nel libro Indagine sul ventennio” (2017) dedicato ai vent’anni dall’ingresso in politica di Silvio Berlusconi:

A trentotto anni Silvio Berlusconi ebbe un incontro che non avrebbe mai dimenticato. Imprenditore edile emergente, anzi molto vistoso, Berlusconi stava edificando a Segrate, alle porte di Linate, una vera e propria città satellite destinata a edilizia residenziale. Un cantiere enorme – costava 500 milioni di lire al giorno di spese e stipendi – un’intensa attività di lobbying, per esempio per ottenere lo spostamento delle linee aeree in decollo e in atterraggio al vicino aeroporto.

Che il giovane fosse affetto da mania di grandezza, lo si vide quando portò a termine un favoloso acquisto immobiliare, Villa San Martino di Arcore, una delle più imponenti e belle tra le storiche dimore della Lombardia, una sorta di reggia con un parco secolare, cascine, scuderie, case coloniche, piscine e aziende agricole. All’interno una grande pinacoteca con dipinti del Quindicesimo e Sedicesimo secolo e un’imponente biblioteca di libri antichi.

L’ultimo proprietario della villa, il marchese Camillo Casati Stampa, era appena stato il protagonista e la vittima finale di un delitto passionale che aveva fatto la fortuna dei rotocalchi. Il marchese, che amava assistere agli amplessi della moglie con amanti occasionali, uccise lei e l’ultimo dei suoi accompagnatori e poi si suicidò con una Browning calibro 12, nel suo palazzo romano di via Puccini. Erede della fortuna dei Casati rimase la figlia, allora minorenne, Anna. Questa venne convinta dal suo legale ed ex protutore, l’avvocato Cesare Previti (uno dei primi soci di Berlusconi nelle sue imprese, e futuro ministro), a vendere un patrimonio valutato circa 3 miliardi di lire per appena 500 milioni, che l’acquirente pagò — sempre in ritardo — a rate.

Certo, nella Milano pettegola e attenta ai bilanci, un tipo così attirava l’attenzione. Chi era? Da dove veniva? Chi gli dava i soldi? Che senso aveva quella dimora regale? Come avrebbe fatto a pagarla e soprattutto a mantenerla? E così il giovane costruttore edile entrò nel mirino degli interessi della mafia a Milano. Anche loro erano interessati a vederci chiaro. In quegli anni, infatti, venne attuata quella temutissima tassa patrimoniale di cui tanto si parlava. La attuarono, contro i ricchi del Nord Italia, agguerriti gruppi della criminalità sarda, calabrese e siciliana, con lo strumento del sequestro di persona. Furono centinaia le vittime, alcune delle quali morirono durante la prigionia, e molte tornarono con danni irreparabili. Erano in genere sequestri lunghi mesi, che implicavano trattative laboriose; ma alla fine i sequestratori si portavano a casa miliardi. Questi soldi, che un economista definirebbe l’accumulazione primaria, furono la base dello sviluppo dell’economia mafiosa moderna. Capitali, in genere scottanti per la loro tracciabilità, che dovevano essere riciclati e reinvestiti. Milano era il principale luogo di commissione del delitto e di reinvestimento dei capitali.

Naturalmente toccò anche a Silvio Berlusconi; l’imprenditore era in una posizione veramente scomoda, perché non aveva di certo mai avuto una gran voglia di raccontare i fatti suoi agli inquirenti, soprattutto quelli riguardanti la propria situazione finanziaria. È lui stesso a ricordare che venne atrocemente minacciato; minacciato suo padre Luigi, minacciato di rapimento e di uccisione il suo primo figlio maschio, Piersilvio. Minacciato lui stesso, tanto che per alcuni mesi tutta la famiglia si trasferì in Spagna. La storia, come la raccontò poi lo stesso Berlusconi, dice che il giovane imprenditore si ricordò di un compagno di università, un siciliano più giovane di lui di cinque anni, che aveva conosciuto ai corsi estivi dell’Opus Dei a Carate Urio (CO), nel delizioso castello dov’è coltivata la memoria del fondatore dell’ordine, Josemaría Escrivá de Balaguer (e voi che credevate che il giovane Silvio passasse le vacanze a cantare sulle navi da crociera….). Chiese a don Bruno Padula, il responsabile dell’Opus, di rintracciare Marcello Dell’Utri e di domandargli se fosse disposto a venire a dargli una mano a Milano. Dell’Utri, giovane laureato in Legge, aveva trovato un impiego in banca e si annoiava terribilmente dietro lo sportello della Sicilcassa nel piccolo paese di Belmonte Mezzagno, a diciotto chilometri da Palermo, in direzione Corleone. Decise in un lampo: tirò giù la serranda e corse a Milano. Berlusconi lo nominò suo segretario particolare e amministratore della società San Martino, proprietaria della villa di Arcore. Ed è allora che Dell’Utri organizza quell’incontro, così memorabile. Nella sede della Edilnord, a Milano, arrivarono un giorno i maggiori capi di Cosa Nostra, organizzazione di cui peraltro all’epoca si negava addirittura l’esistenza. Venivano a conoscere il giovane imprenditore milanese di cui tanto si parlava. Tutta la scena è vividamente descritta nelle motivazioni di sentenza di condanna in appello di Marcello Dell’Utri del 2013.

Stefano Bontate (non «Bontade», come erroneamente riportato da tanti media)

Si sedettero intorno al tavolo e stipularono un contratto. Eccoli: il signor Gaetano Cinà, il signor Mimmo Teresi, il signor Francesco Di Carlo e, il più importante di tutti, il signor Stefano Bontate.

Gaetano Cinà, allora trentenne, era un giovane boss appartenente all’antica famiglia dei Malaspina, ufficialmente titolare solo di una piccola lavanderia. Defilato e discreto, era uno dei più costanti frequentatori della piazza milanese, su cui manteneva una sorta di comando. (Marcello Dell’Utri era “persona sua”.)

Francesco Di Carlo, trentadue anni, era anche lui di lombi mafiosi, dell’altrettanto antica famiglia di Altofonte, trafficante internazionale di eroina con un’attività industriale che spaziava dall’Inghilterra al Venezuela.

Girolamo Teresi, detto Mimmo, cognato di Bontate, era di fatto uno dei suoi segretari, anche per gli affari spicci. Secondo quanto disse poi Tommaso Buscetta, nel 1970 avrebbe provveduto per ordine di Bontate a eliminare dalla scena un giornalista diventato troppo curioso su affari di mafia e politica, Mauro De Mauro, del quotidiano “L’Ora”.

Ma il capo vero, seduto a quel tavolo della ditta Edilnord, era Stefano Bontate, detto “il Principe di Villagrazia”. Secondo Di Carlo, i siciliani furono colpiti dal fatto che l’industriale milanese fosse vestito casual, senza giacca e con il maglione, mentre Berlusconi rimase impressionato dallo stile dei palermitani. E in effetti Bontate aveva fama di essere colto, di buona conversazione, elegante nel vestire. Aveva frequentato il Gonzaga, il liceo bene di Palermo e qualche anno di università. Comandava, a soli trentasei anni, la più numerosa delle famiglie mafiose palermitane, quella del quartiere di Santa Maria del Gesù, forte di duecento soldati. Aveva ricevuto il comando dal padre, don Paolino Bontate, industriale, grande elettore democristiano; Stefano aveva coltivato moltissimo la politica, oltre che compiere il suo apprendistato di omicidi ed estorsioni, sia nella massoneria sia nella Democrazia Cristiana. Amico dei potenti siciliani, aveva udienza a Roma da Giulio Andreotti, cui garantiva una messe di voti elettorali e a cui forniva nell’isola una quantità non piccola di servizi. Al vertice di Cosa Nostra insieme al famoso Gaetano Badalamenti (l’uomo che aveva costruito l’aeroporto di Punta Raisi) e a Luciano Liggio di Corleone, Stefano Bontate aveva aumentato a dismisura la sua potenza economica con il traffico di eroina verso gli Stati Uniti, che uomini della sua famiglia raffinavano in quantità enormi, e di cui ora aveva il virtuale monopolio.

L’incontro fu molto soddisfacente per tutti i componenti. Si parlò di grande edilizia — i palermitani tendevano a vedere quello che Berlusconi faceva a Milano come una copia di quello che avevano fatto loro a Palermo — e naturalmente si parlò di sicurezza. Si concluse che questa sarebbe stata assicurata da Vittorio Mangano, per cui garantiva Bontate in persona; Mangano avrebbe organizzato il servizio trasferendosi nella villa di Arcore con la sua famiglia, per il compenso di cinquanta milioni annui. Per la protezione accordata, i palermitani si sarebbero accontentati di duecento milioni annui. La prima tranche venne consegnata contestualmente da Berlusconi nelle mani di Cinà. Marcello Dell’Utri sarebbe stato il collegamento tra Berlusconi e Palermo, per qualsiasi problema. Di fatto, il giovane costruttore milanese aveva consegnato la sua vita, la sua villa e i suoi affari a un gruppo di distinti signori di cui sicuramente ignorava i tanti segreti.

(Quasi quarant’anni dopo, nel 2013, quando vennero pubblicate le motivazioni di condanna a Marcello Dell’Utri per mafia — condanna impugnata, che ora pende in Cassazione — i giudici della Corte d’appello di Palermo furono molto precisi e specificarono il tipo di contratto che allora venne stipulato: “sinallagmatico”, ovvero, tra due parti uguali fra loro, e revocabile solo con il consenso di entrambe.)

D’altronde, i legami e le conoscenze tra gruppi industriali-finanziari di diversissima origine non erano in quegli anni del tutto inconsueti. Nella centralissima via Chiaravalle, Cosa Nostra aveva già fatto anche lei una grande operazione immobiliare, acquistando il palazzo del Cinquecento dove avevano sede gli uffici di tale Filippo Alberto Rapisarda, proprietario di una compagnia aerea privata, della società immobiliare Invim, a suo dire la seconda in Italia, e le famose decine di altre società su cui il giudice Giovanni Falcone aveva posto l’attenzione. Una presenza sul territorio era anche l’enorme Ortomercato, così come l’altrettanto enorme Autoparco. Per la vita notturna, le ottime bische in società con Francis Turatello. Ma l’investimento maggiore a Milano i palermitani lo avevano fatto con il conterraneo Michele Sindona, sconosciuto fiscalista di Patti (ME), diventato il più importante finanziere italiano. Il problema era che Sindona aveva fatto crac.

Gli avevano dato i loro soldi, e adesso lui li aveva persi. Bancarotta, cosa da pazzi. Arrestato anche in America, liberato solo su cauzione. Non solo, ma un avvocatino che doveva liquidare i creditori delle sue banche si era messo in testa di fare le cose per bene. Nemmeno Giulio Andreotti, che aveva promesso una soluzione, riusciva a venirne a capo. Stefano Bontate prese in mano direttamente la situazione, si portò Sindona in Sicilia (dopo un finto rapimento) e insieme vagheggiarono addirittura una specie di secessione dell’isola, visto che ormai l’Italia era in mano ai comunisti, quelli che avevano causato la disgrazia loro e del povero banchiere. Anche Francesco Di Carlo si diede da fare, quando l’altro che curava i loro soldi aveva dato di matto e minacciato di dire chissà che cosa. Si chiamava Roberto Calvi, era nientemeno che il presidente del Banco Ambrosiano di Milano. Incaricato di gestire la questione, Francesco Di Carlo si recò a Londra, pronto a strangolarlo con le sue mani.

Chissà se il giovane Silvio Berlusconi si rendeva conto della compagnia con cui si era messo. Forse no. A quei tempi amava far sapere però che aveva le mani in pasta con quelli che non scherzano. Si era addirittura fatto fare un servizio fotografico dove lo si vedeva, basettoni e borsalino in testa, vicino a Marcello, a studiare planimetrie nell’ufficio dell’Edilnord. Sul tavolo da lavoro, in bella mostra, una pistola.

Chissà se il suo segretario Marcello Dell’Utri lo informò quando il Principe di Villagrazia Stefano Bontate venne ucciso, a bordo della sua Giulietta, sui viali intorno a Palermo, proprio il giorno del suo compleanno. Era l’aprile del 1981. Agghiacciante, a ben pensarci. Quello che era salito fino a Milano per garantirgli la vita, quell’uomo così gentile e raffinato, ammazzato come un cane a Palermo. Anche suo cognato, quell’altro signore presente all’incontro, quel Mimmo Teresi. Scomparso, subito dopo l’uccisione di Stefano. Lupara bianca.

E ce n’era un altro di cognato di Bontate, che era morto anche lui, scomparso, ammazzato. Massone importante, si chiamava Giacomo Vitale. Aveva seguito personalmente la vicenda Sindona e si scoprì che era sua la voce del “picciotto” (quella terrificante telefonata che si sente alla fine del film Un eroe borghese, che annuncia ad Ambrosoli la sua condanna a morte). Nel 1997 andò a testimoniare in aula un grosso pentito, Tullio Cannella, che fornì un contesto della morte di Vitale. Dalle cronache di quell’udienza:

Il collaboratore di giustizia riferisce le confidenze del cognato di Bontate, Giacomo Vitale, massone, scomparso nel nulla dopo essere stato uno dei protagonisti del falso sequestro Sindona. Secondo Cannella, Vitale lo avrebbe incaricato di recuperare il “tesoro” di Bontate, ucciso nell’81, promettendogli l’astronomica ricompensa di trenta miliardi. «Giacomo Vitale», afferma Cannella, «mi disse: ‘I soldi di mio cognato Stefano Bontate, svariate centinaia di miliardi, se li sono fottuti Dell’Utri e Berlusconi ’».

Accuse mai provate, ça va sans dire. Per fortuna loro, Berlusconi e Dell’Utri erano vivi. E la Fininvest, la loro creatura, stava diventando una delle imprese più grosse d’Italia.

La Fininvest, Berlusconi l’aveva divisa in ventidue holding. Paraventi, scatole cinesi, prestanome, cassette di sicurezza inviolabili, uno stuolo di avvocati agguerriti. Nessuno sapeva a chi appartenessero quelle holding, ma certo potevano attirare qualche indagine. E in effetti nel 1979 si fece avanti un brillante capitano della guardia di finanza, tale Massimo Maria Berruti, che voleva vederci chiaro. Ma lasciò perdere le indagini e anche il Corpo, perché venne assunto da Berlusconi, che poi, sceso in campo, lo fece anche diventare deputato. Quando — vent’anni dopo — si cercò di nuovo di vederci chiaro, si scoprì che su quei conti esteri era transitata in pochi anni una vertigine di 200 miliardi, spesso in contanti o in assegni circolari.

Nel 1993 la Fininvest, di cui nessuno conosceva la proprietà, era il terzo gruppo industriale italiano, dopo la Fiat degli Agnelli e il conglomerato della Ferruzzi-Gardini. Sotto Berlusconi, al quarto posto, stava il gruppo di Carlo De Benedetti.

Ma nel 1993 la Fininvest era sepolta da una montagna di debiti. La situazione era stata segnalata alla Banca d’Italia. I telefoni del Cavaliere erano stati messi spesso sotto controllo. La polizia lo sospettava di riciclaggio e traffico di droga, e negli anni aveva redatto informative in tal senso. (Una, per esempio, dal comando generale della guardia di finanza, è del 30 maggio 1983: “È stato segnalato che il noto Berlusconi Silvio, interessato all’emittente televisiva privata Canale 5, finanzierebbe un intenso traffico di sostanze stupefacenti dalla Sicilia. […] Il predetto sarebbe al centro di grosse speculazioni edilizie nella Costa Smeralda”.)

Falcone e Borsellino avevano ben presente la filiera che partiva da Palermo e arrivava a Milano, compreso lo stalliere di Arcore. La rete televisiva francese Canal Plus aveva commissionato un’inchiesta sul Cavaliere come uno dei più grandi “padrini d’Europa”. Berlusconi era poi notoriamente associato a Bettino Craxi — suo amico personale —, che aveva addirittura interrotto una visita di Stato a Londra per tornare a Roma ed emettere un decreto in favore delle sue televisioni private. E Craxi, il suo protettore politico, era crollato.

Ma Berlusconi era fortunato. Quando scoppiò Tangentopoli e tutte le maggiori imprese sembravano coinvolte, la Fininvest non venne nemmeno sfiorata dalla grande inchiesta. Il pm Di Pietro, che fece la disgrazia di Raul Gardini – l’uomo più liquido d’Italia; si suicidò nel luglio del 1993, sparandosi in un’elegante vestaglia nel suo bel palazzo nel centro di Milano –, di Craxi, dell’Eni, di un pezzo di Fiat, del costruttore Ligresti; il pm che raccolse le deposizioni di mille tra industriali e politici confessanti tangenti, il nome Berlusconi non lo sentì mai. Le inchieste milanesi e quelle palermitane non si incontrarono mai. Quei due giudici siciliani, intanto, giù a Palermo, erano saltati in aria.

Quando Berlusconi fece in televisione il famoso discorso della “discesa in campo”, nel gennaio del 1994, sapeva che stava camminando sul filo del rasoio. E che l’unica possibilità che aveva di salvare la sua azienda, la sua enorme villa, la sua vita, era di fare, in grande, quello che non era riuscito a Michele Sindona. Mettersi a capo di un movimento politico, diventare Presidente del Consiglio e, soprattutto, tenere buoni i creditori.

La sfida era grandiosa, ma la vittoria era a portata di mano. Dell’Utri in due mesi gli aveva organizzato il partito, i candidati, la propaganda, i voti. Quanta strada aveva fatto Marcello, da quel giorno di vent’anni prima, in cui gli aveva fatto conoscere quei distinti signori di Palermo.


EXCURSUS 2

Nostalgia canaglia

Avanguardia nazista
“Hitler ha compiuto azioni criminali, ma il nazismo in alcuni campi ha fatto cose positive, come nell’ecologia. Inoltre era all’avanguardia nella ricerca sul cancro e le ricerche spaziali” (Mario Borghezio, La Zanzara, 11 maggio 2012).

Elogi fascisti
“Storace dice che io sono rimasto fascista? Avrò voluto farmi un complimento…” (Ignazio La Russa, 19 dicembre 2012).

Grillo e l’antifascismo
“Se io sono antifascista? Questo è un problema che non mi compete, il nostro è un movimento ecumenico. Se un ragazzo di CasaPound volesse entrare nel nostro Movimento, con i requisiti in regola, non ci sarebbero problemi” (Beppe Grillo davanti al Viminale, parlando con il candidato del movimento di estrema destra De Stefano, 10 gennaio 2013).

Tante cose buone
“Il fatto delle leggi razziali è stata la peggiore colpa di un leader, Mussolini, che per tanti altri versi invece aveva fatto bene” (Silvio Berlusconi, durante la Commemorazione delle vittime del nazifascismo, 27 gennaio 2013).

Le fogne del Duce e tanti altri capolavori
“Mussolini è stato un grande uomo della storia e, come tutti i grandi uomini, in realtà non era tanto lui il responsabile, quanto la sua corte, la cerchia intorno, che usava violenze per nome e per conto. Mussolini ha fatto tante cose positive, come nelle infrastrutture, nel rilancio dell’Italia. Pensiamo a Bolzano. Forse gli altoatesini di lingua tedesca non sanno che quando arrivò il fascismo qui c’erano ancora le fogne a cielo aperto. Chi inventò le fogne in Italia, e non solo in Alto Adige, fu Mussolini. Prima i bagni erano fuori dalle abitazioni e i bambini morivano di broncopolmonite perché per andare fuori, in questi bagni fatti di legno, prendevano un freddo glaciale. Le autostrade sono state fatte da Mussolini. A Bolzano, dove c’è ora l’ospedale, fu bonificata una palude per opera di Mussolini, che bonificò anche l’Agropontino, dando poi lavoro a tanti contadini veneti che sono rimasti a vivere là. Mussolini ha creato il Foro Italico. È vero che è stato un dittatore, ma i dittatori talvolta lasciano delle cose ben fatte. Le grandi opere urbanistiche dell’Italia sono state fatte tutte da Mussolini” (Michaela Biancofiore in difesa delle dichiarazioni di Berlusconi, ai microfoni del telegiornale “Südtirol heute” dell’ORF, 5 febbraio 2013).

Il grande statista
“Nel fascismo ci sono state molte luci, fino al 1938 lo dicevano i capi democratici di tutta Europa. E Mussolini fu un grande statista: se lo dicono di Monti figuriamoci se non possiamo dirlo di Mussolini” (Ignazio La Russa su Radio 24, 1 febbraio 2013).

Mi fa l’autografo?
“L’autografo del Duce che ho fatto firmare alla Mussolini? Era per un mio amico meridionale, nostalgico di Benito e grande fan di Alessandra” (Carolina Lussana, deputata leghista, 13 giugno 2012).

Altre categorie
“Non c’è confronto tra Mussolini e Napolitano: Mussolini è di una categoria superiore, un grande personaggio storico, mentre Napolitano non lascerà una grande traccia” (Mario Borghezio a La Zanzara, 28 gennaio 2013).

Sensibilità futurista
“Il fascismo ha creato le basi del welfare in Italia, questa è stata una cosa estremamente positiva. Ha favorito il processo di conversione industriale, ha avuto una grande attenzione a quelli che erano gli aspetti del futurismo, che non era solo arte. Le cose disastrose sono state l’entrata in guerra con la Germania e il non aver capito quella che era la forza dell’America. Le leggi razziali? Tutto consequenziale all’alleanza con la Germania” (Il sottosegretario all’Economia del governo Monti Gianfranco Polillo, Un Giorno da Pecora, 5 marzo 2013).

Sterminare i comunisti
“La Sgrena dice che i Marò devono essere giudicati in India? Ecco perché i comunisti devono essere sterminati tutti… alla Hitler maniera” (Michele Santoriello, assessore comunale di Sala Consilina, in provincia di Salerno, 29 marzo 2013).

Mussolini al Quirinale
“Alle votazioni per il Presidente della Repubblica ho chiesto qualche voto per me in modo da costringere la Boldrina, come la chiamo io, che è troppo comunista, a pronunciare il nome di mio nonno, Mussolini” (Alessandra Mussolini, 20 aprile 2013).

Che vi celebrate?
“Cosa ci sarà mai da festeggiare il 25 aprile? Aveva ragione De Felice, la peggiore eredità che il fascismo ci ha lasciato è l’antifascismo” (L’ex parlamentare PDL Marcello De Angelis sul Secolo d’Italia, 25 aprile 2013).

I dovuti riconoscimenti
“Mussolini è stato bravissimo in alcune cose, è chiaro. È stato eccezionale sulle infrastrutture, le pensioni sono nate da lui… Le ultime grandi opere che c’è in Italia le ha fatte il Duce. Non sono di quel partito ma bisogna riconoscere che quello che è fatto è fatto” (Antonio Razzi testuale su Radio 24, 8 maggio 2013).

Il saluto romano
“Sì, il saluto romano lo facevo, da giovane. E a Predappio ci sono stato. Se sono fascista? Beh, grossomodo, c’è stata una storia importante della destra…” (Il sottosegretario all’Economia del governo Letta Alberto Giorgetti, Radio 2, 3 giugno 2013).

Parola di “Er Batman”
“Mussolini fu un grande statista, ha portato al progresso sociale italiano. Il progresso civile e sociale dell’epoca fu un modello importante per l’Italia. Basti pensare al sistema cooperativo e pensionistico, alla politica sociale. Il fascismo fece cose buone, anche se non do un giudizio positivo sulla dittatura” (Franco Fiorito, ex capogruppo PDL alla Regione Lazio condannato per peculato, La Zanzara, 6 giugno 2013).

Confino a 5 Stelle
“Questi magistrati vogliono eliminare l’avversario politico. Allora mandiamo Berlusconi al confino così loro sono contenti: almeno nel fascismo c’era una maggiore trasparenza e il confino tra l’altro significava stare in bellissime isole con tutti i comfort…” (Il deputato PDL ed ex ministro della Difesa Antonio Martino, La Zanzara, 10 settembre 2013).

La dittatura è più onesta
“Hai ragione. La dittatura è più onesta. Almeno lo sai, invece la democrazia italiana è subdola” (Carlo Sibilia, onorevole M5s, rispondendo a un utente su Twitter, 14 dicembre 2013).

I piaceri della vita
“Almeno Berlusconi ci dà la gioia di scrivere Mussolini sulla scheda. Alessandra candidata nel centro con Forza Italia” (Francesco Storace su Twitter, 16 aprile 2014).

Inchinatevi al fascismo
“Non è vero! Durante il fascismo non c’erano tangenti e non aumentavano i prezzi. Mo’ mi sono rotta… vedendo quello che è successo ora e che si è costruito durante il ventennio, noi ci dovremmo inchinare al fascismo! Persino Gheddafi lo ha riconosciuto. E mo’ basta! Sempre a criticare, sempre a dire… è inaccettabile, questa è storia. Inchinatevi alle opere del fascismo!” (Alessandra Mussolini a L’Aria che Tira, 6 giugno 2014).

Per i Musulmani ci vorrebbe Hitler
“Voglio che questo post sia chiaro: non accetto richieste di amicizia da parte di musulmani. POTETE MORIRE AMMAZZATI TUTTI. Compresi i bambini. Siete feccia che prolifera in nome di un dio che ignorate essere come quello degli altri esseri umani. Venite a farci la guerra a casa? Spero solo che il mondo vi elimini come Hitler, per errore, ha sterminato i poveri Ebrei. VOI AVRESTE DOVUTO SUBIRE L’OLOCAUSTO” (Giovanna Tedde, assessore alla Cultura di Bonorva, in provincia di Sassari, su Facebook, 9 gennaio 2015).

Altroché l’olio di ricino
“C’è qualcuno che vorrebbe instaurare un nuovo regime, a Bruxelles c’è ben di peggio di Mussolini: non hanno l’olio di ricino ma hanno spread e finanza e fanno peggio del fascismo. Stanno affamando la gente come nessun ventennio fascista è riuscito a fare” (Matteo Salvini a Radio Padania, 3 marzo 2015).

Predappio Calling
“A Predappio sono andato come sono passato a vedere altri monumenti. Ci sarò andato 4 o 5 volte. Non è un reato, è un monumento visitato da mezzo milione di italiani. Mussolini ha fatto alcune cose positive. La sanità, la previdenza, le opere pubbliche. Poi ci sono le cose negative, le leggi razziali, la guerra, l’alleanza con Hitler. Ma per l’epoca è stato un grande statista” (Carlo Aveta, ex consigliere regionale in Campania della Destra di Storace, poi candidato con la lista Campania in Rete, in appoggio di Vincenzo De Luca del PD, Radio 24, 11 maggio 2015).

Hitler era pure vegetariano
“Certo che mi dichiaro fascista, perché no? Che c’è di male? Ancora oggi ci sono leggi e strutture del fascismo che funzionano sicuramente meglio delle castronerie fatte oggi. Se ci fosse Mussolini in Italia le cose andrebbero assolutamente molto meglio, alla grande. Io ho pure un busto del Duce in casa… Hitler? Nel bene e nel male è riuscito a governare un Paese. Per il popolo dei lavoratori tedeschi ha fatto indubbiamente tante cose positive come fece Stalin in Russia. Fece la Volkswagen, la macchina del popolo. E poi era vegetariano, come me” (Andrea Bonazza, primo consigliere comunale di CasaPound eletto alle ultime amministrative a Bolzano e membro di un partito alleato della Lega Nord di Salvini, su Radio 24, 17 maggio 2015).

Preghiera
“Mio grande Duce che ci guardi da lassù, illumina questo popolo che di infami non ne può più” (Alessandra Mussolini su Twitter, 24 ottobre 2015).

La torta delle SS
“Fino alle leggi razziali Mussolini ha fatto bene, ha modernizzato l’Italia. Ha governato bene e la maggioranza degli italiani la pensa così. Non mi vergogno per niente di questo regalo. Il fascio littorio fa parte della nostra storia. La scritta SS non fa parte del mio bagaglio politico e culturale. E poi non l’ho nemmeno notata, era solo uno schizzetto di panna… è peggio quello che ha fatto Renzi esaltando un dittatore come Raul Castro a Cuba. Molto peggio Renzi di Mussolini o di questo regalo che ho ricevuto” (Il vicepresidente del consiglio regionale del Veneto Massimo Giorgetti, dopo le polemiche per aver postato su Facebook le foto della sua torta di compleanno con sopra un fascio littorio e i simboli runici delle SS, 30 ottobre 2015).

Sfigati
“Guardi, io non cedo a chi dice che questo è un dittatore o cose così: Renzi non è un dittatore, è uno sfigato. È troppo onore paragonarlo a Benito Mussolini” (Matteo Salvini intervistato da Libero, 3 gennaio 2016).

Addavenì Benito
“Ma magari resuscitasse mio nonno! Pure per un mese!” (Alessandra Mussolini a L’Aria che Tira, 25 gennaio 2016).

Meglio il Duce della Fornero
“Sulle pensioni Mussolini ha fatto meglio della Fornero, fu lui a introdurre la pensione di reversibilità. La previdenza sociale l’ha portata Mussolini, non l’hanno portata i marziani. In vent’anni, prima della folle alleanza con Hitler e delle leggi razziali, delle cose giuste le fece sicuramente: stiamo parlando di pensioni, poi le bonifiche. C’erano intere città, come Latina, che erano paludi” (Matteo Salvini su Radio 24, 16 febbraio 2016).

Commemorazioni
“Muoiono gli uomini non le loro idee” (L’assessore di Castello di Godego, in provincia di Treviso, Mosè Battaglia, ex leghista passato a Tosi, nel giorno della morte di Benito Mussolini, su Facebook, con tanto di foto del Duce, 27 aprile 2016).

Il Duce in pietra lavica
Busti di Benito Mussolini e post inneggianti al fascismo. Una consigliera comunale del Movimento 5 stelle di Ragusa, Gianna Sigona, pubblica il 25 aprile questo post su Facebook: “Noi eravamo fascisti, siamo rimasti fascisti e saremo sempre fascisti”. “Io non festeggio, l’Italia non è libera. Il 25 aprile è iniziata l’occupazione”. “Siamo in democrazia e sono libera di pensare quello che voglio. Se Mussolini non avesse perso la guerra non avremmo considerato la sua figura in questo modo. Molte cose che ha fatto lui ce le stiamo godendo ancora ora”. Un giorno dopo, il 26 aprile, pubblica invece un’immagine con quattro busti del Duce. “Sono un’artigiana, li ho fatti io quei lavori in pietra lavica e ne sono orgogliosa. Pubblicizzo i miei lavori: dai santi al carretto siciliano, a Hitler”, dice la consigliera pentastellata che non rinnega le sue idee (Repubblica Palermo sulla consigliera comunale 5 Stelle a Ragusa —poi espulsa—, 28 aprile 2016).

Ammiratori
“Mai stato fascista, ma ammiratore del più grande statista del ‘900 che ha creato lo stato sociale in Italia” (Marco Nonno, ex AN, una condanna a otto anni in primo grado per devastazione, ricandidato nelle liste di Gianni Lettieri, 5 maggio 2016).

Urbanisti
“Era il 1968, mio nonno viene invitato alla facoltà di Architettura a Valle Giulia. Gli hanno chiesto, alla fine della lezione, chi è il più grande urbanista in questa città? Ha risposto Benito Mussolini” (Il candidato sindaco di Roma Alfio Marchini, incontrando i candidati della Lista Storace, 12 maggio 2016).

Ci vorrebbe Zio Adolfo
“Mentre i cani islamici ci uccidono e ci sterminano, noi pensiamo a fare leggi perché i froci si possano sposare e ci scandalizziamo se un negro viene accoppato dopo aver aggredito un italiano. Che paese di merda! Servono nuove leggi razziali a tutela della cristianità. Ma gli italiani popolo bue non lo faranno anche per colpa della nostra schifosa costituzione scritta dai maiali partigiani”. “Che venga lo zio Adolfo a fare più ordine”, “Il fascismo è stato il momento migliore: ammiro Mussolini” (Francesco Minutillo, coordinatore provinciale di Fratelli d’Italia a Forlì, sull’onda dell’attentato di Nizza, in un post su Facebook e a La Zanzara, 15 luglio 2016).

Viva il Duce!
“Nel 1930 il Duce fece costruire quasi 4.000 case e ne riparò più di 5.000 (terremoto del Vulture), in soli 3 mesi. Un vero Patriota: Viva il Duce!” (Rosa Di Vaia, assessore alla Cultura del Municipio 5 di Milano, eletta nelle liste di Forza Italia, 26 agosto 2016. Il post su Facebook è stato poi cancellato).

Tutti lo riconoscono
“Trump? Il paragone con Mussolini non ci azzecca niente, e comunque il Duce ha fatto degli errori ma ha fatto tante cose buone. Tutti gli italiani riconoscono che ha fatto cose giuste, chi non lo ammette conosce la storia in modo sbagliato” (Daniela Santanchè a La Zanzara, 9 dicembre 2016).

Ancora con ’sta roba?
“Mio padre orgogliosamente fascista? Sono super orgoglioso di lui. È più importante essere onesto che antifascista. Nel 2016 parlare di fascismo e antifascismo è come parlare di guelfi e ghibellini… ancora a parlare di questa roba?” (Alessandro Di Battista intervistato da Minoli su La7, 12 dicembre 2016).

Garantisce Joe Formaggio
“Hitler ha fatto anche delle cose giuste. Ha tolto la disoccupazione in Germania e ha dato da mangiare al suo popolo che aveva fame. Non difendo Hitler, ma qualcosa di giusto l’ha fatta, come tante giuste ne ha fatte Mussolini” (Joe Formaggio, sindaco di Albettone, in provincia di Vicenza, La Zanzara, 2 febbraio 2017).

Vuoi mettere
“Hitler almeno i disabili li eliminava gratis” (L’ex deputato PD Mario Adinolfi sulla scelta di dj Fabo di andare a morire in un altro Paese, dove l’eutanasia è consentita, Facebook, 27 febbraio 2017).

Galeotto fu il click
“Non ho paura del nemico che mi attacca… ma del falso amico che mi abbraccia” (Giovanni Isabella, assessore Pd al Bilancio e all’Ambiente di Caselle, condivide su Facebook una frase di Benito Mussolini, con tanto di foto del Duce, 2 luglio 2017. Poi la spiegazione: “È un errore tecnico causato dal telefono: ho cliccato per sbaglio”).

Ci fosse stato nonno…
“Per dirla alla Fantozzi, questa legge Fiano è una cagata pazzesca. Se approvano questa minchiata mi autodenuncio e mi metto una maglietta con la scritta ‘W Nonno’. Qualche volta quando vado in giro mi riconoscono e mi fanno il pugno chiuso e a me parte la manina tesa, un piccolo polso teso (il saluto romano, ndr). Loro fanno il pugno, a me parte il polso, è spontaneo, mi si alza la mano autonomamente, è un fatto genetico. Il dna è questo, è una cosa inconscia. Mussolini ha fatto un sacco di cose positive per l’Italia, lo dice la storia. Molte cose positive. Io in casa di lui ho tutto: busti, un bellissimo ritratto in lana del ’33, ho un arsenale. La verità è che spesso mi dicono: se in questa fase ci fosse stato Lui…” (Alessandra Mussolini a La Zanzara, 11 luglio 2017).

Lealtà Azione
“Un ringraziamento speciale alla mia Comunità umana e politica di Lealtà Azione, che mi ha supportato fino alla fine” (Andrea Arbizzoni, il primo assessore in Italia che appartiene a una “comunità” di ispirazione neonazista, Monza, Repubblica.it, 12 luglio 2017).

Circoncisioni
“Che poi, le sopracciglia le porta così per coprire i segni della circoncisione…” (Post di Massimo Corsaro, sopra una foto del relatore del ddl sull’apologia del fascismo Emanuele Fiano, 12 luglio 2017. Dopo lo scoppio delle polemiche Corsaro proverà a giustificarsi: “È una speculazione politica meschina, nessun antisemitismo da parte mia, era solo una battuta: volevo dargli della testa di c…”).

Playa Mussolini
(ANSA) – VENEZIA, 18 LUG – Matteo Salvini ha fatto visita alla spiaggia ‘fascista’ di Chioggia, ‘Playa Punta Canna’, diventata famosa per l’allestimento in stile Ventennio pensato dal suo gestore, Gianni Scarpa, che poi – su ordine della Prefettura – ha dovuto togliere i cartelli con foto e slogan di Mussolini. Scarpa è indagato per apologia di fascismo. “Questa non è una visita politica – ha detto il segretario della Lega – ma di sostegno di un’attività professionale che dà lavoro a decine e decine di persone. Non mi interessano le idee di questo o quel bagnino, questo o quello stabilimento balneare. Mi interessa che in Italia si possa fare liberamente impresa e che le idee del passato non vengano processate”. “Se il gestore ha questa o quella idea – ha scritto Salvini su Facebook – non deve interessare né a me, né alla Procura, né al Parlamento”.

Il fascismo tornerà
“In questi giorni i servi di questo #Statodimerda sono impegnati a censurare, rimuovere, impedire, travisare, mistificare ed infangare tutto ciò che rappresenta e fu fatto durante il Ventennio (…). Continuate a governare e portare allo sfascio questo Paese, una volta grande, all’insegna del vostro #antifascismo e il inevitabilmente tornerà. (…) Più vi sento parlare e più mi sento fascista” (Andrea Bianchi, sindaco di Trenzano, in provincia di Brescia, eletto con una lista civica che porta il suo nome e appoggiata dal centrodestra, Facebook, 11 luglio 2017).

Arredi del Duce
“Mi hanno regalato una bellissima testa del Duce in legno, l’ho messa sul comodino. Ce l’ho, la tengo, non me ne vergogno!” (Daniela Santanchè a L’Aria che Tira, La7, 14 luglio 2017).

(Raccolti da Wil Nonleggerlo su L’Espresso)


Scopri di più da L’internettuale

Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.

Be First to Comment

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.