Appunti di vicolociechismo sparso

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Intermittenza del reddito.
Intelligenza artificiale e algoritmi che si mangiano più posti di lavoro di quanti non ne creino.
Un modello di società in cui nessuno può programmarsi decentemente l’esistenza per eccesso di rarefazione-saltuarietà delle entrate.

Lavoro “molecolare, polverizzato, atomizzato, parcellizzato”.
Aggettivi multipli che identificano un sistema unico in cui per guadagnarsi qualcosa che somigli a un reddito molte persone (sempre di più) devono mettere insieme ogni giorno un po’ di queste molecole sparse: un paio d’ore di voucher, poi un’altra oretta a correggere bozze dopo aver risposto a un annuncio su Upwork, un’altra a pascolare cani al parco grazie a un’offerta su Taskrabbit, quindi a pulire la seconda stanza di casa perché arriva un ospite trovato su Airbnb, magari due ore a guidare per Uber, infine a cucinare per sei clienti ramazzati su Gnammo.
In questa economia dei lavoretti (gli anglosassoni la chiamano “gig economy”) emerge una nuova classe sociale: quella dei “post-operai digitali” a cottimo o all’ora che per vivere saltellano full time tra piattaforme, siti, annunci on-demand e miniofferte volanti. Lavoretti “per arrotondare” che stanno invece diventando gli unici disponibili su piazza. I soli che messi insieme possono avvicinare le persone a un reddito.
Modalità di impiego “snack” su cui si è fondata tutta l’ideologia economica che ha conquistato l’egemonia culturale negli ultimi decenni: se n’è teorizzata non solo l’ineluttabilità, ma anche i grandi vantaggi che avrebbe portato al PIL e al benessere collettivo e perfino la maggiore libertà e varietà che questi orari iper-flessibili avrebbero consentito (Mario Monti, 2012: «Il posto fisso è noioso»).
Anche i voucher nostrani erano nati per far emergere e per regolarizzare pochi lavoretti extra: invece sono diventati la forma di sostentamento principale — se non unica — per oltre un milione di persone. Ma non sono la causa del problema: ne sono un effetto. Se hanno avuto così successo (molto oltre le previsioni di chi li aveva inventati) è perché canalizzano in modo legale la questione strutturale: cioè la parcellizzazione del lavoro, il suo essere diventato così “liquido”.
E non stiamo neppure ad accennare alla perdita psicologica di identità sociale (che lavoro fa, uno che lavora qua e là con i voucher?) o all’impossibilità di pianificarsi qualsiasi futuro.
In nome dell’affidamento al mercato s’è svuotato il lavoro della sua dignità. È stato fatto avvicinando il lavoro ogni giorno di più alla schiavitù: riducendolo a chiamata, all’ora, a voucher, senza diritto alla malattia o alle ferie, telecontrollabile, demansionabile, ricattabile, sottopagabile, a cottimo — e licenziabile a capriccio.
Finalmente qualcuno nei media e tra i politici sembra accorgersi di questa nuova realtà e delle questioni che porta con sé: precariato totale, redditi da fame, totale assenza di diritti basilari come le ferie e la malattia, ovviamente nessuna possibilità di vertenze sindacali, per non dire degli abusi di chi li utilizza per nascondere il nero (ti faccio lavorare dieci ore e una te la pago col voucher, così se arriva un controllo o accade un infortunio abbiamo un pezzo di carta a coprirci).

Colpe?
Sì, ci sono delle colpe (e uso proprio questo termine preso in prestito alla religione, perché il semplice “responsabilità” non è sufficiente).
Le tecnologie, prima di tutto: non solo e non tanto perché queste hanno permesso lo sviluppo delle piattaforme attraverso le quali buona parte di questa parcellizzazione avviene, ma soprattutto perché hanno portato tutte le relazioni economiche verso l’on-demand e l’accesso.
Poi la robotica, gli algoritmi e l’intelligenza artificiale: che stanno rarefacendo drasticamente il bisogno di lavoro umano, sicché (in base alle note leggi della domanda e dell’offerta) i prestatori di lavoro sono in condizioni sempre più sfavorevoli, quindi accettano dumping sempre peggiori.
Inoltre, si sa, la globalizzazione dei mercati consente di esternalizzare le produzioni nei Paesi in via di sviluppo, un asset non da poco nel cambiare ulteriormente i rapporti di forza tra chi dà e chi presta lavoro.
In più, anche se fa brutto dirlo, prima del 1989 lo spauracchio del Comunismo convinceva gli imprenditori e i governi a tenere buoni i propri lavoratori con concessioni e riforme sociali: adesso che il Comunismo non c’è più, questi hanno (o credono di avere) mani del tutto libere.
Ma soprattutto, le oligarchie al potere: multinazionali e governi. Che non hanno fatto NULLA per evitare che finissimo in questo disastro.

Quando caddero i regimi comunisti — che ai loro cittadini garantivano casa e lavoro, seppur sotto dittatura — ci fu spiegato non senza ragione che tra le cause di quel crollo c’era l’assenza di competizione. Che aveva portato le economie di quei Paesi allo stallo, e a perdere la sfida con l’Occidente. Le scassate Trabant di Berlino Est messe a confronto con le fiammanti Audi dell’Ovest erano la rappresentazione plastica di quel fallimento comunista. Da un lato le economie della competizione, che stimolavano inventiva, creatività, impresa e quindi produzione di valore; dall’altro le economie pianificate che soffocavano ogni impresa, ogni idea, ogni innovazione, e quindi si impaludavano nella redistribuzione della povertà. Di qui, da quel confronto con un vincitore chiaro, l’illusione che non ci fosse più storia: che la competizione tra mercati sempre più liberi e intercomunicanti sarebbe stato l’ineluttabile, radioso e pacifico destino del genere umano.
Qualcosa, invece, è andato storto. Qualcosa dev’esser andato molto storto se meno di trent’anni dopo è arrivata una retromarcia così clamorosa: e la Brexit, e Trump, e adesso la Le Pen unica candidata in Francia sicura di arrivare al ballottaggio.
E qualcosa dev’essere andato ancora più storto se il concetto di protezione è diventato trademark della destra (area che tradizionalmente puntava invece sulla competizione) mentre la competizione è rimasta bandiera delle Hillary Clinton, dei Renzi e dei Macron, che di queste neodestre sarebbero in teoria avversari o almeno competitor elettorali.

La dico in un altro modo, per approfondire il concetto.
La Sinistra nasce “internazionalista”: nel secolo degli Stati nazionali al loro massimo — l’Ottocento —, teorizza lo scontro non tra nazioni ma tra classi sociali. Classi traversali alle patrie. Ciò nonostante, nel corso della seconda metà del secolo successivo tutte le conquiste della Sinistra, e delle classi popolari che la Sinistra allora rappresentava, sono avvenute attraverso gli Stati nazionali. Cioè attraverso leggi di tutela dei ceti deboli e dei lavoratori che venivano approvate dagli Stati nazionali, e al loro interno implementate.

È così che per esempio sono nate le socialdemocrazie scandinave, il modello migliore di società mai raggiunto dall’umanità. E qualcosa di non troppo diverso è avvenuto anche altrove (dalla Spd in Germania al Labour inglese).
Così è nato il “welfare”, sono nate tutte le misure che hanno diminuito la forbice sociale in Europa. Anche in Italia, con lo Statuto dei Lavoratori e il Servizio Sanitario Nazionale pubblico e universale. (Perfino prima del centrosinistra, con il “piano casa” di Fanfani. Perché non serviva nemmeno sempre che le sinistre governassero: bastava la paura del Comunismo, perché qualcosa venisse concesso.) A Novecento avanzato, l’Europa è diventata l’area del mondo con le migliori misure sociali.

Poi, a partire dagli anni ’80, poco a poco son finiti gli Stati nazionali, o almeno le economie nazionali. I capitali hanno cominciato a viaggiare da un Paese all’altro. I mercati sono diventati globali. Le aziende hanno iniziato a delocalizzare: se lo Stato voleva tassarne gli utili per redistribuire, quelle andavano altrove.
Quindi i mercati — quelli ormai globali — sono diventati sempre più indispensabili per ogni spesa pubblica, avendo gli Stati debiti con essi. Dunque, premiando o punendo gli Stati-debitori, i mercati hanno preso a indirizzarne le scelte politiche. Uno Stato fa qualcosa di sgradito ai mercati? Con tre clic su un computer, questi fanno andare in default lo Stato in questione.

In un secolo, quindi, l’internazionalismo si è rovesciato: da ideale “di sinistra” e popolare è diventato uno strumento per togliere diritti, benessere e welfare alle classi popolari stesse. Nessuna politica sociale può più essere fatta dai singoli Stati nazionali. I poteri si sono spostati altrove. L’internazionalismo è diventato “di destra”, in senso economico.

La reazione è stata quella che vediamo: il neonazionalismo. L’aspirazione dei ceti bassi e di quelli proletarizzati a “tornare indietro”: verso le frontiere, i muri, l’identità nazionale contro tutti gli altri. Una cosa che però è di destra di suo, da sempre: infatti si declina in Trump e Le Pen.
Ci si illude che, rialzando muri, alla base della piramide sociale si possa riacquistare ciò che la globalizzazione dei mercati ha tolto.
Di qui la situazione attuale: ceti popolari che votano la destra nazionalista. Come negli Stati Uniti. Come in Francia.
Ma anche una parte della Sinistra applica lo stesso ragionamento immediato, intuitivo: in quel campo di gioco lì — quello nazionale — vincevamo o almeno pareggiavamo, comunque qualcosa si otteneva; in questo campo di gioco qui — l’Europa, il mondo — si perde, e male, una ‘manita’ proprio. Meglio sarebbe quindi, secondo questa logica, tornare agli Stati nazionali.

Così ora siamo (di nuovooo?!) all’«uomo forte»: in un recente sondaggio, in Italia lo vedono bene 4 persone su 5.
Semplificando molto: la globalizzazione e l’invadenza dei mercati hanno creato un mondo nel quale i cittadini-elettori non hanno più la percezione che i loro leader democraticamente eletti possano decidere e incidere davvero. Troppe dinamiche esterne li limitano, li circoscrivono, li rendono esecutori di decisioni prese altrove (per esempio, imposte dai trattati internazionali) o pretese come “inevitabili” dai meccanismi economico-finanziari (per esempio, la necessità di attrarre investimenti, di onorare debiti pregressi, di non far fuggire capitali, etc).
I cittadini vedono che i loro rappresentanti hanno le mani legate dietro la schiena. Allora cercano qualcuno con le braccia abbastanza muscolose per liberarsi da quei legacci. Qualcuno che promette di essere più forte. Più forte dei mercati, della finanza, della Borsa, degli investitori, dei debiti, perfino della demografia.
Il risultato è qualcosa di simile a quanto avvenuto 90 anni fa — l’avvento dei fascismi a seguito di una crisi del sistema liberale —, anche se con molte differenze. La principale delle quali è che negli anni Trenta i fascismi avevano una pulsione offensiva verso gli altri Stati, mentre a questo giro gli “uomini forti” hanno soprattutto una funzione difensiva del proprio Stato: di qui i «muri» di Trump e Orban, i confini, i neoidentitarismi.
Resta la questione principale: se si vuole l’uomo forte è perché si ha la sensazione — tutt’altro che infondata — che le democrazie non decidano più. Che possiamo eleggere chicchessia — anche il meglio fico del bigoncio —, ma poi quello non potrà fare quasi nulla. A meno che non sia abbastanza muscolare e assertivo da vincere a braccio di ferro con tutto il resto: mercati, investitori, demografia, et cetera et cetera.
Quindi non c’è da stupirsi né da strillare: c’è semmai da capire e magari da trovare un’altra via. Perché non è che improvvisamente sono diventati tutti fascisti gli americani, i francesi, gli europei in genere. Semplicemente si sono rotti i coglioni di eleggere qualcuno senza che poi questo decida.

È normale, è umano: se ti trovi in un teatro affollato e irrompono dei gangster che vogliono far fuori tutti, tu tendi ad affidarti ai più bastardi che trovi intorno a te, perché sono quelli che più probabilmente ti aiuteranno a sopravvivere.
Il problema appunto è che l’Uomo Forte è quasi sempre merda fumante. Nel corso della sua campagna elettorale, Trump ha detto di voler incarcerare Clinton, denunciare le donne che l’hanno accusato di molestie sessuali, neutralizzare lo speaker della Camera e revocare la libertà di stampa. Ha detto di voler creare un super PAC (un comitato elettorale che può ricevere donazioni illimitate da singoli individui) che si occupi delle sue vendette politiche. Ha promesso di deportare milioni di persone, stracciare gli accordi commerciali firmati dagli Stati Uniti, introdurre test religiosi e sabotare gli sforzi internazionali contro il cambiamento climatico. Be’, incroyable, mon dieu!, contrariamente a tutti i chiacchieroni spaccamontagne nostrani questo qui ha cominciato a metterlo in pratica, il suo programma. Vuole dare al mondo un’America tardonazionalista, postfascista, reazionaria, xenofoba, autocratica.
Di più. Vuole farne uno Stato confessionale.

Il ritorno dei NeoCon. Anzi, dei TeoCon

Ancora fatichiamo a liberarci delle nefandezze dei NeoCon e dello “Scontro di Civiltà” teorizzato da quel pazzo di Samuel Huntington, che fertile sponda trovò nella Casa Bianca di Bush jr. e della marmaglia reazionaria tipo Wolfowitz, che già ci si para dinnanzi uno scenario se vogliamo ancora peggiore.
Trump ha fatto e sta facendo della religione uno degli strumenti della sua ascesa politica. Si è messo accanto un vice presidente, Mike Pence, che si definisce «cristiano, conservatore, repubblicano, in quest’ordine». Sta riempiendo l’amministrazione di gente con un solido background religioso. Jerry Falwell Jr., rampollo di una delle più importanti famiglie di evangelici d’America e presidente della cristiana Liberty University, è stato chiamato a pensare le nuove strategie per l’istruzione superiore. Scott Pruitt, il nuovo direttore dell’EPA (l’Agenzia per la protezione ambientale) ha detto di «non poter credere che Dio permetterebbe mai i cambiamenti climatici» (!). E Neil Gorsuch, il giudice nominato da Trump alla Corte Suprema, è un convinto nemico di aborto, contraccezione, eutanasia e tutto ciò che confligga con la “religione” che ha citato nel discorso di accettazione della candidatura.
Perciò quello che Trump e i suoi stanno facendo è qualcosa di più vasto e profondo della “difesa nazionalista”. L’idea, in realtà, è quella di rilanciare una sorta di nazionalismo religioso come fondamento dell’identità del Paese. E di costruire uno Stato confessionale che renda sempre più vago il confine tra politica e religione.

Steven Bannon, il nuovo Huntington

In questo senso va sicuramente il proposito di disfarsi del Johnson Amendment, votato dal Congresso nel 1954 e ispirato dal futuro presidente degli Stati Uniti, Lyndon Johnson. La legge vieta a chiese, organizzazioni religiose e in genere a tutti i gruppi esentati dal pagamento di tasse di fare attività politica e di finanziare candidati a cariche elettive. Da anni i gruppi della destra religiosa e cristiana (per esempio la ferocemente anti-gay “Alliance Defending Freedom”) cercano di far saltare la norma. Ora hanno trovato un alleato potentissimo: Donald Trump, appunto, che in campagna elettorale aveva promesso di «ridare la voce alle nostre chiese» e che ora annuncia: «Distruggerò il Johnson Amendment; farò in modo che i rappresentanti della fede possano parlare liberamente e senza timore di punizione».
La visione di Trump di un paesaggio americano devastato, di un’America bianca che declina e scompare, si adatta molto bene alle idee e alla teologia della destra cristiana e apocalittica che in questi decenni ha tuonato contro la perdita della vera fede, contro il declino dei valori e la crescita della “Sodoma americana”.
Il nesso tra ansie dell’America bianca, revanchismo, millenarismo religioso, conflitti internazionali è del resto molto chiaro in un personaggio come Steven Bannon, forse il collaboratore più ascoltato da Trump, quello che sta passo dopo passo dettando l’agenda ideologica di questa amministrazione. Il nuovo Samuel Huntington, o forse il nuovo Paul Wolfowitz. L’internazionale nazionalista sognata da Bannon – che dopo la presa del potere negli Stati Uniti spera di ripetere l’esperienza in Olanda, Germania, Francia – si nutre infatti dei valori della religione e della tradizione giudaico-cristiana.
Bannon ha 64 anni, è l’ex capo del sito di estrema destra Breitbart News, ed è stato spesso accusato (così come il sito) di essere vicino a posizioni antisemite, razziste ed estremiste.
La cosa risulta chiara se si ascolta il discorso che Bannon fece nell’estate 2014 via Skype, da Los Angeles, a una conferenza in Vaticano dell’Institute for Human Dignity, un gruppo di cattolici conservatori con sede a Roma (l’audio, pubblicato per la prima volta da BuzzFeed, è stato poi ripreso dal New York Times e da altri media). Bannon parlava della “crisi del vecchio capitalismo garantito dalla Pax americana”, un capitalismo “illuminato” e dettato dagli ideali giudaico-cristiani. Crisi capitalista, secolarizzazione, crescita del mondo musulmano avevano messo in crisi l’Ovest giudaico-cristiano. La rivolta populistica, fomentata dalle ansie economiche, era però alle porte. Era un populismo, secondo Bannon, “voce del movimento anti-aborto, voce del movimento per il matrimonio tradizionale”. Era un populismo profondamente radicato nelle tradizioni nazionali: nella Middle America, nelle Midlands della Gran Bretagna, nell’elettorato del Front National in Francia. La conclusione di Bannon non era per nulla confortante: «Dobbiamo affrontare un fatto spiacevole: una guerra importante è alle porte, una guerra che è già globale. Sarà globale per scala… Penso che siamo nelle fasi iniziali di una guerra globale contro il fascismo islamico».
Huntington e lo “Scontro di Civiltà”, appunto. Ora Bannon è diventato il chief strategist della Casa Bianca, e Trump lo ha da poco nominato nel National Security Council, l’organo dove vengono decise le strategie internazionali degli Stati Uniti.
In quello stesso video Bannon cita Julius Evola, il filosofo, scrittore e artista italiano piuttosto noto per i suoi legami col fascismo, e già ispiratore di molti intellettuali di estrema destra. Ma soprattutto esoterista, amato profondamente dalla Massoneria.
Nell’ambito di un discorso più ampio sul presidente russo Vladimir Putin — che Trump ha detto più volte di ammirare, con grandi perplessità dell’intera classe politica americana — Bannon disse che Evola era uno degli «autori del primo Novecento che facevano parte del cosiddetto movimento tradizionalista, che alla fine divenne per metastasi il fascismo italiano». In realtà Evola, che morì a 76 anni nel 1974, in Italia è molto noto, soprattutto nei circoli paragonabili a quelli che frequenta Bannon: si occupò e scrisse di cose molto diverse tra loro — dalle religioni orientali, all’alchimia, passando per il sesso — ma si fece notare soprattutto per le sue idee relative al tradizionalismo; un principio radicale secondo il quale il progresso e un certo tipo di uguaglianza sono dannosi. Evola, per esempio, teorizzava anche l’esistenza di alcune “razze” umane inferiori, che di conseguenza devono essere trattate come tali dal resto dell’umanità (!). Nel corso del Novecento Evola prima si avvicinò e poi si allontanò dal fascismo, per ritrovarsi infine nelle idee del nazismo: negli anni del Dopoguerra fu ripreso come uno dei principali pensatori d’ispirazione dei movimenti neofascisti. Ancora oggi Alba Dorata, il partito greco di estrema destra, inserisce Evola tra i suoi autori di riferimento; e il leader di Jobbik, il partito ungherese di estrema destra, ha scritto l’introduzione a uno dei libri di Evola. Ovviamente anche Forza Nuova, il principale movimento neofascista italiano, tiene in grande considerazione Evola.
E Bannon purtroppo non è l’unico politico americano a conoscere e citare Evola, che è apprezzato anche da alcuni importanti esponenti della cosiddetta alt-right (una frangia dell’estrema destra americana composta anche da nazionalisti e neonazisti): uno di loro, Richard Spencer – che pochi giorni dopo l’elezione di Trump ha organizzato una conferenza celebrativa a Washington in cui si sono sentiti degli “Hail Trump” – ha detto che «Julius Evola è una delle persone più interessanti del Ventesimo secolo».
Cos’è ’sto tradizionalismo? Una roba esoterica. La Massoneria s’è inventata un “lignaggio di sapere” antico e altamente segreto e iniziatico: la cosiddetta “Tradizione”, appunto, che si vuole far risalire nientemeno che agli antichi Egizi, passando per i personaggi dell’Antico Testamento (Salomone, al cui “tempio”, costruito dal famoso Hiram, mai esistito, i massoni si ispirano), i filosofi greci (Platone e soprattutto Pitagora, del quale la Storia sa poco o niente mentre i massoni ne sanno tutto), l’Alessandria del III Secolo (Ermete Trismegisto, mai esistito, e gli Gnostici), gli Arabi medievali (Avicenna e Averroè), la Kabbalah ebraica, i Templari, i Catari di Linguadoca e i Bogomili di Bulgaria, l’Alchimia (Paracelso), Pico della Mirandola e Marsilio Ficino, i Rosacroce del Seicento (mai esistiti: era solo uno scherzo letterario cui credettero tutti). Tutto lo spurgo di lavandino otturato che io prendo per il culo ne “L’Uomo Nuovo”.

Ancora una volta, con il riemergere di questo schifo, c’entra l’abdicazione delle forze politiche progressiste, appiattitesi sul Blairismo. Il Partito Democratico USA ha preferito consegnare gli Stati Uniti a un miliardario reazionario e razzista anziché vincere le elezioni candidando Sanders. «[Bisogna] chiudere definitivamente con ogni “sinistra” ormai divenuta strutturalmente e inguaribilmente articolazione della destra: è la premessa ineludibile per salvare le democrazie dall’avvitamento che le sta distruggendo» (Paolo Flores D’Arcais).

L’«avvitamento» era ed è visibilissimo, da anni: LePen, Salvini, Grillo, Farage. I Pirati nel nord Europa. Podemos, Ciudadanos e Tsipras. (E perché no lo stesso Sanders, appunto). Hai voglia a esempi. Ma finché il fenomeno è rimasto confinato a percentuali non maggioritarie di popolazione, il sistema ha potuto vivacchiare alla men peggio.
Non appena la possibilità di voto è arrivata prima al cuore della finanza (Londra, con la Brexit) e a ruota al più grande Stato occidentale, be’, patatrac!, 80/90 milioni di angloamericani non sono come 3 milioni di italiani o di spagnoli o di greci o di svedesi. I quasi cento milioni di persone di lingua inglese (la lingua del Potere™) che vanno alle urne per “rovesciare il tavolo”, strafottendosene altamente dei programmi dei candidati e/o della loro autorevolezza, spostano gli equilibri del mondo intero.
E dunque il pensiero piccolissimo è che ora tocca a noi. Una volta che il tavolo è stato rovesciato addirittura dentro l’Impero britannico e Mamma America, l’argine è rotto. E il fiume non lo puoi più fermare.

E dire che avremmo avuto bisogno di poco, tutti noi “99%”. Noi che teniamo in piedi tutto “consumando”. È tremendamente difficile essere allo stesso tempo “lavoratori insicuri” e “consumatori ottimisti”: o l’uno, o l’altro.

Ci sarebbe stata “sufficiente” un’agenda semplice, senza pretese di esaustività, che mettesse insieme alcuni basici diritti sociali e alcuni basici diritti civili. Reddito minimo, continuità di reddito per i precari, redistribuzione dei proventi della finanza e della robotizzazione. Patrimoniale e maggiore progressività del sistema fiscale. Tagli alle spese militari. Piccole opere sul territorio invece di grandi opere. Scuola pubblica, non privata. Istruzione pubblica, non privata. Ambiente pubblico, non privato. Reato di tortura. Biotestamento. Matrimonio egualitario. Creazione di nuovi strumenti di democrazia radicale e di partecipazione diffusa.
Sarebbe bastato questo. Questo basterebbe. Ma figuriamoci se si arriverà mai. Specialmente qua nella penisola, seppelliti come siamo da un Debito Pubblico monstre, con il Made in Italy e le migliori menti in fuga all’estero, e con la prospettiva di eleggere fra non molto uno fra Renzi, Salvini e un franchisee di Grillo/Casaleggio.

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NOTA A MARGINE
“Scontro di Civiltà”, interessi massonici, Israele: vi spiego perché questa gente è molto pericolosa (ci hanno già dato l’11 Settembre, l’Isis e la Crisi economica più grave del dopoguerra).
Il nostro “problema” è suddiviso in quattro matrici, tutte di lingua inglese: le Logge Massoniche britanniche, le convinzioni geopolitiche dell’asse Kissinger-Huntington, l’esecutivo statunitense da Reagan alla famiglia Bush ai falchi del Pentagono tipo Wolfowitz, e i Cristiani Rinati, il “nemico” più pericoloso.

Problema numero uno: i Massoni Inglesi.
L’«erezione del Nuovo Tempio» (il Tempio di Gerusalemme) implica l’abbattimento dei luoghi di culto più sacri dell’Islam dopo la Mecca: la Moschea Al-Aqsa e la Moschea di Omar devono essere smantellate e trasferite alla Mecca. Ariel Sharon era il più importante padrino politico dei fanatici del Tempio della Montagna e, come il suo rivale di partito Benjamin Netanyahu, era un presenzialista delle raccolte di fondi a New York per l’Ateret Cohanim Yeshiva, il principale centro della vecchia Gerusalemme dove da sempre si raccolgono gli estremisti che vogliono demolire le moschee. Sharon e Netanyahu sono stati collaboratori e discepoli del rabbino Zvi Yehuda Kook, figlio di Rav Abraham Isaac Kook, braccio destro del fascista Jabotinsky a Londra. Il padre di Netanyahu fu segretario personale di Jabotinsky. Merkaz HaRav, il centro fondamentalista religioso dei due Kook, fungeva da quartier generale del movimento degli insediamenti e per l’infiltrazione delle forze armate. Scomparso nel 1982, il rabbino Kook junior è stato il fondatore della setta “Fedeli del Monte del Tempio” insieme a Stanley Goldfoot, noto terrorista ebreo della banda Stern che nel 1948 fece saltare in aria tutto il comando inglese all’Hotel David, un personaggio che durante la guerra aveva lavorato per lord Martin Charteris, pezzo grosso dei servizi inglesi che poi diventò il segretario privato della regina Elisabetta II. Per Kook «occorre una Guerra Santa affinché possa avverarsi la seconda venuta del Messia».
Poi c’è il controllo massonico internazionale. In particolare, la loggia Quatuor Coronati, che fa capo alla Gran Loggia Madre presieduta dal duca di Kent e diretta dal marchese di Northampton, Spencer Douglas David Compton, imparentato ai Barings, storica famiglia ai vertici della Compagnia delle Indie. Lord Northampton è fissato con l’Israelismo Britannico, convinto che una delle “tribù smarrite” (si parla delle “12 tribù di Israele”, ndr) arrivò in Inghilterra e un’altra in America, e si rifà alla tradizione di Aleister Crowley, anch’egli ossessionato dalla storia del Tempio di re Salomone. Northampton non era un isterico isolato: è un esemplare dell’eredità odierna dell’Inghilterra di Edoardo VII. Nel 1995, la massoneria italiana inviò in Israele il Gran Maestro Giuliano Di Bernardo, uomo che prevedeva «il successo di una utopia fondata sulla Kabbalah» e che ha scritto libri su come ricostruire il Tempio. E c’è l’architetto olandese Leen Ritmeyer, che ha prodotto studi ponderosi sull’ubicazione del Tempio. Tutto finanziato da lord Jacob Rothschild del Rothschild Investment Trust. Finita la “guerra dei sei giorni” del 1967, arrivò a Gerusalemme Asher Kaufman della loggia Quatuor Coronati, che innestò sulla “questione Tempio” i Fondamentalisti Protestanti americani del Seminario Teologico di Dallas, diretto da John Walvoord, massimo esponente della corrente religiosa che si rifà a John Nelson Darby — figlioccio dell’ammiraglio Nelson —, l’uomo che mise a punto una dottrina antisemita per giustificare la decisione del ministro degli Esteri britannico lord Palmerston di costituire un ghetto ebraico in Palestina sotto l’attento controllo britannico (sembra complicato, ma resistete nella lettura). Darby, come il rabbino Kook, sosteneva che «gli Ebrei finiranno sterminati in quella battaglia finale di Armageddon che dev’essere ingaggiata per ricostruire il Tempio, condizione necessaria alla “seconda venuta di Gesù Cristo”». Il darbynismo predicato dalla American Jerusalem Temple Foundation è di un antisemitismo viscerale: la loro ideologia millenarista incoraggia e promuove a Gerusalemme uno scenario da “fine del mondo” perché così si compirebbero le profezie che, secondo loro, sarebbero contenute nelle Sacre Scritture; oltre a finanziare le formazioni terroristiche come quelle di Goldfoot, la Temple Foundation finanzia la Yeshiva Ataret Cohanim, scuola ortodossa che prepara, ormai da decenni, gli aspiranti rabbini a celebrare l’ufficio divino nel Terzo Tempio — quando ci sarà —. I rabbini hanno stabilito che «la sua santità si estende verso l’alto, all’infinito», e per impedire che l’impurità di passeggeri non-ebrei la contaminasse, nel 1983 fu perfino vietato tassativamente alla El-Al di sorvolare la zona della Spianata delle Moschee. Il fervente appoggio a Israele dei Fondamentalisti Protestanti Cristiani, elemento portante della Teologia di Armageddon e del controllo dell’Aipac sul Congresso e sul Senato degli Stati Uniti, non è una novità in America. Nel 1994, da un sondaggio di U.S. News and World Report, risultava che sei americani su dieci credevano nella fine del mondo — un terzo credeva “entro pochi decenni” —, il 61% erano convinti che Cristo ritornerà sulla Terra e il 44% che, a breve scadenza, ci sarà la battaglia di Armageddon. Due terzi degli intervistati erano “Born again”, i “rinati in Cristo”. Il 53% degli intervistati si era detto persuaso che il Terzo Tempio d’Israele sarebbe stato costruito entro pochi anni.
Metà della popolazione statunitense (quella che in buona parte ha contribuito a far eleggere Trump) crede che il mondo sia stato creato per come dice la Bibbia, e meno del 10% crede alle teorie darwiniane sull’evoluzione. La gente tenta invariabilmente e inevitabilmente di costruirsi un’identità collettiva, di associarsi, e se non ha la possibilità di entrare in un’organizzazione politica che funzioni, cerca altre vie: il fondamentalismo religioso è diretta conseguenza di questa impotenza.
L’Aipac, “American Israel Public Affairs Committee”, è il maggior gruppo di pressione pro-israeliano, con 60mila iscritti che organizzano campagne per influenzare i membri del Congresso; ha un bilancio ufficiale di quindici milioni di dollari e fino al 1999 era la seconda lobby dopo quella dei pensionati, battendo pure quella dei sindacati. La continuità tra “il popolo eletto” e la “Nazione sotto Dio” — Israele — è un tema costante dell’evangelismo americano: la “passeggiata” di Ariel Sharon sulla spianata delle moschee che provocò la Seconda Intifada fu un evento simbolico che veniva da questo stato di cose. Pat Robertson, l’infaticabile telepredicatore proprietario della CBN che, sull’onda del successo della Destra politico-religiosa, era stato anche candidato alla Presidenza degli Stati Uniti, sosteneva che il mezzo televisivo «rappresenta di per se stesso il compimento della profezia: “Euntes docete! Andate dunque, ammaestrate tutti i popoli!”, Matteo 28:19». Il suo ex-direttore di produzione rivelò che, sin dal 1979, Robertson aveva un progetto segreto, il “God’s Secret Project”, di cui erano stati discussi tutti i dettagli: si trattava delle riprese televisive della Seconda Venuta di Cristo. Si trovarono perfino a valutare se l’aureola di luce di Gesù avesse potuto pregiudicare la riuscita delle riprese e come si sarebbe dovuta risolvere “tecnicamente” la cosa. Figuriamoci: la troupe che dice a Gesù «Signore, prego, riducete un po’ la Vostra luminosità, abbiamo problemi di contrasto»…
Secondo problema: Kissinger-Huntington.
A Londra e a Washington i cultori della “geopolitica” sono da decenni in preda all’ossessione di mobilitare il “mondo occidentale” contro quelle nazioni che si stanno impegnando alla realizzazione del cosiddetto Ponte di Sviluppo Eurasiatico: la Russia, che prima dominava la regione, è di fatto neutralizzata dalle difficoltà che attraversa, e quindi ora occorre passare a contenere — o combattere — la Cina, l’Iran, l’India e la Turchia, per stabilire il controllo delle élite geopolitiche su questa immensa regione in cui sono stanziati tre quarti della popolazione mondiale. Lo “scontro delle civiltà”, prima di essere il famoso e sopravvalutato libro del signor Samuel Huntington di Harvard, è un progetto antico che si colloca ben al di sopra: è un vero e proprio “piano di guerra” messo a punto da un raggruppamento di potere tra le due sponde dell’Atlantico e che, pur facendo capo all’Inghilterra dei Liberi Muratori ispirati al Tempio, ha i capisaldi teorici in Henry Kissinger e Zbignew Brzezinski. Il primo, fervente assertore degli schemi geopolitici “dell’equilibrio delle forze” instaurato al Congresso di Vienna del 1815 dal ministro degli Esteri britannico lord Castlereagh e dal Cancelliere austriaco Principe di Metternich. Dopo la laurea, negli anni Cinquanta, Kissinger si dedicò a costruire quella rete Harvardiana nelle varie amministrazioni democratiche e repubblicane di cui fino a Bush jr. Huntington era una delle figure di spicco. Huntington era stato addestrato a ripetere quello che diceva Kissinger. Brzezinski, invece, quando nel 1976 divenne Consigliere di Sicurezza Nazionale sotto Jimmy Carter, sviluppò una sua teoria geopolitica chiamata “Arco di Crisi”: calcolava che tutta l’ampia regione lungo il fianco meridionale dell’Unione Sovietica sarebbe stata percorsa da instabilità sempre più destabilizzanti — a causa del Fondamentalismo Islamico oppure di conflitti tribali e razziali —, e che questo doveva essere sfruttato a Occidente come un’arma contro l’impero sovietico. Nel National Security Council diretto da Brzezinski, l’incarico di direttore della pianificazione della sicurezza era affidato a Huntington. Brzezinski e Huntington erano giunti nell’amministrazione Carter passando per la Commissione Trilaterale fondata e finanziata da David Rockefeller nel 1974 (sì, quella del famigerato Bilderberg).
Nel 1996 Brzezinski ha preso parte alla costituzione del Central Asia Institute presso la School of Advanced International Studies della John Hopkins University. I soldi per il nuovo istituto provenivano dalla Smith Richardson Foundation, nella cui direzione figurava Brzezinski, e la stessa fondazione finanziò Huntington per la realizzazione del suo libro; altri soldi Huntington li ottenne dalla Fondazione John Olin, ad Harvard, nella quale dirigeva l’istituto di studi strategici. Le due fondazioni erano le principali finanziatrici di progetti per la promozione del neo-liberismo economico e al tempo stesso dello “scontro geopolitico” con i Paesi in via di sviluppo. Negli anni Ottanta furono le principali finanziatrici “private” del programma “Project Democracy”, coordinato dall’allora vice-presidente George Bush padre, con il quale quest’ultimo costituì la sua rete privata e semi privata di trafficanti di armi e di droga — una parte di questa rete rimase coinvolta nel pasticcio Iran-Contras —. Brzezinski fu anche uno dei primi promotori della carriera di Madeleine Albright, segretario di Stato in era Clinton, prima alla Columbia University e poi portandola con sé, nel 1978, insieme a Huntington, nel Consiglio di Sicurezza Nazionale di Carter, per affidarle l’incarico di collegamento con il Congresso USA: quando volle a tutti i costi le sanzioni contro il Sudan, la Albright si rivelò un’entusiasta promotrice della crociata della baronessa inglese Caroline Cox, ex vice presidente della Camera dei Lord, contro il Sudan. La Cox si distingueva per lo zelo con cui propagandava, anche alla Camera dei Lord, la tesi di Huntington. La sua organizzazione, Christian Solidarity International, distribuì centinaia di copie degli scritti di Huntington facendone praticamente il vessillo delle proprie crociate contro il Sudan, l’Egitto, l’Iran, l’India e altre nazioni del “Terzo Mondo”.
(Cristianesimo ed Ebraismo si mischiano allegramente in tutto questo bailamme, incuranti del fatto che per gli Ebrei il Gesù cristiano è solo un millantatore.)
In che consiste, questo “scontro di civiltà”? Huntington sostiene che a livello di microscala, la spaccatura più violenta è quella che separa l’Islam dai suoi vicini ortodossi, Hindu, Africani e Cristiani occidentali; a livello di macroscala, la divisione dominante è tra “l’Occidente e tutto il resto”, dove i conflitti più intensi si verificano tra le società musulmane e quelle asiatiche da una parte e l’Occidente dall’altra. Gli occidentali sono in una inevitabile rotta di collisione con i musulmani, che sono intolleranti, e con i Cinesi, che sono invadenti. Gli asiatici minacciano Occidente con la loro “crescita economica”, i musulmani con i loro “elevati tassi di crescita demografica”. Lo sviluppo economico della Cina e delle altre società asiatiche fornisce a quei governi gli incentivi e le risorse per diventare più esigenti nei rapporti con gli altri Paesi; la crescita demografica nei Paesi musulmani, specialmente l’espansione della fascia d’età 15-24 anni, fornisce nuove leve per il fondamentalismo, il terrorismo, l’insurrezione e i moti migratori. Le popolazioni più numerose hanno bisogno di più risorse, pertanto le popolazioni di società dense o che crescono rapidamente tendono a spingere verso l’esterno, a occupare territori, a esercitare pressioni sulle popolazioni demograficamente meno dinamiche.
Lo scenario di Huntington, che sotto i Bush riscuoteva consensi unanimi a Washington (ma che è ormai in gran parte superato), è che la Cina entra in guerra col Vietnam, poi scende al suo fianco il Giappone, e insieme combattono contro gli Stati Uniti; intanto l’India ha già iniziato le ostilità contro il Pakistan, gli Arabi si scontrano con gli Israeliani, quindi c’è lo scontro tra Russia e Cina. Poi i missili nucleari raggiungono la Bosnia, l’Algeria e anche Marsiglia, dando vita a complicati scenari di guerra sul teatro dei Balcani e dell’Egeo… Stati Uniti, Europa, Russia e India si ritrovano infine in uno scontro su scala globale contro la Cina, il Giappone e gran parte dell’Islam. Gli Stati Uniti e l’Europa dovrebbero, secondo Huntington, imporre alla Cina e agli altri Paesi un apartheid tecnologico, fare in modo da «limitare lo sviluppo delle capacità militari convenzionali e non convenzionali dei Paesi islamici e sinici» e «mantenere la superiorità tecnologica e militare dell’Occidente sulle altre civiltà».

Terzo problema: l’asse Reagan-Bush-Wolfowitz.
L’ingresso torrenziale in politica del linguaggio biblico dei Fondamentalisti Protestanti Cristiani coincide con gli anni di apprendistato di Ronald Reagan e con la sua trionfale ascesa alla Casa Bianca, grazie ai voti della Moral Majority, la Destra politico-religiosa. Già nel 1971, quando Reagan era popolarissimo governatore della California, parlò di profezie sull’inevitabile — addirittura imminente — conflitto nucleare con l’Unione Sovietica, distillando le citazioni dei più famosi passi paranoici dei libri di Ezechiele e dell’Apocalisse: «Appena saranno finiti i mille anni, Satana sarà lasciato libero, uscirà dalla prigione per sedurre le nazioni che sono ai quattro angoli della terra, Gog e Magog, per radunarli alla guerra. Il numero di questi è come la sabbia del mare… In quel giorno, tuonò Jahweh, nel giorno in cui Gog verrà contro la terra d’Israele, il furore mi salirà alle narici e ognuno volgerà la spada contro i suoi fratelli»… Vero mago della comunicazione ridotta al minimalismo emotivo, Ronnie disse convinto: «La Libia è diventata comunista, questo è il segno che il giorno di Armageddon non è lontano. I rossi devono andare al potere in Etiopia. È necessario perché la profezia si compia, che l’Etiopia diventi una di quelle nazioni senza Dio che si scaglieranno contro Israele». Il “Gog” che allora, nel 1971, era alla guida delle “potenze delle tenebre” pronte ad aggredire Israele — ossia l’Unione Sovietica — era già “l’Impero del Male”: «Ezechiele ci dice che verrà da Nord, e quale altra nazione potente c’è a Nord di Israele? Nessuna. Tutto questo sembrava assurdo prima della Rivoluzione Bolscevica perché la Russia era una nazione cristiana, ma, ora che è diventata comunista e atea, risponde perfettamente alla descrizione di Gog! Gli Ebrei hanno vissuto per secoli la diaspora, ma questo non vuol dire che Dio si è lavato le mani di loro: prima del ritorno del Figlio, li riunirà tutti in Israele. Persino i mezzi di trasporto di cui si sarebbero serviti sono stati descritti in dettaglio dal profeta: alcuni “verranno per mare” ed altri ritorneranno “come colombe ai loro nidi”. In altri termini, o torneranno con le navi o per via aerea… Questa profezia si compì nel 1967, quando Gerusalemme fu riunita sotto la bandiera d’Israele». E nel 1981, ormai Presidente: «L’antisemitismo è creazione di Satana che cerca tutti i mezzi per colpire il popolo eletto; oggi lo Stato d’Israele è la sede della profezia. Nel Vecchio Testamento, il ruolo degli Ebrei era quello di testimoniare; oggi è quello di preparare la Seconda Venuta di Cristo». Parole di Ronald Reagan, eh, il rivoluzionario economico, il modernizzatore, il teorico dello Scudo Spaziale, l’ispiratore di Rambo, non parole di un matto a Speaker’s Corner…
Ma Reagan era solo una scatola vuota, un ex-attore che leggeva “gobbi”: e quando leggi un gobbo, le parole ti entrano dagli occhi e ti escono dalla bocca, senza passare per il cervello. Era la “scatola vuota” dei Born Again. Che erano (e sono ancora), appunto…

Il quarto e più grave problema: i Cristiani Rinati.
I “fundies”, i Fondamentalisti Protestanti Cristiani, cominciarono a proliferare alla fine degli anni Sessanta, epoca in cui il governo USA iniziò ad avallare la politica del “post-industriale” che condusse al disastro gran parte dell’economia americana. La demoralizzazione che seguì fu l’humus in cui cui attecchirono le varie strutture apocalittiche e messianiche pseudo-cristiane. Nel 1965 Lyndon Johnson, che proveniva dal Sud, favorì la lotta del movimento di Martin Luther King fino a fare pressioni sul Congresso affinché approvasse la legge sul diritto di voto dei neri, nonostante la forte opposizione del partito segregazionista negli Stati del Sud. Per tutta risposta, l’allora governatore di New York, Nelson Rockefeller (Rotschild e Rockefeller ci sono sempre, in tutta questa merda), insieme ad altri pezzi grossi del Partito Repubblicano, lanciò la cosiddetta “Strategia Sudista” per riguadagnare il terreno conquistato dal Partito Democratico, alleato al Movimento per i Diritti Civili. La strategia consisteva nel recuperare gli strati che avevano sostenuto la Confederazione Sudista del XIX Secolo. Fecero appello ai “poveri bianchi” del Sud, gente che nutriva livori nei confronti dei neri, il cui recente progresso era visto come una minaccia. Proprio tra questi strati, soprattutto rurali, il fondamentalismo protestante fece proseliti a non finire, e gli Stati che erano appartenuti alla Confederazione Sudista divennero la “Bible Belt”, la cintura della Bibbia. La “Southern Strategy” repubblicana contribuì alla vittoria di Richard Nixon, che nel 1968 inaugurò un’amministrazione in larga parte sotto il controllo di Henry Kissinger. Per tutta risposta, i Democratici finirono per ordire la propria “Southern Strategy”, che segnò la fine della politica di raccolta dei consensi tra i gruppi ai quali si era rivolto Franklin Delano Roosevelt. Ciò provocò uno dei disastri peggiori della storia americana: l’amministrazione Carter, dal 1976 al 1980.
Jimmy Carter, burattino della Commissione Trilaterale di David Rockefeller, era il fundie più classico: imbottito di convinzioni superstiziose, si dichiarò pubblicamente “cristiano rinato”. Sotto la sua presidenza, gli Stati Uniti finirono in un declino economico e industriale senza precedenti, che lui incoraggiava tutto preso da una sua insensata utopia agraria. Con Carter, il Fondamentalismo Protestante prese il vento in poppa, e il disastro da lui provocato non insegnò niente al suo partito: dopo la vittoria di Reagan, i Democratici riposizionarono la loro “Strategia Sudista” creando il Democratic Leadership Council, la corrente alla quale si dovette il lancio dei “New Democrats”, la cosiddetta tattica “centrista” di stampo tendenzialmente fascistoide — quel tipo di fascismo che caratterizza gli Stati del Sud —. Prima di diventare Presidente, Bill Clinton è stato presidente del DLC e Al Gore ne è stata un’altra espressione.

E DUNQUE…
I bigotti “millenaristi dagli occhi vitrei” sono da decenni in preda alla frenesia e minacciano una guerra di religione che, se non è prevenuta per tempo, potrebbe allargarsi ben oltre il Medio Oriente. Varie associazioni e leader del mondo ebraico hanno finito per accondiscendere e sottomettersi a questa psicosi perché hanno paura — non a torto — di gente come questi fundies, e perché si preoccupano, a ragione, ma in maniera sbagliata, della “sopravvivenza ebraica”.
Lo scontro delle culture fomentato da Samuel Huntington è tutt’altro che inevitabile, come felicemente dimostrato cinque secoli or sono da un cristiano di tutt’altra pasta, il Cardinale Niccolò Cusano, nel dialogo “De Pace Fidei”. In quello scritto filosofico, il grande pensatore del Rinascimento espone i termini di come tutte le culture possano riconciliarsi tra loro nella misura in cui condividono la concezione più elevata dell’uomo, perché tale concezione è il tratto più caratteristico di ogni individuo, a prescindere da razze e culture. La tradizione oligarchica, oggi espressa dalla cultura britannica e illuministica, poggia invece sul presupposto che l’uomo sia un animale, o che comunque non vi sia una distinzione qualitativa di fondo, assoluta, tra l’uomo e la bestia.
Con l’elezione di Trump ma soprattutto con l’entourage di cui si è circondato, questi temi purtroppo sono tornati a pulsare violentemente.

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