Intermittenza del reddito.
Intelligenza artificiale e algoritmi che si mangiano più posti di lavoro di quanti non ne creino.
Un modello di società in cui nessuno può programmarsi decentemente l’esistenza per eccesso di rarefazione-saltuarietà delle entrate.
Lavoro “molecolare, polverizzato, atomizzato, parcellizzato”.
Aggettivi multipli che identificano un sistema unico in cui per guadagnarsi qualcosa che somigli a un reddito molte persone (sempre di più) devono mettere insieme ogni giorno un po’ di queste molecole sparse: un paio d’ore di voucher, poi un’altra oretta a correggere bozze dopo aver risposto a un annuncio su Upwork, un’altra a pascolare cani al parco grazie a un’offerta su Taskrabbit, quindi a pulire la seconda stanza di casa perché arriva un ospite trovato su Airbnb, magari due ore a guidare per Uber, infine a cucinare per sei clienti ramazzati su Gnammo.
In questa economia dei lavoretti (gli anglosassoni la chiamano “gig economy”) emerge una nuova classe sociale: quella dei “post-operai digitali” a cottimo o all’ora che per vivere saltellano full time tra piattaforme, siti, annunci on-demand e miniofferte volanti. Lavoretti “per arrotondare” che stanno invece diventando gli unici disponibili su piazza. I soli che messi insieme possono avvicinare le persone a un reddito.
Modalità di impiego “snack” su cui si è fondata tutta l’ideologia economica che ha conquistato l’egemonia culturale negli ultimi decenni: se n’è teorizzata non solo l’ineluttabilità, ma anche i grandi vantaggi che avrebbe portato al PIL e al benessere collettivo e perfino la maggiore libertà e varietà che questi orari iper-flessibili avrebbero consentito (Mario Monti, 2012: «Il posto fisso è noioso»).
Anche i voucher nostrani erano nati per far emergere e per regolarizzare pochi lavoretti extra: invece sono diventati la forma di sostentamento principale — se non unica — per oltre un milione di persone. Ma non sono la causa del problema: ne sono un effetto. Se hanno avuto così successo (molto oltre le previsioni di chi li aveva inventati) è perché canalizzano in modo legale la questione strutturale: cioè la parcellizzazione del lavoro, il suo essere diventato così “liquido”.
E non stiamo neppure ad accennare alla perdita psicologica di identità sociale (che lavoro fa, uno che lavora qua e là con i voucher?) o all’impossibilità di pianificarsi qualsiasi futuro.
In nome dell’affidamento al mercato s’è svuotato il lavoro della sua dignità. È stato fatto avvicinando il lavoro ogni giorno di più alla schiavitù: riducendolo a chiamata, all’ora, a voucher, senza diritto alla malattia o alle ferie, telecontrollabile, demansionabile, ricattabile, sottopagabile, a cottimo — e licenziabile a capriccio.
Finalmente qualcuno nei media e tra i politici sembra accorgersi di questa nuova realtà e delle questioni che porta con sé: precariato totale, redditi da fame, totale assenza di diritti basilari come le ferie e la malattia, ovviamente nessuna possibilità di vertenze sindacali, per non dire degli abusi di chi li utilizza per nascondere il nero (ti faccio lavorare dieci ore e una te la pago col voucher, così se arriva un controllo o accade un infortunio abbiamo un pezzo di carta a coprirci).
Colpe?
Sì, ci sono delle colpe (e uso proprio questo termine preso in prestito alla religione, perché il semplice “responsabilità” non è sufficiente).
Le tecnologie, prima di tutto: non solo e non tanto perché queste hanno permesso lo sviluppo delle piattaforme attraverso le quali buona parte di questa parcellizzazione avviene, ma soprattutto perché hanno portato tutte le relazioni economiche verso l’on-demand e l’accesso.
Poi la robotica, gli algoritmi e l’intelligenza artificiale: che stanno rarefacendo drasticamente il bisogno di lavoro umano, sicché (in base alle note leggi della domanda e dell’offerta) i prestatori di lavoro sono in condizioni sempre più sfavorevoli, quindi accettano dumping sempre peggiori.
Inoltre, si sa, la globalizzazione dei mercati consente di esternalizzare le produzioni nei Paesi in via di sviluppo, un asset non da poco nel cambiare ulteriormente i rapporti di forza tra chi dà e chi presta lavoro.
In più, anche se fa brutto dirlo, prima del 1989 lo spauracchio del Comunismo convinceva gli imprenditori e i governi a tenere buoni i propri lavoratori con concessioni e riforme sociali: adesso che il Comunismo non c’è più, questi hanno (o credono di avere) mani del tutto libere.
Ma soprattutto, le oligarchie al potere: multinazionali e governi. Che non hanno fatto NULLA per evitare che finissimo in questo disastro.
Quando caddero i regimi comunisti — che ai loro cittadini garantivano casa e lavoro, seppur sotto dittatura — ci fu spiegato non senza ragione che tra le cause di quel crollo c’era l’assenza di competizione. Che aveva portato le economie di quei Paesi allo stallo, e a perdere la sfida con l’Occidente. Le scassate Trabant di Berlino Est messe a confronto con le fiammanti Audi dell’Ovest erano la rappresentazione plastica di quel fallimento comunista. Da un lato le economie della competizione, che stimolavano inventiva, creatività, impresa e quindi produzione di valore; dall’altro le economie pianificate che soffocavano ogni impresa, ogni idea, ogni innovazione, e quindi si impaludavano nella redistribuzione della povertà. Di qui, da quel confronto con un vincitore chiaro, l’illusione che non ci fosse più storia: che la competizione tra mercati sempre più liberi e intercomunicanti sarebbe stato l’ineluttabile, radioso e pacifico destino del genere umano.
Qualcosa, invece, è andato storto. Qualcosa dev’esser andato molto storto se meno di trent’anni dopo è arrivata una retromarcia così clamorosa: e la Brexit, e Trump, e adesso la Le Pen unica candidata in Francia sicura di arrivare al ballottaggio.
E qualcosa dev’essere andato ancora più storto se il concetto di protezione è diventato trademark della destra (area che tradizionalmente puntava invece sulla competizione) mentre la competizione è rimasta bandiera delle Hillary Clinton, dei Renzi e dei Macron, che di queste neodestre sarebbero in teoria avversari o almeno competitor elettorali.
La dico in un altro modo, per approfondire il concetto.
La Sinistra nasce “internazionalista”: nel secolo degli Stati nazionali al loro massimo — l’Ottocento —, teorizza lo scontro non tra nazioni ma tra classi sociali. Classi traversali alle patrie. Ciò nonostante, nel corso della seconda metà del secolo successivo tutte le conquiste della Sinistra, e delle classi popolari che la Sinistra allora rappresentava, sono avvenute attraverso gli Stati nazionali. Cioè attraverso leggi di tutela dei ceti deboli e dei lavoratori che venivano approvate dagli Stati nazionali, e al loro interno implementate.
È così che per esempio sono nate le socialdemocrazie scandinave, il modello migliore di società mai raggiunto dall’umanità. E qualcosa di non troppo diverso è avvenuto anche altrove (dalla Spd in Germania al Labour inglese).
Così è nato il “welfare”, sono nate tutte le misure che hanno diminuito la forbice sociale in Europa. Anche in Italia, con lo Statuto dei Lavoratori e il Servizio Sanitario Nazionale pubblico e universale. (Perfino prima del centrosinistra, con il “piano casa” di Fanfani. Perché non serviva nemmeno sempre che le sinistre governassero: bastava la paura del Comunismo, perché qualcosa venisse concesso.) A Novecento avanzato, l’Europa è diventata l’area del mondo con le migliori misure sociali.
Poi, a partire dagli anni ’80, poco a poco son finiti gli Stati nazionali, o almeno le economie nazionali. I capitali hanno cominciato a viaggiare da un Paese all’altro. I mercati sono diventati globali. Le aziende hanno iniziato a delocalizzare: se lo Stato voleva tassarne gli utili per redistribuire, quelle andavano altrove.
Quindi i mercati — quelli ormai globali — sono diventati sempre più indispensabili per ogni spesa pubblica, avendo gli Stati debiti con essi. Dunque, premiando o punendo gli Stati-debitori, i mercati hanno preso a indirizzarne le scelte politiche. Uno Stato fa qualcosa di sgradito ai mercati? Con tre clic su un computer, questi fanno andare in default lo Stato in questione.
In un secolo, quindi, l’internazionalismo si è rovesciato: da ideale “di sinistra” e popolare è diventato uno strumento per togliere diritti, benessere e welfare alle classi popolari stesse. Nessuna politica sociale può più essere fatta dai singoli Stati nazionali. I poteri si sono spostati altrove. L’internazionalismo è diventato “di destra”, in senso economico.
La reazione è stata quella che vediamo: il neonazionalismo. L’aspirazione dei ceti bassi e di quelli proletarizzati a “tornare indietro”: verso le frontiere, i muri, l’identità nazionale contro tutti gli altri. Una cosa che però è di destra di suo, da sempre: infatti si declina in Trump e Le Pen.
Ci si illude che, rialzando muri, alla base della piramide sociale si possa riacquistare ciò che la globalizzazione dei mercati ha tolto.
Di qui la situazione attuale: ceti popolari che votano la destra nazionalista. Come negli Stati Uniti. Come in Francia.
Ma anche una parte della Sinistra applica lo stesso ragionamento immediato, intuitivo: in quel campo di gioco lì — quello nazionale — vincevamo o almeno pareggiavamo, comunque qualcosa si otteneva; in questo campo di gioco qui — l’Europa, il mondo — si perde, e male, una ‘manita’ proprio. Meglio sarebbe quindi, secondo questa logica, tornare agli Stati nazionali.

Così ora siamo (di nuovooo?!) all’«uomo forte»: in un recente sondaggio, in Italia lo vedono bene 4 persone su 5.
Semplificando molto: la globalizzazione e l’invadenza dei mercati hanno creato un mondo nel quale i cittadini-elettori non hanno più la percezione che i loro leader democraticamente eletti possano decidere e incidere davvero. Troppe dinamiche esterne li limitano, li circoscrivono, li rendono esecutori di decisioni prese altrove (per esempio, imposte dai trattati internazionali) o pretese come “inevitabili” dai meccanismi economico-finanziari (per esempio, la necessità di attrarre investimenti, di onorare debiti pregressi, di non far fuggire capitali, etc).
I cittadini vedono che i loro rappresentanti hanno le mani legate dietro la schiena. Allora cercano qualcuno con le braccia abbastanza muscolose per liberarsi da quei legacci. Qualcuno che promette di essere più forte. Più forte dei mercati, della finanza, della Borsa, degli investitori, dei debiti, perfino della demografia.
Il risultato è qualcosa di simile a quanto avvenuto 90 anni fa — l’avvento dei fascismi a seguito di una crisi del sistema liberale —, anche se con molte differenze. La principale delle quali è che negli anni Trenta i fascismi avevano una pulsione offensiva verso gli altri Stati, mentre a questo giro gli “uomini forti” hanno soprattutto una funzione difensiva del proprio Stato: di qui i «muri» di Trump e Orban, i confini, i neoidentitarismi.
Resta la questione principale: se si vuole l’uomo forte è perché si ha la sensazione — tutt’altro che infondata — che le democrazie non decidano più. Che possiamo eleggere chicchessia — anche il meglio fico del bigoncio —, ma poi quello non potrà fare quasi nulla. A meno che non sia abbastanza muscolare e assertivo da vincere a braccio di ferro con tutto il resto: mercati, investitori, demografia, et cetera et cetera.
Quindi non c’è da stupirsi né da strillare: c’è semmai da capire e magari da trovare un’altra via. Perché non è che improvvisamente sono diventati tutti fascisti gli americani, i francesi, gli europei in genere. Semplicemente si sono rotti i coglioni di eleggere qualcuno senza che poi questo decida.
È normale, è umano: se ti trovi in un teatro affollato e irrompono dei gangster che vogliono far fuori tutti, tu tendi ad affidarti ai più bastardi che trovi intorno a te, perché sono quelli che più probabilmente ti aiuteranno a sopravvivere.
Il problema appunto è che l’Uomo Forte è quasi sempre merda fumante. Nel corso della sua campagna elettorale, Trump ha detto di voler incarcerare Clinton, denunciare le donne che l’hanno accusato di molestie sessuali, neutralizzare lo speaker della Camera e revocare la libertà di stampa. Ha detto di voler creare un super PAC (un comitato elettorale che può ricevere donazioni illimitate da singoli individui) che si occupi delle sue vendette politiche. Ha promesso di deportare milioni di persone, stracciare gli accordi commerciali firmati dagli Stati Uniti, introdurre test religiosi e sabotare gli sforzi internazionali contro il cambiamento climatico. Be’, incroyable, mon dieu!, contrariamente a tutti i chiacchieroni spaccamontagne nostrani questo qui ha cominciato a metterlo in pratica, il suo programma. Vuole dare al mondo un’America tardonazionalista, postfascista, reazionaria, xenofoba, autocratica.
Di più. Vuole farne uno Stato confessionale.
Il ritorno dei NeoCon. Anzi, dei TeoCon
Ancora fatichiamo a liberarci delle nefandezze dei NeoCon e dello “Scontro di Civiltà” teorizzato da quel pazzo di Samuel Huntington, che fertile sponda trovò nella Casa Bianca di Bush jr. e della marmaglia reazionaria tipo Wolfowitz, che già ci si para dinnanzi uno scenario se vogliamo ancora peggiore.
Trump ha fatto e sta facendo della religione uno degli strumenti della sua ascesa politica. Si è messo accanto un vice presidente, Mike Pence, che si definisce «cristiano, conservatore, repubblicano, in quest’ordine». Sta riempiendo l’amministrazione di gente con un solido background religioso. Jerry Falwell Jr., rampollo di una delle più importanti famiglie di evangelici d’America e presidente della cristiana Liberty University, è stato chiamato a pensare le nuove strategie per l’istruzione superiore. Scott Pruitt, il nuovo direttore dell’EPA (l’Agenzia per la protezione ambientale) ha detto di «non poter credere che Dio permetterebbe mai i cambiamenti climatici» (!). E Neil Gorsuch, il giudice nominato da Trump alla Corte Suprema, è un convinto nemico di aborto, contraccezione, eutanasia e tutto ciò che confligga con la “religione” che ha citato nel discorso di accettazione della candidatura.
Perciò quello che Trump e i suoi stanno facendo è qualcosa di più vasto e profondo della “difesa nazionalista”. L’idea, in realtà, è quella di rilanciare una sorta di nazionalismo religioso come fondamento dell’identità del Paese. E di costruire uno Stato confessionale che renda sempre più vago il confine tra politica e religione.

In questo senso va sicuramente il proposito di disfarsi del Johnson Amendment, votato dal Congresso nel 1954 e ispirato dal futuro presidente degli Stati Uniti, Lyndon Johnson. La legge vieta a chiese, organizzazioni religiose e in genere a tutti i gruppi esentati dal pagamento di tasse di fare attività politica e di finanziare candidati a cariche elettive. Da anni i gruppi della destra religiosa e cristiana (per esempio la ferocemente anti-gay “Alliance Defending Freedom”) cercano di far saltare la norma. Ora hanno trovato un alleato potentissimo: Donald Trump, appunto, che in campagna elettorale aveva promesso di «ridare la voce alle nostre chiese» e che ora annuncia: «Distruggerò il Johnson Amendment; farò in modo che i rappresentanti della fede possano parlare liberamente e senza timore di punizione».
La visione di Trump di un paesaggio americano devastato, di un’America bianca che declina e scompare, si adatta molto bene alle idee e alla teologia della destra cristiana e apocalittica che in questi decenni ha tuonato contro la perdita della vera fede, contro il declino dei valori e la crescita della “Sodoma americana”.
Il nesso tra ansie dell’America bianca, revanchismo, millenarismo religioso, conflitti internazionali è del resto molto chiaro in un personaggio come Steven Bannon, forse il collaboratore più ascoltato da Trump, quello che sta passo dopo passo dettando l’agenda ideologica di questa amministrazione. Il nuovo Samuel Huntington, o forse il nuovo Paul Wolfowitz. L’internazionale nazionalista sognata da Bannon – che dopo la presa del potere negli Stati Uniti spera di ripetere l’esperienza in Olanda, Germania, Francia – si nutre infatti dei valori della religione e della tradizione giudaico-cristiana.
Bannon ha 64 anni, è l’ex capo del sito di estrema destra Breitbart News, ed è stato spesso accusato (così come il sito) di essere vicino a posizioni antisemite, razziste ed estremiste.
La cosa risulta chiara se si ascolta il discorso che Bannon fece nell’estate 2014 via Skype, da Los Angeles, a una conferenza in Vaticano dell’Institute for Human Dignity, un gruppo di cattolici conservatori con sede a Roma (l’audio, pubblicato per la prima volta da BuzzFeed, è stato poi ripreso dal New York Times e da altri media). Bannon parlava della “crisi del vecchio capitalismo garantito dalla Pax americana”, un capitalismo “illuminato” e dettato dagli ideali giudaico-cristiani. Crisi capitalista, secolarizzazione, crescita del mondo musulmano avevano messo in crisi l’Ovest giudaico-cristiano. La rivolta populistica, fomentata dalle ansie economiche, era però alle porte. Era un populismo, secondo Bannon, “voce del movimento anti-aborto, voce del movimento per il matrimonio tradizionale”. Era un populismo profondamente radicato nelle tradizioni nazionali: nella Middle America, nelle Midlands della Gran Bretagna, nell’elettorato del Front National in Francia. La conclusione di Bannon non era per nulla confortante: «Dobbiamo affrontare un fatto spiacevole: una guerra importante è alle porte, una guerra che è già globale. Sarà globale per scala… Penso che siamo nelle fasi iniziali di una guerra globale contro il fascismo islamico».
Huntington e lo “Scontro di Civiltà”, appunto. Ora Bannon è diventato il chief strategist della Casa Bianca, e Trump lo ha da poco nominato nel National Security Council, l’organo dove vengono decise le strategie internazionali degli Stati Uniti.
In quello stesso video Bannon cita Julius Evola, il filosofo, scrittore e artista italiano piuttosto noto per i suoi legami col fascismo, e già ispiratore di molti intellettuali di estrema destra. Ma soprattutto esoterista, amato profondamente dalla Massoneria.
Nell’ambito di un discorso più ampio sul presidente russo Vladimir Putin — che Trump ha detto più volte di ammirare, con grandi perplessità dell’intera classe politica americana — Bannon disse che Evola era uno degli «autori del primo Novecento che facevano parte del cosiddetto movimento tradizionalista, che alla fine divenne per metastasi il fascismo italiano». In realtà Evola, che morì a 76 anni nel 1974, in Italia è molto noto, soprattutto nei circoli paragonabili a quelli che frequenta Bannon: si occupò e scrisse di cose molto diverse tra loro — dalle religioni orientali, all’alchimia, passando per il sesso — ma si fece notare soprattutto per le sue idee relative al tradizionalismo; un principio radicale secondo il quale il progresso e un certo tipo di uguaglianza sono dannosi. Evola, per esempio, teorizzava anche l’esistenza di alcune “razze” umane inferiori, che di conseguenza devono essere trattate come tali dal resto dell’umanità (!). Nel corso del Novecento Evola prima si avvicinò e poi si allontanò dal fascismo, per ritrovarsi infine nelle idee del nazismo: negli anni del Dopoguerra fu ripreso come uno dei principali pensatori d’ispirazione dei movimenti neofascisti. Ancora oggi Alba Dorata, il partito greco di estrema destra, inserisce Evola tra i suoi autori di riferimento; e il leader di Jobbik, il partito ungherese di estrema destra, ha scritto l’introduzione a uno dei libri di Evola. Ovviamente anche Forza Nuova, il principale movimento neofascista italiano, tiene in grande considerazione Evola.
E Bannon purtroppo non è l’unico politico americano a conoscere e citare Evola, che è apprezzato anche da alcuni importanti esponenti della cosiddetta alt-right (una frangia dell’estrema destra americana composta anche da nazionalisti e neonazisti): uno di loro, Richard Spencer – che pochi giorni dopo l’elezione di Trump ha organizzato una conferenza celebrativa a Washington in cui si sono sentiti degli “Hail Trump” – ha detto che «Julius Evola è una delle persone più interessanti del Ventesimo secolo».
Cos’è ’sto tradizionalismo? Una roba esoterica. La Massoneria s’è inventata un “lignaggio di sapere” antico e altamente segreto e iniziatico: la cosiddetta “Tradizione”, appunto, che si vuole far risalire nientemeno che agli antichi Egizi, passando per i personaggi dell’Antico Testamento (Salomone, al cui “tempio”, costruito dal famoso Hiram, mai esistito, i massoni si ispirano), i filosofi greci (Platone e soprattutto Pitagora, del quale la Storia sa poco o niente mentre i massoni ne sanno tutto), l’Alessandria del III Secolo (Ermete Trismegisto, mai esistito, e gli Gnostici), gli Arabi medievali (Avicenna e Averroè), la Kabbalah ebraica, i Templari, i Catari di Linguadoca e i Bogomili di Bulgaria, l’Alchimia (Paracelso), Pico della Mirandola e Marsilio Ficino, i Rosacroce del Seicento (mai esistiti: era solo uno scherzo letterario cui credettero tutti). Tutto lo spurgo di lavandino otturato che io prendo per il culo ne “L’Uomo Nuovo”.
Ancora una volta, con il riemergere di questo schifo, c’entra l’abdicazione delle forze politiche progressiste, appiattitesi sul Blairismo. Il Partito Democratico USA ha preferito consegnare gli Stati Uniti a un miliardario reazionario e razzista anziché vincere le elezioni candidando Sanders. «[Bisogna] chiudere definitivamente con ogni “sinistra” ormai divenuta strutturalmente e inguaribilmente articolazione della destra: è la premessa ineludibile per salvare le democrazie dall’avvitamento che le sta distruggendo» (Paolo Flores D’Arcais).
L’«avvitamento» era ed è visibilissimo, da anni: LePen, Salvini, Grillo, Farage. I Pirati nel nord Europa. Podemos, Ciudadanos e Tsipras. (E perché no lo stesso Sanders, appunto). Hai voglia a esempi. Ma finché il fenomeno è rimasto confinato a percentuali non maggioritarie di popolazione, il sistema ha potuto vivacchiare alla men peggio.
Non appena la possibilità di voto è arrivata prima al cuore della finanza (Londra, con la Brexit) e a ruota al più grande Stato occidentale, be’, patatrac!, 80/90 milioni di angloamericani non sono come 3 milioni di italiani o di spagnoli o di greci o di svedesi. I quasi cento milioni di persone di lingua inglese (la lingua del Potere™) che vanno alle urne per “rovesciare il tavolo”, strafottendosene altamente dei programmi dei candidati e/o della loro autorevolezza, spostano gli equilibri del mondo intero.
E dunque il pensiero piccolissimo è che ora tocca a noi. Una volta che il tavolo è stato rovesciato addirittura dentro l’Impero britannico e Mamma America, l’argine è rotto. E il fiume non lo puoi più fermare.
E dire che avremmo avuto bisogno di poco, tutti noi “99%”. Noi che teniamo in piedi tutto “consumando”. È tremendamente difficile essere allo stesso tempo “lavoratori insicuri” e “consumatori ottimisti”: o l’uno, o l’altro.
Ci sarebbe stata “sufficiente” un’agenda semplice, senza pretese di esaustività, che mettesse insieme alcuni basici diritti sociali e alcuni basici diritti civili. Reddito minimo, continuità di reddito per i precari, redistribuzione dei proventi della finanza e della robotizzazione. Patrimoniale e maggiore progressività del sistema fiscale. Tagli alle spese militari. Piccole opere sul territorio invece di grandi opere. Scuola pubblica, non privata. Istruzione pubblica, non privata. Ambiente pubblico, non privato. Reato di tortura. Biotestamento. Matrimonio egualitario. Creazione di nuovi strumenti di democrazia radicale e di partecipazione diffusa.
Sarebbe bastato questo. Questo basterebbe. Ma figuriamoci se si arriverà mai. Specialmente qua nella penisola, seppelliti come siamo da un Debito Pubblico monstre, con il Made in Italy e le migliori menti in fuga all’estero, e con la prospettiva di eleggere fra non molto uno fra Renzi, Salvini e un franchisee di Grillo/Casaleggio.
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