La “vita”, in realtà, non esiste

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Un giorno lo sapremo, in un futuro molto lontano.
Così come da un complesso insieme di particelle subatomiche si arriva a cose come un tramonto, un oceano, la vita, allo stesso modo dall’intricato garbuglio di neuroni si arriva a cose come l’amore, l’anima, la personalità di un individuo, la mente.
Dalle stringhe e dai quark si arriva a formare un universo; dal cervello umano si giunge al pensiero, alla coscienza, alla memoria, alla creatività.
(Luigi Manglaviti, 11.11.2008)

Passeggi in montagna.
Ti fermi e guardi un albero fra le rocce.
Frondoso, bello nel suo protendersi al cielo. Ma immobile. Come i sassi intorno.
E pensi: ma perché dico che quell’albero è “vivo” e di tutta la pietra che lo circonda dico invece che è “senza vita”?
Anche l’erba che punteggia qua e là le rocce è immobile come le pietre. Eppure è “viva”, mentre la roccia è “inanimata”.
Qual è la differenza tra l’inanimato e il vivente? Perché persone, animali e piante appartengono a una categoria, e automobili, computer, stelle e rocce a un’altra?
Gli esseri umani che hanno studiato la “vita” hanno sempre lottato per definirla: ma ancora oggi non ne esiste una definizione soddisfacente o universalmente accettata.

I tentativi di definire con precisione la vita risalgono almeno ai filosofi greci. Aristotele credeva che, a differenza di quelle inanimate, tutte le cose viventi avessero tre tipi di “anima”: vegetativa, animale e razionale, quest’ultima esclusiva degli esseri umani. Galeno propose un sistema simile basato sugli organi, con “spiriti vitali” nei polmoni, nel sangue e nel sistema nervoso. Nel XVII Sec. il chimico tedesco George Erns Stahl e altri iniziarono a definire una dottrina che divenne poi nota come “vitalismo”. I vitalisti sostenevano che «gli organismi viventi sono fondamentalmente diversi dalle entità non viventi perché contengono elementi non fisici o sono governati da principî diversi», e che la materia organica (molecole che contengono carbonio e idrogeno e sono state prodotte da esseri viventi) non poteva derivare dalla materia inorganica (molecole prive di carbonio derivate soprattutto da processi geologici). Esperimenti successivi hanno rivelato che il vitalismo è completamente fuori strada: l’inorganico può essere convertito in organico sia all’interno che all’esterno di un laboratorio.
Altri scienziati hanno cercato invece di identificare un insieme specifico di proprietà fisiche che differenziano la vita dalla non-vita. Oggi, al posto di una definizione succinta della vita, molti testi di biologia includono un elenco piuttosto ampio di queste proprietà. Per esempio: ordine (molti organismi sono costituiti da una singola cellula con diversi scomparti e organelli o da gruppi altamente strutturati di cellule); crescita e sviluppo (cambiano dimensione e forma in modo prevedibile); omeostasi (mantengono un ambiente interno diverso da quello esterno, regolando per esempio i livelli di pH e concentrazione salina); metabolismo (spendono energia per crescere e per ritardare il decadimento); reazione a stimoli (cambiano comportamento in risposta a luce, temperatura, sostanze chimiche o altri aspetti dell’ambiente); riproduzione (clonazione o accoppiamento per la produzione di nuovi organismi e trasferimento di informazioni genetiche da una generazione alla successiva); evoluzione (la composizione genetica di una popolazione cambia nel tempo).
È fin troppo facile smontare la logica di questi elenchi. Nessuno è mai riuscito a compilare una lista di proprietà fisiche che comprenda tutte le cose viventi ed escluda tutto ciò che etichettiamo “inanimato”: ci sono sempre delle eccezioni. Quasi nessuno considera vivi i cristalli, per esempio, eppure sono altamente organizzati e crescono. Anche il fuoco consuma energia e diventa più grande, ma non è vivo. Al contrario, i batteri, i tardigradi e anche alcuni crostacei possono passare lunghi periodi di inattività durante i quali non crescono, non metabolizzano, non si modificano in alcun modo, ma non sono tecnicamente morti (un tardigrado può sopravvivere senza cibo né acqua in uno stato di disidratazione per più di 10 anni!).

Come possiamo classificare una singola foglia caduta da un albero? La maggior parte delle persone concorderebbe che una foglia è viva se è collegata a un albero: le sue cellule lavorano instancabilmente per trasformare la luce solare, l’anidride carbonica e l’acqua in alimento. Ma quando si stacca da un albero, le sue cellule non cessano immediatamente le loro attività. Muore quando cade, quando tocca terra oppure quando alla fine sono morte tutte le sue singole cellule? Se si stacca una foglia da una pianta e se ne alimentano le cellule in laboratorio, si tratta di vita?

Rispondere all’ambiente non è una capacità limitata agli organismi viventi: abbiamo progettato innumerevoli macchine che lo fanno. Nemmeno la riproduzione definisce un essere vivente. Molti singoli animali non possono da soli: due gatti insieme sono vivi perché possono generare nuovi gatti, ma uno da solo non è vivo perché non può propagare i suoi geni? Per non parlare di Turritopsis Nutricula, la “medusa immortale”, che può alternare a tempo indeterminato la sua forma adulta e la sua fase giovanile. Questa tremolante gelatina non si riproduce, né si clona o invecchia in modi consueti, ma chiunque sarebbe d’accordo nel considerarla “viva”.

E l’evoluzione? Memorizzare le informazioni in molecole come DNA e RNA, trasmettere queste informazioni alla prole e adattarsi a un ambiente che cambia alterando l’informazione genetica sono certamente capacità uniche degli esseri viventi, per cui molti biologi si sono concentrati sull’evoluzione come caratteristica distintiva fondamentale della vita.

Agli inizi degli anni ’90 del Novecento, Gerald Joyce dello SRI (Scripps Research Institute) era consulente del programma di esobiologia della NASA. Durante le discussioni sul modo migliore per trovare la vita su altri mondi, Joyce e colleghi relatori diedero una definizione operativa della vita ampiamente citata: un sistema in grado di autosostentarsi, capace di evoluzione darwiniana.
È una definizione chiara, concisa e completa. Ma funziona?
Applichiamola ai virus, che hanno complicato più di ogni altra entità la ricerca di una definizione di “vita”. I virus sono essenzialmente filamenti di DNA o RNA impacchettati in un involucro proteico: non hanno cellule o un metabolismo, ma hanno i geni e possono evolvere. Joyce spiega che per essere un “sistema in grado di autosostentarsi”, un organismo deve contenere tutte le informazioni necessarie per riprodursi ed essere sottoposto all’evoluzione darwiniana. A causa di questo vincolo, i virus non soddisfano la definizione: per fare copie di sé stesso un virus deve invadere e conquistare una cellula.

La definizione di lavoro della NASA non è in grado di affrontare l’ambiguità dei virus meglio delle altre definizioni proposte. Un verme parassita che vive nell’intestino di una persona ha tutte le informazioni genetiche necessarie per riprodursi, ma non sarebbe mai capace di farlo senza le cellule e le molecole dell’intestino da cui ruba l’energia per sopravvivere. Allo stesso modo, un virus ha le informazioni genetiche necessarie per replicarsi, ma non ha tutto il macchinario cellulare necessario.
Affermare che la situazione del verme è categoricamente diversa da quella del virus è un argomento debole. Sia il verme che il virus si riproducono e si evolvono solo “nel contesto” dei loro ospiti. Quindi, se usiamo la definizione della NASA per scacciare i virus dal regno della vita, dobbiamo escludere anche tutti i tipi di parassiti più grandi, che includono vermi, funghi e piante.

Definire la vita come “un sistema in grado di autosostentarsi capace di evoluzione darwiniana” ci costringe anche ad ammettere che alcuni programmi per computer sono vivi. Gli algoritmi genetici, per esempio, imitano la selezione naturale per arrivare alla soluzione ottimale di un problema: sono matrici di bit che codificano tratti, evolvono, competono tra loro per riprodursi e si scambiano anche informazioni.
Un altro colpo devastante alla definizione della NASA è arrivato proprio dal laboratorio di Joyce, che, come molti altri scienziati, propende per un’origine della storia della vita conosciuta come “ipotesi del mondo a RNA”, secondo la quale i primi organismi del pianeta si sarebbero basati unicamente sull’RNA, senza l’aiuto del DNA o di un gruppo di proteine enzimatiche. Per verificare l’ipotesi, Joyce e altri ricercatori hanno tentato di creare i ribozimi autoreplicanti che avrebbero potuto esistere nella zuppa primordiale da cui emerse la vita sulla Terra. Insieme a un altro scienziato, Tracey Lincoln, nel 2005 Joyce produsse in laboratorio migliaia di miliardi di sequenze casuali di RNA simile ai primi RNA che possono aver gareggiato fra loro miliardi di anni fa, e isolato le sequenze che, per caso, erano capaci di incollare altri due pezzi di RNA. Affiancando queste sequenze, alla fine hanno prodotto due ribozimi che potevano replicarsi a vicenda all’infinito — almeno finché vi fossero nucleotidi a sufficienza.
Non solo queste molecole di RNA nudo si riproducono, ma possono anche mutare ed evolvere. I ribozimi avevano alterato piccoli segmenti del loro codice genetico per adattarsi alle condizioni ambientali mutevoli, per esempio.

E poi pensiamo a una delle grandi domande senza risposta: «Siamo soli nell’Universo?»…

Per le risposte, in genere funziona così:
Risposta A): “No, assolutamente no. L’universo è enorme, noi non ne siamo al centro né siamo di importanza centrale; e sarebbe il massimo della vanità pensare che l’uomo o la Terra siano speciali o significativi”.
Risposta B): “Forse sì. Non è mai stata trovata una prova valida dell’esistenza di vita extraterrestre, e la nostra galassia è abbastanza vecchia perché eventuali civiltà intelligenti abbiano avuto il tempo di diffondersi ovunque”.

Ognuno di noi perde il conto di quante volte ha avuto questa conversazione. La cosa affascinante è che tendiamo tutti a parteggiare per l’una o per l’altra opzione, difendendola con grande calore. Ma ci sono alcuni aspetti su cui bisogna riflettere. Il “noi” della domanda è un termine ambiguo. Può essere usato sia per intendere “vita tecnologicamente intelligente” (come a noi umani moderni piace pensare di essere, per esempio) sia per intendere “melma”, nel senso della forma di vita microbica unicellulare che è, ed è sempre stata, la maggior parte della materia vivente sulla Terra.
A seconda della definizione di “noi”, le risposte possono cambiare. In realtà, le due posizioni tendono a convergere verso un terreno moderatamente comune, per esempio sostenendo che nel cosmo potrebbe esserci un’abbondanza di vita microbica, che se ne sta sotto forma di melma in qualche anfratto roccioso anziché costruire imperi pangalattici, mentre le forme di vita complesse sono o molto rare (come prevede la “Ipotesi della rarità della Terra”) oppure non si spostano di molto nello spazio interstellare (come previsto dalla “Teoria del Grande Filtro”).

Si tratta di risposte terribilmente insoddisfacenti, e terribilmente influenzate dalla nostra interpretazione degli eventi sulla Terra. Si potrebbe superare l’impasse se riuscissimo a trovare forme di vita con un’origine indipendente altrove, nel Sistema Solare o più lontano, ma questo obiettivo è ancora fuori portata, anche se forse non per molto: considerando l’esplorazione di Marte o le nostre ambizioni di visitare comete e satelliti ghiacciati, sembra davvero che ci stiamo avvicinando allo studio delle opportunità locali di vita. Tenuto conto della soprendente abbondanza di esopianeti scoperti, e del catalogo di tutti i più probabili candidati nelle vicinanze che sarà effettuato da missioni come TESS (Transiting Exoplanet Survey Satellite), potremmo dedicare la prossima generazione di super-osservatori spaziali e terrestri a misurazioni approssimative della proprietà di alcuni potenziali analoghi della Terra.
Questa però è una visione ottimistica. In tutti questi esempi, anche se non trovassimo forme di vita (che si tratti di fossili o di “firme” chimiche), non avremmo eliminato la possibilità che la vita esista in quei luoghi, ma, semplicemente, che non saremmo stati abbastanza bravi da scoprirla.

Così, purtroppo, è assai probabile che tra dieci, venti o cinquant’anni il dibattito sugli alieni ruoti ancora tra A e B. In questo senso, la soluzione di compromesso — la vita microbica potrebbe essere comune, ma la vita complessa no — sembra quindi una risposta accettabile. Ma c’è un problema.
Questa argomentazione si regge in ampia misura sull’idea che la vita complessa pluricellulare sulla Terra, dalle Turritopsis Nutricula agli alberi, esista solamente grazie a una sequenza di eventi molto specifici e scarsamente probabili, che includono il luogo e il modo in cui si è formato il pianeta (con l’acqua, con la tettonica delle placche), la presenza di una grande Luna (che ne mantiene l’asse di rotazione variabile ma non troppo) e una fusione fortuita di due organismi unicellulari, dello stesso grado di complessità, che ha dato origine alla vita eucariotica due miliardi di anni fa.
Di conseguenza, le probabilità che un pianeta abbia prodotto creature come noi è altamente improbabile, e quindi questo non può essersi ripetuto in molti altri luoghi, nemmeno in un universo con centinaia di miliardi di galassie e in quasi 14 miliardi di anni.

Questa però un’interpretazione molto particolare degli eventi fatta a posteriori, chiamata analisi post hoc. Per usare un’analogia, immagina di svegliarti una mattina con lo squillo del telefono. È un lontano cugino che ti chiama per comunicarti il suo nuovo numero. Più tardi, incamminandoti verso il lavoro, un autobus suona il clacson nel traffico, e quando alzi lo sguardo vedi alcune delle cifre di quel numero di telefono sulla sua fiancata. All’ora di pranzo, sotto la tua scarpa si attacca un frammento di giornale con la notizia che la lotteria nazionale avrà un montepremi record. Tornato al lavoro, un collega insiste perché partecipi a una riunione in cui ricorre continuamente la parola “premio”. Sulla via di casa, ti fermi a un’edicola e decidi di acquistare un biglietto della lotteria. La mattina dopo, scopri di aver vinto l’enorme montepremi!

Cosa ne pensi? Il tuo istinto naturale è ripensare al giorno precedente e stupirti di come una serie di eventi improbabili ti abbia portato, passo dopo passo, alla fortunata conclusione: è come se il cosmo avesse cospirato per portarti alla vincita!
In realtà le cose non stanno affatto così. Qualcuno, da qualche parte, avrebbe comunque vinto alla lotteria. E chiunque fosse, in qualunque circostanza, avrebbe avuto gli stessi pensieri. Gli eventi del giorno, della settimana o dell’anno precedenti avrebbero assunto un nuovo significato alla luce del risultato. Sarebbero saltati fuori numeri visti, scelte fatte ed eventi casuali che avrebbero apparentemente condotto all’esito finale.
Naturalmente alcuni di questi eventi erano necessari, ma sarebbero apparsi anche completamente diversi se avesse vinto un’altra persona. Il punto è che è estremamente irrazionale sostenere che quella lunga catena di eventi fosse l’unico modo per arrivare alla vincita.

Questo ci riporta all’idea di “rarità” dello sviluppo della vita sulla Terra. La nostra prospettiva non è diversa da quella del vincitore della lotteria. È facile guardare indietro ai quattro miliardi di anni di evoluzione chimica, geologica e biologica e dire che la comparsa di organismi come noi è altamente improbabile. In realtà, non sappiamo se questo sia vero, e non possiamo saperlo perché non abbiamo informazioni su come siano andate le cose per miliardi di anni, in miliardi di altri mondi nella galassia. In un certo senso, non abbiamo idea di quanti altri biglietti vincenti della lotteria ci sono là fuori nel cosmo, né di come sono stati scelti!

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EX CURSUS 1

Il nostro universo — quello che i Greci chiamavano “cosmo”, il tutto armoniosamente ordinato — è nato 13,8 miliardi di anni fa con un Big Bang, una grande esplosione che ha generato lo spazio e il tempo, le cui cause ancora ci sfuggono. La nostra Terra, invece, che i Greci ponevano fuori dal cosmo in una dimensione di disordine, cambiamento e corruzione, è nata 4,5 miliardi di anni fa. Homo sapiens – «l’occhio con cui l’universo ha imparato a osservare sé stesso», secondo una bella definizione del fisico Victor Weisskopf (a sua volta figlia delle riflessioni filosofiche di Friedrich Schelling, che durante il grande idealismo tedesco poteva pensare che l’uomo rappresentasse il vertice della natura, il punto altissimo dove la realtà prende coscienza di sé stessa) – è nato, per la succitata evoluzione darwiniana, circa 200.000 anni fa.
Se riducessimo questa lunga storia a una sola giornata vedremmo che l’Universo nasce scoccata la mezzanotte, alle ore 0:00; la Terra appare solo a pomeriggio inoltrato (alle 16:12, per la precisione) e l’Uomo negli ultimissimi istanti, alle ore 23:59:58.
Ora seguiamo la sollecitazione del paleontologo e storico e filosofo della biologia Stephen Jay Gould e immaginiamo che la storia di questa giornata cosmica sia un film, di cui possiamo riavvolgere il nastro e poi proiettarlo di nuovo: ebbene, sosteneva Gould, difficilmente alla fine della giornata riapparirebbe l’occhio con cui l’universo possa osservare sé stesso dalla Terra. Difficilmente riapparirebbe Homo Sapiens.
Il motivo, diceva lo studioso americano, è molto semplice. Il nostro numero (inteso come specie) è stato estratto in una grande e irripetibile lotteria. Ce ne fosse stata un’altra, di tombola cosmica, con ogni probabilità sarebbe uscito un altro numero. Non necessariamente abbinato a una specie vivente capace di riconoscere sé stessa e di indagare l’ambiente che la circonda.
Il motivo di questo sano scetticismo statistico è piuttosto semplice: siamo — dove il siamo riguarda non solo la nostra specie, ma anche la Terra, il Sole e persino la galassia — di una piccola e marginale componente di un sistema evolutivo complesso, ricchissimo di elementi e di relazioni tra gli elementi. Relazioni alcune volte armoniose, ma altre volte catastrofiche. L’evoluzione cosmica è tanto ordinata quanto caotica. Frutto, per dirla con Jacques Monod, tanto della necessità quanto del caso.
Alcuni anni fa il medico e biologo Stuart Kauffman, che lavorò alle ricerche sulla complessità, scrisse un libro dal titolo significativo: At home in the universe. Volendo dire che siamo di casa nell’universo. Vi siamo giunti a 2 secondi dalla fine della giornata perché eravamo attesi. In realtà la biologia evolutiva ci dice invece che siamo come dei turisti fai da te che giungono nella hall di un grande albergo e chiedono se c’è una stanza libera. Quei turisti non sono completamente estranei al luogo, ma neppure erano attesi. Ecco, l’uomo è come un turista fai da te che ha trovato un posto nel Grand Hotel Universo.
Cosa questo significhi in pratica ce lo ricorda la cronaca scientifica degli ultimi mesi. Gli scienziati degli esperimenti Ligo e Virgo sono alla infaticabile ricerca delle onde gravitazionali generate, miliardi di anni fa, dai catastrofici impatti di due buchi neri o di due stelle di neutroni. Se anche uno solo di questi scontri tra mostri cosmici fosse avvenuto nelle vicinanze del Sistema Solare, oggi non ci sarebbero né il Sole né la Terra — né noi a raccontarlo.

Ma fermiamoci, per semplicità, alla storia della nostra minuscola casa: meno di un granello di polvere, nell’immensità indifferente del cosmo (per dirla, ancora una volta, con Monod). Anche l’evoluzione del pianeta Terra è quella tipica di un sistema complesso modellata dal caso oltre che dalla necessità. Costellata di ordine, ma anche di immani catastrofi. Un sistema dinamico non lineare estremamente sensibile alle condizioni iniziali che, per chi non è esperto di matematica, è più facilmente rappresentabile evocando la metafora del metereologo Edward Lorenz: basta un battito d’ali in Amazzonia per scatenare una tempesta in Texas.
Lo studio congiunto di paleoclimatologi e di paleontologi ci ha fornito di recente un esempio di questo imprevedibile battito d’ali dagli effetti enormi. Pare che la vita animale sia comparsa sulla Terra 800 milioni di anni fa, grazie a un battito d’ali della geochimica planetaria. Tra i grandi organismi pluricellulari, gli animali si distinguono dalle piante perché possono muoversi e cercare il cibo. Ma per farlo hanno bisogno di energia. E, quindi, di una fonte energetica generosa e facilmente confinabile. L’ossigeno risponde all’esigenza. Proprio 800 milioni di anni fa, a causa di eventi geofisici non ancora ben noti, la concentrazione di ossigeno negli oceani aumenta un poco: dallo 0,1 all’1 o 2% rispetto a quella attuale. Quanto basta per far evolvere organismi pluricellulari in grado di muoversi in maniera autonoma. Si trattava di animali molto piccoli, piatti, dal corpo molle e dai movimenti lentissimi, che vivevano sul fondale degli oceani in uno spazio sostanzialmente in 2D, bidimensionale.

Più tardi, circa 580 milioni di anni fa, la concentrazione di ossigeno negli oceani supera la soglia del 3% rispetto a quella attuale e ciò rende possibile lo sviluppo della “fauna di Ediacara”, composta anche da animali più grandi che hanno riserve di energia sufficiente per nuotare. Grazie al minuscolo battito d’ali dell’ossigeno oceanico, gli animali scoprono lo spazio in 3D.
Passa ancora poco (poco nella scala geologica del tempo) e, intorno a 543 milioni di anni fa, con un altro piccolo battito d’ali, la concentrazione di ossigeno negli oceani supera la soglia del 10% rispetto a quella attuale. Il mare è ancora povero della preziosa molecola, ma tanto basta per consentire l’evoluzione di animali capaci di muoversi con rapidità e di cibarsi con altri animali: nascono i predatori.

È una catastrofe. Sotto quelle giovani fauci la “fauna di Ediacara”, incapace di difendersi, inizia velocemente a ridursi. Ma basta poco ai sopravvissuti per escogitare qualche efficace difesa: alcuni sviluppano un esoscheletro, una dura corazza che protegge dagli attacchi. Inizia così una fantastica corsa alle armi tra prede e predatori, nota come “esplosione del Cambriano”, con cui la vita animale sperimenta strutture le più diverse. È un’esplosione — una creatività — senza precedenti e, soprattutto, senza analoghi posteriori. Nulla di simile era avvenuto prima e nulla di simile è avvenuto dopo: tutti i phila, le grandi architetture della vita, oggi esistenti sono nate nel corso dell’esplosione del Cambriano.

Tutto questo, probabilmente, non sarebbe successo se il battito d’ali fosse stato un po’ meno intenso e la concentrazione dell’ossigeno oceanico fosse rimasta al di sotto della soglia del 10%.
Tuttavia non tutto, nell’evoluzione biologica, è dovuto al caso. Esiste, per esempio, una sorta di legge che sembra (si evidenzia il termine) imporre alla biodiversità di crescere nel tempo in maniera pressoché lineare. Che questa legge esista sembra dimostrato dalle cinque grandi estinzioni di massa (morie nel corso delle quali, in tempi relativamente brevi, sono scomparse almeno il 60% delle specie) che si sono succedute dopo l’esplosione del Cambriano. Nel Tardo Ordoviciano, 430 milioni di anni fa, la prima: scompare all’incirca l’85% delle specie; nel tardo Devoniano, 360 milioni di anni fa, scompare tra il 79 e l’83% delle specie; nel Permiano, 250 milioni di anni fa, si estingue addirittura il 95% delle specie, la “vita” è a un passo dalla fine; ancora, nel Triassico, 200 milioni di anni fa, l’estinzione riguarda l’80% delle specie e, infine, l’ultima grande estinzione, quella del tardo Cretaceo in cui a scomparire è il 70/75% delle specie, dinosauri compresi.

Ebbene, di quasi nessuna di queste grandi estinzioni conosciamo con precisione le cause scatenanti: di tutte, però, conosciamo gli effetti. Sempre, dopo la tragedia, la biodiversità è ritornata rigogliosa e ha ripreso la sua ascesa lineare, ovviamente con nuove specie, come se la grande estinzione non fosse mai avvenuta. Evidentemente per oltre mezzo miliardo di anni la crescita di biodiversità non ha avuto fattori ambientali limitanti. E probabilmente la legge che dopo l’esplosione del Cambriano ha consentito la crescita lineare di biodiversità è una sorta di horror vacui: la “vita” tende a occupare tutti gli spazi disponibili. Come se non ci fosse alcuna distinzione fra — o come se fosse indifferente a — “materia”, disastri, sistemi non lineari, caos, chimica, fisica e quant’altro.

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EX CURSUS 2

Perché lo spazio è proprio tridimensionale? Perché non ha due, quattro o più dimensioni, come nella fantascienza? Di fatto, nella “teoria M” lo spazio ha dieci dimensioni (alle quali va poi aggiunta un’ulteriore dimensione costituita dal tempo), ma si pensa che sette di esse siano “compattate”, cioè arrotolate su sé stesse e ridotte a una grandezza estremamente piccola, e che solo tre siano grandi e quasi piatte. È come per una cannuccia: la sua superficie è bidimensionale, ma una direzione è ripiegata in un piccolo cerchio e così, vista da una certa distanza, la cannuccia sembra una linea unidimensionale.

C’è un che di speciale nello spazio tridimensionale. In tre dimensioni, i pianeti possono avere delle orbite stabili intorno alle stelle. Questa è una conseguenza del fatto che la gravitazione obbedisce alla legge dell’inverso del quadrato, scoperta da Robert Hooke nel 1665 ed elaborata in seguito da Isaac Newton. Pensiamo all’attrazione gravitazionale tra due corpi posti a una determinata distanza. Se tale distanza raddoppia, la forza di attrazione si riduce a un quarto; se la distanza triplica, la forza si riduce a un nono; se quadruplica, la forza si riduce a un sedicesimo e così via. Questo ci porta ad avere delle orbite planetarie stabili. Pensiamo ora a uno spazio con quattro dimensioni: in questo caso, la gravitazione obbedirebbe a una legge dell’inverso del cubo, il che significa che se la distanza tra due corpi raddoppia l’attrazione gravitazionale si riduce a un ottavo, se triplica si riduce a un ventisettesimo e se quadruplica a un sessantaquattresimo. Questo passaggio a una legge dell’inverso del cubo impedirebbe ai pianeti di avere delle orbite stabili intorno alle loro stelle: finirebbero per cadere dentro il loro sole o fuggire per la tangente e perdersi nelle fredde e buie distese dello Spazio. In modo simile, anche le orbite degli elettroni negli atomi non sarebbero stabili, con la conseguenza che la materia come la conosciamo non esisterebbe. Pertanto, anche se l’idea delle “molteplici storie” del Multiverso consentirebbe l’esistenza di universi con un qualsiasi numero di dimensioni quasi piatte, soltanto quelli con tre dimensioni piatte conterranno esseri intelligenti. Solo in queste storie e in questi universi, cioè, ci sarà qualcuno in grado di chiedersi: «Perché lo spazio ha tre dimensioni?», «Che cosa è “vita”?».

L’esperienza comune attesta che, col passare del tempo, le cose diventano più disordinate e caotiche. Questa osservazione empirica trova anche espressione in una precisa legge, la “seconda legge della termodinamica”, la quale afferma che la quantità totale di disordine – o entropia – nell’universo è in continua crescita con il trascorrere del tempo. L’ordine in un particolare corpo può anche aumentare, a patto che la quantità di disordine in ciò che lo circonda aumenti in misura ancora maggiore.
Questo è ciò che accade in un essere vivente, che possiamo anche definire come un sistema ordinato in grado di andare avanti resistendo alla tendenza al disordine e capace di riprodursi
, ossia di creare altri sistemi ordinati simili a lui ma indipendenti. Per fare queste cose, deve convertire l’energia che assimila in qualche forma ordinata (come il cibo, la luce del sole o l’energia elettrica) in energia disordinata, sotto forma di calore; in questo modo soddisfa il requisito in base al quale la quantità totale di disordine aumenta mentre, contemporaneamente, nel sistema stesso (e nella sua discendenza) è l’ordine a crescere.

Un essere “vivente” in senso classico possiede due elementi: un insieme di istruzioni che indicano al sistema come andare avanti e come riprodursi, e un meccanismo in grado di eseguirle. In biologia, queste due parti sono chiamate, rispettivamente, “geni” e “metabolismo”. Vale però la pena ricordare nuovamente che questi due elementi non devono essere per forza “biologici”: un virus informatico, per esempio, è un programma capace di produrre delle copie di sé stesso nella memoria di un computer e di trasferirsi in altri dispositivi: questo basta a soddisfare la definizione di “sistema vivente”. Come nel caso di un virus biologico, si tratta di una forma di vita piuttosto degenere, in quanto contiene soltanto le istruzioni (o i geni) e non ha un proprio metabolismo indipendente, ma riprogramma quello del computer (o della cellula) ospite.

Quello che in genere consideriamo “vita” si basa su catene di atomi di carbonio uniti a pochi altri tipi di atomi, come l’azoto o il fosforo. Possiamo ipotizzare forme di vita che abbiano qualche altra base chimica, come il silicio; di fatto, però, il carbonio sembra essere il più adatto, perché ha la chimica più ricca. L’esistenza stessa degli atomi di carbonio, con le loro specifiche proprietà, dipende da una precisa regolazione di diverse costanti fisiche come la scala della cromodinamica quantistica, la carica elettrica e anche la dimensionalità dello spaziotempo: se queste costanti avessero valori significativamente differenti, il nucleo dell’atomo di carbonio non sarebbe stabile o gli elettroni collasserebbero sul nucleo.

Dato che le probabilità che una molecola di DNA emerga da fluttuazioni casuali sono molto ridotte, qualcuno ha ipotizzato che la vita sia arrivata sulla Terra da qualche altro posto. Si stima che intorno a una stella su cinque ci sia un pianeta simile alla Terra, a una distanza compatibile (detta Goldilocks-Zone, “zona Riccioli d’Oro”) con la vita come la conosciamo.
Ma la precoce comparsa della vita sulla Terra ci suggerisce che, in condizioni adatte, ci sono buone chance che la vita si generi in maniera spontanea. Come abbiamo già appurato, qualcuno ipotizza che forse il DNA si sia basato su qualche forma di organizzazione precedente più elementare; quindi, una volta apparso, ha avuto un successo così grande da portarlo a rimpiazzare completamente i suoi predecessori. Non sappiamo quali siano state queste forme precedenti, ma come detto una possibilità è l’RNA.

Durante la riproduzione del DNA si verificano degli errori casuali, molti dei quali, portando a conseguenze dannose, sono condannati a scomparire. In alcuni casi, le conseguenze sono ininfluenti, ossia non si ripercuotono sulla funzionalità del gene. Un piccolo numero di errori, infine, si dimostra favorevole alla sopravvivenza della specie: questi vengono quindi salvati attraverso il meccanismo darwiniano della selezione naturale.

All’inizio, il processo dell’evoluzione biologica è stato molto lento: ci sono voluti due miliardi e mezzo di anni per arrivare dal DNA e dalle prime cellule agli organismi pluricellulari. Poi, però, è bastato meno di un altro miliardo di anni perché la vita si evolvesse fino ai mammiferi, passando per pesci e rettili. Dopodiché, l’evoluzione sembra aver accelerato ulteriormente il passo: sono occorsi solo cento milioni di anni circa perché dai primi mammiferi si arrivasse a noi esseri umani. La ragione è che i primi mammiferi contenevano già una versione dei nostri organi essenziali: per questo passaggio, quindi, bastava solo qualche piccolo ritocco. Con la razza umana, però, l’evoluzione ha raggiunto uno stadio critico, comparabile per importanza a quello dello sviluppo del DNA. Stiamo parlando del linguaggio (e, in particolare, di quello scritto), che permette di passare l’informazione da una generazione all’altra attraverso una via diversa rispetto a quella genetica. Nel corso dei circa diecimila anni di storia scritta dell’umanità ci sono stati alcuni cambiamenti rilevabili nel DNA umano dovuti all’evoluzione biologica, ma la quantità di conoscenza trasmessa da una generazione all’altra è cresciuta enormemente.

Il DNA degli esseri umani contiene circa tre miliardi di coppie di basi azotate. Tuttavia, gran parte delle informazioni codificate in questa sequenza sono ridondanti o inattive; così, la quantità complessiva di informazione utile presente nei nostri geni corrisponde probabilmente a qualcosa come cento milioni di bit (dove un bit di informazione è la risposta a una domanda di tipo sì/no). Per fare un confronto, un romanzo potrebbe contenere due milioni di bit di informazione; pertanto, un essere umano equivarrebbe a circa cinquanta libri della saga di Harry Potter. Una grande biblioteca nazionale può contenere all’incirca cinque milioni di libri, pari a diecimila miliardi di bit; la quantità di informazione contenuta in questi volumi (magari presenti anche in formato elettronico su internet) supera quindi di centomila volte quella codificata nel DNA umano.

Nel periodo della “trasmissione esterna” (laddove quella genetica è “trasmissione interna”), la scala temporale dell’evoluzione coincide con quella dell’accumulo di informazioni. Una volta quest’ultima si misurava in termini di secoli o anche di millenni, oggi invece si è ridotta a una cinquantina d’anni o anche meno. D’altro canto, il cervello con cui elaboriamo le informazioni si è evoluto solo sulla scala temporale darwiniana, di centinaia di migliaia di anni, il che sta iniziando a causare dei problemi. Nel Diciottesimo Secolo c’era un uomo che si diceva avesse letto tutti i libri mai scritti; oggi, però, anche leggendo un libro al giorno, ci vorrebbero circa quindicimila anni per leggere tutti i volumi contenuti in una biblioteca nazionale (e, nel frattempo, ne verrebbero scritti innumerevoli altri). Questo significa che, nella migliore delle ipotesi, ciascun uomo potrà padroneggiare al massimo una piccola percentuale dello scibile umano. Le persone devono specializzarsi in campi sempre più ristretti, cosa che in futuro costituirà probabilmente un grosso limite. Senz’altro non potremo mantenere a lungo il tasso di crescita esponenziale della conoscenza che abbiamo avuto negli ultimi trecento anni. Un limite e un pericolo ancora più grande per le future generazioni sono dati dal fatto che noi possediamo ancora gli istinti — e, in particolare, gli impulsi violenti — che avevamo ai tempi dei cavernicoli. L’aggressività, manifestata soggiogando o uccidendo altri uomini e prendendo le loro donne e il loro cibo, ha rappresentato fino a oggi un chiaro vantaggio sul piano della sopravvivenza; ora, però, rischia di distruggere l’intera razza umana e gran parte del resto della vita sulla Terra.

Non abbiamo il tempo di aspettare che l’evoluzione darwiniana ci renda più intelligenti e ci dia un’indole migliore. Ma stiamo entrando in una nuova fase, che potremmo chiamare della “evoluzione autoprogettata”, in cui saremo in grado di cambiare e migliorare il nostro DNA. Attraverso la mappatura del genoma umano abbiamo letto il “libro della vita” e possiamo quindi iniziare a inserirvi delle correzioni. All’inizio, questi cambiamenti saranno limitati alla rettifica di qualche difetto genetico come quelli relativi alla fibrosi cistica e alla distrofia muscolare, due patologie che sono controllate da singoli geni e risultano quindi piuttosto facili da identificare e correggere. Altre qualità, come l’intelligenza, sono probabilmente governate da svariati geni e sarà quindi molto più difficile trovarli e decifrare le relazioni che li legano. Tuttavia si può essere certi che nel corso del prossimo secolo si scoprirà come intervenire sia sull’intelligenza sia sugli istinti (come l’aggressività). Probabilmente verranno promulgate delle leggi per impedire l’impiego dell’ingegneria genetica sugli esseri umani, ma qualche scienziato non saprà resistere alla tentazione di migliorare alcune delle caratteristiche umane come la grandezza della memoria, la resistenza alle malattie o la durata della vita. Quando faranno la loro comparsa questi “superumani”, gli umani “non potenziati” non saranno in grado di competere e finiranno — possiamo presumere — per scomparire o essere surclassati. Oppure si verificherà una corsa all’autoperfezionamento e il numero di esseri “migliorati” crescerà sempre di più. Se la razza umana riuscirà a riprogettarsi e a ridurre o eliminare il rischio di autodistruzione, arriverà probabilmente a diffondersi nello Spazio e a colonizzare altre stelle e pianeti. Tuttavia, i viaggi spaziali sulle lunghe distanze rimarranno difficili per le forme di vita come la nostra, basate sulla chimica del DNA. L’arco di vita di questi esseri è infatti breve in rapporto al tempo richiesto per gli spostamenti interstellari. In base alla teoria della relatività, nulla può superare la velocità della luce; di conseguenza, un viaggio di andata e ritorno fino alla stella a noi più vicina richiederebbe almeno otto anni, e uno fino al centro della galassia all’incirca cinquantamila. Nella fantascienza, questa difficoltà viene aggirata con il ricorso a “motori a curvatura” o a passaggi attraverso dimensioni superiori; è però più verosimile che, per quanto la “vita” possa diventare “intelligente”, cose simili non saranno mai possibili. Nella teoria della relatività, se si può viaggiare più veloci della luce si può anche tornare indietro nel tempo, e questo comporterebbe tutta una serie di problemi legati alla possibilità di alterare il passato. Inoltre, se i viaggi nel tempo fossero realizzabili, forse dovremmo incontrare già oggi torme di turisti provenienti dal futuro.

Torniamo per un attimo a un ragionamento già fatto. Quali sono le chance di incontrare una qualche forma di vita aliena durante l’esplorazione della galassia? Se il ragionamento sulla scala temporale per la comparsa della vita sulla Terra è corretto, dovrebbero esserci molte altre stelle i cui pianeti ospitano forme di vita. Ora, alcuni di questi sistemi solari potrebbero essersi formati cinque miliardi di anni prima della Terra: perché, quindi, la galassia non brulica già di forme di vita meccaniche o biologiche in grado di autoprogettarsi? Perché la Terra non è stata ancora esplorata, e magari pure colonizzata? Per inciso, è dura dare credito a chi dice che esseri provenienti dallo Spazio profondo sarebbero già arrivati sulla Terra a bordo di UFO: un’eventuale visita aliena sarebbe molto più eclatante (e forse anche molto più spiacevole). Quindi perché non sono ancora venuti a trovarci? Forse la probabilità che la vita appaia in maniera spontanea è talmente bassa che la Terra è l’unico pianeta della galassia — o magari addirittura dell’universo osservabile — su cui si è generata. Oppure, quand’anche si formassero sistemi in grado di autoriprodursi (come le cellule), è possibile che la maggior parte di queste forme di vita non sviluppino l’intelligenza. Noi siamo soliti considerare la vita intelligente come una conseguenza inevitabile dell’evoluzione, ma chi ci dice che sia davvero così? Il principio antropico dovrebbe metterci in guardia da questo genere di ragionamenti. È più verosimile che l’evoluzione sia un processo casuale, dove l’«intelligenza» è solo uno degli innumerevoli esiti possibili. Non è neppure chiaro, peraltro, se l’intelligenza giochi davvero un qualche ruolo nella sopravvivenza a lungo termine. I batteri e altri organismi unicellulari potrebbero sopravvivere anche se tutte le altre forme di vita sulla Terra venissero spazzate via a causa delle nostre azioni. Forse l’intelligenza rappresentava uno sviluppo improbabile per la vita sulla Terra, visto che, stando alla cronologia dell’evoluzione, ci è voluto tantissimo tempo — due miliardi e mezzo di anni — per passare dalle singole cellule agli esseri pluricellulari, che costituiscono un necessario predecessore dell’intelligenza. Questo periodo rappresenta una porzione non irrilevante del tempo disponibile prima che il Sole inglobi la Terra (10 miliardi di anni), il che confermerebbe l’ipotesi secondo cui ci sono scarse probabilità che la vita si sviluppi fino allo stadio dell’intelligenza. In tal caso, potremmo aspettarci di trovare molte altre forme di vita nella galassia, ma è improbabile che siano “intelligenti”.

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EX CURSUS 3 (il “problema dell’architetto”)

[Integrazione al post, 15 settembre 2019 — Summa di deduzioni e conclusioni tratte da questi quattro testi fondamentali: Richard P. Feynman, “Il senso delle cose”; Carlo Rovelli, “Sette brevi lezioni di fisica”; Stephen W. Hawking, “Le mie risposte alle grandi domande”; Paul Davies, “Uno strano silenzio. Siamo soli nell’universo?”]

La “scienza” dà un senso e uno scopo all’intelligenza. Ne è il frutto migliore.
Quando uno scienziato dice di non sapere la risposta, si rende conto di essere ignorante. Quando dice che ha una vaga idea di cosa succederà, è incerto. Quando è abbastanza sicuro e dice: «Scommetto che andrà così», ha ancora qualche dubbio. Ed è di primaria importanza, ai fini del progresso scientifico, riconoscere il valore di questa ignoranza e di questo dubbio. Il dubbio ci spinge a guardare in nuove direzioni e cercare nuove idee. Il progresso della scienza non si misura solo dalla quantità di nuovi esperimenti, ma anche, molto più importante, dall’abbondanza di nuove ipotesi da verificare. Se non si potesse, o volesse, guardare in nuove direzioni, se non si avessero dubbi, o non si riconoscesse il valore dell’ignoranza, non si riuscirebbero ad avere idee nuove.
Questa libertà di dubitare è fondamentale nella scienza e, credo, in altri campi. C’è voluta una lotta di secoli per conquistarci il diritto al dubbio, all’incertezza: sarebbe utile e importante che non ce ne dimenticassimo e non lasciassimo pian piano cadere la cosa.
Qual è il significato di tutto quanto? Cosa possiamo dire, oggi, intorno al mistero dell’esistenza? Se teniamo conto di tutto, non solo di quanto sapevano gli antichi, ma anche di quello che loro ignoravano e noi abbiamo scoperto, allora credo che l’unica risposta onesta sia: nulla. Ma credo anche che con questa ammissione abbiamo probabilmente fatto un passo nella direzione giusta. Ammettere di non sapere, e mantenere sempre l’atteggiamento di chi non sa quale direzione è necessario prendere, ci dà modo di variare, di riflettere, di scoprire cose nuove e di avanzare nella conoscenza di noi stessi, per riuscire a fare quello che veramente vogliamo, anche quando non sappiamo cosa vogliamo.

All’origine dei problemi che un ragazzo incontra quando intraprende lo studio delle scienze ci sono innanzitutto due cose. La prima è che impara a dubitare, impara che è necessario dubitare, che è giusto dubitare. Quindi inizia a mettere in dubbio qualunque cosa. La domanda che prima poteva essere «Dio esiste o non esiste?» ora diventa «Fino a che punto posso essere sicuro che Dio esiste?». Ora ha un nuovo problema, più sottile. Deve determinare quanto è sicuro, dire a che punto è la sua fede nella scala che va dalla certezza assoluta dell’esistenza divina alla certezza assoluta della non-esistenza, perché ora sa che ogni conoscenza è incerta, e non c’è nulla di cui essere assolutamente sicuri.
Dunque, la seconda fonte del disagio è associata ai fatti — più precisamente, ai fatti parziali — che il ragazzo impara. Per esempio, impara quali siano le dimensioni dell’universo. La grandezza dell’universo è veramente impressionante: noi siamo su una minuscola particella che gira vorticosamente attorno al Sole, uno tra i centomila soli di questa galassia, che è una in un miliardo di galassie (in realtà tali numeri sono prudenziali: la Via Lattea potrebbe contenere da 100 a 250 miliardi di stelle; nell’universo osservabile sono presenti certamente più di 100 miliardi di galassie, e secondo nuove ricerche questo numero risulterebbe più alto di almeno dieci volte). E poi impara quanto sia stretta la relazione tra noi e gli animali, tra le diverse forme di vita, e che l’uomo è solo l’ultimo arrivato sulla scena di un dramma vastissimo in continua evoluzione. Possibile che tutto il resto sia solo lo sfondo alla Sua creazione?
Le stelle sono fatte di atomi, e anche gli animali sono fatti degli stessi atomi, ma combinati in una tale complessità da apparire misteriosamente vivi. Che grande avventura contemplare l’universo, al di là dell’uomo, contemplare come sarebbe senza l’uomo, così com’è stato per quasi tutta la sua lunga storia, e quasi ovunque! Raggiungere finalmente questa visione obiettiva, apprezzando appieno il mistero e la maestà della materia, e poi puntare di nuovo la lente sull’uomo, visto come materia, guardare la vita come parte di questo profondo mistero universale, è un’esperienza rara ed esaltante. Solitamente si conclude in una risata, quando ci si arrende di fronte all’impossibilità di capire che cos’è mai questo atomo dell’universo, questa cosa — un atomo curiosone — che guarda sé stesso e si meraviglia della propria meraviglia.
Le visioni scientifiche finiscono in un senso di mistero, perse al margine dell’incertezza, ma appaiono così profonde e impressionanti da far sembrare la teoria che tutto sia solo un palcoscenico su cui l’uomo si dibatte tra bene e male, con Dio come spettatore, semplicemente inadeguata.

La scienza ha sicuramente un impatto su molte idee legate alla religione, ma non ha alcun effetto rilevante sulla condotta morale e l’etica. La religione risponde a tutta una gamma di domande diverse, ha molti aspetti, e se ne devono sottolineare tre. Il primo è quello che dice chi siamo, da dove veniamo noi e l’universo, cos’è Dio, quali sono le sue caratteristiche e così via. Chiamerò questo l’aspetto metafisico della religione. Poi ci dice come comportarci. Non dico i riti e le cerimonie e cose del genere, intendo il comportamento in generale, in senso morale. Potremmo chiamare questo l’aspetto etico della religione. E infine, l’uomo è debole. Non basta avere coscienza di ciò che è giusto per comportarsi rettamente; sappiamo bene che non sempre agiamo come vorremmo. Uno degli aspetti più potenti della religione è la sua forza ispiratrice: la religione ispira a comportarsi in un certo modo. Ma non solo, dà anche ispirazione all’arte e a molte altre attività umane. Questi tre aspetti, in una visione religiosa, sono strettamente intrecciati. Di solito, la si racconta così: i valori morali sono Parola di Dio, e questo non solo collega l’aspetto metafisico e quello etico, ma è anche fonte di ispirazione, perché se stiamo lavorando per Dio e obbedendo alla Sua volontà ci sentiamo in qualche modo parte dell’universo, le nostre azioni acquistano significato in un mondo più grande, e questo è un principio ispiratore. Quindi i tre aspetti sono intimamente collegati. Il problema è che la scienza in qualche caso entra in conflitto con i primi due, cioè la metafisica e l’etica religiose.
Si scatenò una battaglia furibonda quando si scoprì che la Terra ruota sul suo asse e attorno al Sole; questo non era previsto dalla religione del tempo. Al termine del confronto la religione si ritirò dalle sue posizioni e abbandonò il geocentrismo, ma alla fine della ritirata non ci fu alcun cambiamento nella morale religiosa. Un’altra infuocata discussione fu scatenata dall’ipotesi della nostra discendenza dagli animali. Quasi tutte le religioni si sono, anche questa volta, ritirate dalla posizione metafisica che nega questa possibilità, e il risultato sulla morale è praticamente nullo. Va bene, la Terra ruota attorno al Sole, e allora? Questo ci dice forse se è giusto o non è giusto porgere l’altra guancia?

Ma la scienza non insegna il bene e il male.
In tutto il sapere scientifico raccolto finora non c’è niente, da nessuna parte, che dica se sia giusto «non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te».
Il grande accumulo di sapere sul mondo fisico e le leggi che lo governano sembrano solo dimostrare una sorta di mancanza di senso del suo comportamento.

La conoscenza non ha alcun valore se mi dice solo cos’è successo ieri: è necessario che mi dica cosa succederà domani.
Quando parliamo del Big Bang o della struttura dello spazio, quello che stiamo facendo non è la continuazione dei racconti liberi e fantastici che gli uomini si sono narrati attorno al fuoco nelle sere di centinaia di millenni. È la continuazione di qualcos’altro: dello sguardo di quegli stessi uomini, alle prime luci dell’alba, che cerca fra la polvere della savana le tracce di un’antilope – scrutare i dettagli della realtà per dedurne quello che non vediamo direttamente, ma di cui possiamo seguire le tracce. Nella consapevolezza che possiamo sempre sbagliarci, e quindi pronti ogni istante a cambiare idea se appare una nuova traccia, ma sapendo anche che se siamo bravi capiremo giusto, e troveremo.
Questo è la scienza. La confusione fra queste due diverse attività umane, inventare racconti e seguire tracce per trovare qualcosa, è l’origine dell’incomprensione e della diffidenza per la scienza di una parte della cultura contemporanea. La separazione è sottile: l’antilope cacciata all’alba non è lontana dal dio antilope dei racconti della sera. Il confine è labile. I miti si nutrono di scienza e la scienza si nutre di miti. Ma il valore conoscitivo del sapere resta. Se troviamo l’antilope possiamo mangiare.
In breve, il vero “potere” della scienza è che ci porta a progettare oggetti nuovi di zecca basati sulla comprensione dei principî che li governano.

Chi crede nella scienza, crede che il mondo sia governato da una serie di leggi immutabili. Certo, qualcuno potrebbe affermare che tali leggi sono opera di Dio, ma questa tesi contribuisce più a dare una definizione di Dio che non una prova della sua esistenza.
Ma la cosa davvero importante è che queste leggi fisiche, oltre a essere immutabili, sono universali: non si applicano solo al volo di una pallina, ma anche al moto di un pianeta e a tutto ciò che avviene nel cosmo. A differenza delle leggi fatte dagli uomini, quelle di natura non possono essere infrante; è per questo che sono così potenti e, se considerate dal punto di vista della religione, controverse. Se accettate che le leggi di natura siano fisse, non ci vuole poi molto a chiedersi: quindi qual è il ruolo di Dio?
Potremmo anche definire Dio come la personificazione delle leggi di natura, eppure non è così che lo intendono la maggioranza dei credenti, per i quali, invece, Dio è un essere simile a noi, con il quale è possibile stabilire un rapporto personale. Quando però guardiamo la vastità dell’universo e riflettiamo su come sia insignificante e accidentale la vita umana al suo interno, questa posizione sembra ben poco plausibile.

Possiamo usare le leggi di natura per indagare le autentiche origini dell’universo e scoprire se l’esistenza di Dio sia davvero l’unico modo per spiegarlo.
Nel XX Secolo, mentre la religione — ormai da secoli — non offriva progresso alcuno nella decodifica e comprensione della realtà, la scienza ha fatto tre grandissimi balzi in avanti: Teoria della Relatività, Meccanica Quantistica e Principio di indeterminazione.

A inizio Novecento Einstein ha compreso una cosa straordinaria: che due dei tre principali ingredienti necessari per creare un universo – la massa e l’energia – sono in sostanza la medesima cosa, come due facce della stessa medaglia. La sua famosa equazione E=mc² significa, semplicemente, che la massa può essere considerata come una specie di energia, e viceversa. Così, invece di tre ingredienti — massa, energia, spazio —, ora possiamo dire che l’universo ne ha soltanto due: l’energia e lo spazio.
Il grande mistero al cuore del Big Bang è spiegare come sia possibile che un intero universo di spazio ed energia, di dimensioni inimmaginabili, possa materializzarsi dal nulla. Il segreto sta in uno dei fatti più strani che riguardano il nostro cosmo: le leggi della fisica richiedono l’esistenza di una cosa chiamata “energia negativa”.
Per dare un’idea di questo strano ma cruciale concetto, si può fare una semplice analogia. Immaginiamo che un uomo voglia costruire una collina su un terreno pianeggiante. La collina rappresenta l’universo. Per realizzarla, l’uomo scava una buca e usa la terra che ne ha estratto. Com’è ovvio, però, in questo modo non sta creando solo una collina, ma anche una buca, che rappresenta di fatto una versione negativa della collina stessa. Il materiale che era contenuto nella buca è ora diventato la collina, così i conti tornano perfettamente. Questo è il principio che sta dietro a ciò che è avvenuto all’inizio dell’universo. Quando il Big Bang ha prodotto un’enorme quantità di energia positiva, ha prodotto allo stesso tempo la medesima quantità di energia negativa; in questo modo, il positivo e il negativo si azzerano sempre a vicenda. È un’altra legge di natura. Ma dov’è finita oggi tutta questa energia negativa? Si trova nel terzo ingrediente del nostro ricettario cosmico, ossia nello spazio. Potrebbe suonare strano, ma stando alle leggi di natura che riguardano la gravità e il moto — leggi che sono tra le più vecchie nella scienza — lo spazio stesso è un deposito di energia negativa, grande abbastanza da far tornare i conti.
Cosa comporta quindi tutto questo in merito alla nostra domanda sull’esistenza di un Dio? (E la domanda non è oziosa: ha sempre a che fare con quella di cui discutiamo, «Cosa è “vita”?».) Be’, se l’universo, nel suo complesso, ammonta a nulla, non occorre un Dio per crearlo. L’universo costituisce l’esempio principe di un pasto gratis.

Sapendo che l’energia positiva e quella negativa si azzerano a vicenda, tutto ciò che ci resta da fare è determinare che cosa – abbandonando almeno per un attimo l’idea del “chi” – abbia innescato l’intero processo. Cosa potrebbe aver determinato la spontanea comparsa di un universo?
Nell’istante del Big Bang è accaduto qualcosa di straordinario: il tempo stesso ha iniziato a esistere. Il ruolo giocato dal tempo all’inizio dell’universo costituisce la chiave ultima per rimuovere la necessità di un grande progettista e dimostrarci che l’universo si è creato da solo, e come.

Man mano che viaggiamo all’indietro nel tempo verso il momento del Big Bang, l’universo diventa via via più piccolo, finché non si riduce a uno spazio talmente ridotto da essere, di fatto, un buco nero infinitamente piccolo e infinitamente denso. E, come per gli odierni buchi neri che fluttuano nello Spazio, anche per quel buco nero le leggi di natura stabiliscono qualcosa di straordinario: il tempo deve fermarsi. Non possiamo individuare un tempo precedente il Big Bang per il semplice fatto che prima di esso non esisteva alcun tempo. Abbiamo infine trovato qualcosa che non ha una causa, perché non c’è un tempo precedente in cui tale causa possa esistere.
L’assenza di un tempo nel quale un ipotetico creatore dell’universo possa essere esistito, esclude la possibilità stessa che un creatore ci sia stato. Prima del Big Bang il tempo non esisteva e, di conseguenza, non c’è un tempo in cui “Dio” possa aver plasmato l’universo. È come chiedere da che parte bisogna andare per giungere ai confini della Terra: essendo una sfera, e in quanto tale non avendo confini, cercarli è uno sforzo inutile.

Capire se l’universo avesse avuto o meno un inizio era una questione di grande interesse per il filosofo tedesco Immanuel Kant, il quale riteneva che entrambe le risposte presentassero delle contraddizioni logiche, o antinomie. Se l’universo ha avuto un inizio, perché ha atteso per un tempo infinito prima di iniziare? Questa era quella che chiamava «tesi». D’altro canto, se esiste da sempre, perché ci ha messo un tempo infinito per raggiungere il suo stato attuale? Questa era l’«antitesi». Sia la tesi sia l’antitesi dipendevano dall’argomentazione di Kant (e di molti altri) che il tempo fosse assoluto, ossia si estendesse dall’infinito passato all’infinito futuro indipendentemente dall’esistenza o meno di un qualunque universo. Questa concezione permane ancora oggi nelle menti di molti scienziati. Tuttavia, nel 1915 Einstein ha introdotto la sua rivoluzionaria teoria della relatività generale in cui lo spazio e il tempo non sono più assoluti, non costituiscono più uno sfondo fisso degli eventi, ma sono delle grandezze dinamiche plasmate dalla materia e dall’energia dell’universo. Spazio e tempo sono definiti soltanto all’interno dell’universo, cosicché non ha senso parlare di un tempo prima dell’inizio di tutto. Sarebbe come chiedere di indicare un punto a sud del Polo Sud: qualcosa che, per definizione, non esiste.

Ritorna il puro genio di Einstein: capì che il campo gravitazionale non è diffuso nello spazio, il campo gravitazionale è lo spazio. Questa è l’idea della teoria della relatività generale.
Una semplificazione impressionante del mondo: lo spazio non è più qualcosa di diverso dalla materia, è una delle componenti “materiali” del mondo. Un’entità che ondula, si flette, s’incurva, si storce. Non siamo contenuti in un’invisibile scaffalatura rigida: siamo immersi in un gigantesco mollusco flessibile.

L’altra grande intuizione della scienza del Novecento è la Meccanica Quantistica. Tutti ricordiamo la tavola periodica degli elementi, quella di Mendeleev, che elenca tutte le possibili sostanze elementari di cui è fatto l’universo, dall’Idrogeno all’Uranio, e stava appesa in tante aule di scuola. Come mai sono proprio quelli elencati lì, gli elementi, e come mai la tavola periodica ha proprio questa struttura, con quei periodi, e gli elementi hanno proprio quelle proprietà? La risposta è che ogni elemento è una soluzione dell’equazione base della meccanica quantistica. L’intera chimica emerge da questa singola equazione.
Aggiungiamoci il terzo fondamentale lascito novecentesco, il principio di indeterminazione. Gli elettroni e le altre particelle elementari non esistono sempre. Esistono solo quando qualcuno li guarda, o meglio, quando interagiscono con qualcosa d’altro. Si materializzano in un luogo, con una probabilità calcolabile, quando sbattono contro qualcosa d’altro. I “salti quantici” da un’orbita all’altra sono il loro solo modo di essere reali: un elettrone è un insieme di salti da un’interazione all’altra. Quando nessuno lo disturba, non è in alcun luogo preciso. Non è in un luogo.

Le equazioni della meccanica quantistica e le loro conseguenze vengono usate quotidianamente da fisici, ingegneri, chimici e biologi, nei campi più svariati. Sono utilissime per tutta la tecnologia contemporanea. Non ci sarebbero i transistor senza la meccanica quantistica. Eppure restano misteriose: non descrivono cosa succede a un sistema fisico, ma solo come un sistema fisico viene percepito da un altro sistema fisico. Che significa? Significa che la realtà essenziale di un sistema è indescrivibile? Significa solo che manca un pezzo alla storia? O significa, come è più plausibile, che dobbiamo accettare l’idea che la realtà sia solo interazione?

Elettroni, quarks, fotoni e gluoni sono i componenti di tutto ciò che si muove nello spazio intorno a noi. Sono le “particelle elementari” studiate dalla fisica delle particelle. A queste particelle se ne aggiungono alcune altre, per esempio i neutrini, che pullulano per l’universo ma hanno poche interazioni con noi, e il bosone di Higgs, rilevato recentemente a Ginevra, nella grande macchina del CERN, ma in tutto non sono molte. Meno di una decina di tipi di particelle. Una manciata di ingredienti elementari che si comportano come le tessere di un Lego gigantesco con cui è costruita tutta la realtà materiale attorno a noi.
Queste particelle non sono veri sassolini, sono piuttosto i “quanti” di corrispondenti campi elementari, così come i fotoni sono i “quanti” del campo elettromagnetico. Sono delle eccitazioni elementari, ondine che corrono. Che spariscono e ricompaiono secondo le strane regole della meccanica quantistica, dove ciò che esiste non è mai stabile; non è che un saltare da un’interazione all’altra.
La meccanica quantistica e gli esperimenti con le particelle ci hanno insegnato che il mondo è un pullulare continuo e irrequieto di cose, un venire alla luce e uno sparire continuo di effimere entità. Un insieme di vibrazioni. Un mondo di avvenimenti, non di cose.

Relatività e Quanti sono però in conflitto: la prima funziona solo nelle grandi scale, ma smette di funzionare nell’infinitesimale; viceversa la seconda teoria. Ci dànno due immagini del mondo in completa contraddizione: la mattina, il mondo è uno spazio curvo dove tutto è continuo; il pomeriggio, il mondo è uno spazio piatto dove saltano quanti di energia.
Non è la prima volta che la fisica si trova davanti a due teorie di grande successo apparentemente contraddittorie. Lo sforzo di sintesi è stato spesso premiato in passato con grandi passi avanti nella comprensione del mondo. Newton ha trovato la gravitazione universale combinando le parabole di Galileo con le ellissi di Keplero. Maxwell ha trovato le equazioni dell’elettromagnetismo combinando le teorie elettrica e magnetica. Einstein ha trovato la relatività per risolvere un apparente conflitto fra elettromagnetismo e meccanica. Un fisico quindi è felice quando trova un conflitto di questo tipo fra teorie di successo: è una straordinaria opportunità.
I fisici del Terzo Millennio sono così a caccia della “Teoria del tutto”, la teoria unificatrice di quanto abbiamo scoperto fin qui. E il campo attualmente più promettente è quello della “gravità quantistica a loop”.

L’idea è semplice. La relatività generale ci ha insegnato che lo spazio non è una scatola inerte, bensì qualcosa di dinamico: come detto, una specie d’immenso mollusco mobile in cui siamo immersi, che si può comprimere e storcere. La meccanica quantistica, d’altra parte, c’insegna che ogni campo di tal sorta è “fatto di quanti”: ha una struttura fine granulare. Ne segue subito che lo spazio fisico è anch’esso “fatto di quanti”. La predizione centrale della teoria dei loop è quindi che lo spazio non sia continuo, non sia divisibile all’infinito, ma sia formato da grani, cioè da “atomi di spazio”. Questi sono minuscolissimi: un miliardo di miliardi di volte più piccoli del più piccolo dei nuclei atomici. La teoria descrive in forma matematica questi “atomi di spazio” e le equazioni che determinano il loro evolversi. Si chiamano “loop”, cioè anelli, perché ciascuno di essi non è isolato, ma è “inanellato” con altri simili, formando una rete di relazioni che tesse la trama dello spazio. Dove sono questi quanti di spazio? Da nessuna parte. Non sono in uno spazio, perché sono essi stessi lo spazio. Lo spazio è creato dall’interagire di “quanti individuali di gravità”. Ancora una volta il mondo sembra essere relazione, prima che oggetti.
Ma è la seconda conseguenza della teoria a essere la più estrema. Come sparisce l’idea dello spazio continuo che contiene le cose, così sparisce anche l’idea di un tempo elementare e primitivo che scorre indipendentemente dalle cose. Le equazioni che descrivono “grani” di Spazio e Materia non contengono più la variabile Tempo. Questo non significa che tutto sia immobile e non esista cambiamento. Al contrario, significa che il cambiamento è ubiquo, ma i processi elementari non possono essere ordinati in una comune successione d’istanti. Alla piccolissima scala dei quanti di spazio, la danza della natura non si svolge al ritmo del bastone di un singolo direttore d’orchestra, di un singolo tempo: ogni processo danza indipendentemente con i vicini, seguendo un ritmo proprio. Lo scorrere del tempo è interno al mondo, nasce nel mondo stesso, dalle relazioni fra eventi quantistici che sono il mondo e sono essi stessi la sorgente del tempo.

Gli “anelli” non sono una novità. Prendiamo la “vita” stessa di cui stiamo discutendo (o meglio, la biologia). Il suo meccanismo interno, la chimica di ogni singola parte, è veramente bellissimo; ma non solo, poi si scopre che ogni forma di “vita” è in relazione con ogni altra. Nelle piante c’è la clorofilla, una sostanza molto importante in certi processi che coinvolgono l’ossigeno, e nella molecola di clorofilla c’è un complesso di atomi di forma quasi quadrata: un grazioso anello chiamato “anello porfirinico”. Molto lontano dalle piante nella scala evolutiva troviamo gli animali come noi, e nel nostro sistema di trasporto dell’ossigeno, il sangue, c’è l’emoglobina, che ha gli stessi anelli. C’è il ferro al centro, al posto del magnesio, per cui sono rossi e non verdi, ma sono gli stessi anelli.
E dopotutto sempre di anelli/loop si tratta, quando osserviamo le orbite dei pianeti intorno alla loro stella, o quelle degli elettroni attorno al nucleo dell’atomo. (“Come in alto, così in basso”…)

Sappiamo ricostruire la storia del nostro mondo fino a un periodo iniziale in cui era piccolissimo. Ma prima? Bene, le equazioni dei loop ci permettono di ricostruire la storia dell’universo ancora più all’indietro. Quello che troviamo è che, quando l’universo è estremamente compresso, la teoria quantistica genera una forza repulsiva, con il risultato che il Big Bang, la “grande esplosione”, potrebbe essere stato in realtà un Big Bounce, un “grande rimbalzo”: il nostro mondo potrebbe essere nato da un universo precedente che stava contraendosi sotto il proprio peso, fino a schiacciarsi in uno spazio piccolissimo, per poi “rimbalzare” e ricominciare a espandersi, diventando l’universo in espansione che osserviamo attorno a noi. Ossia, il nostro attuale universo può essere nato dal “rimbalzo” passando attraverso una fase intermedia senza spazio e senza tempo. Il momento del rimbalzo, quando l’universo è compresso in un guscetto di noce, è il vero reame della gravità quantistica: spazio e tempo sono del tutto scomparsi, il mondo è dissolto in una pullulante “nuvola di probabilità”, che le equazioni riescono tuttavia ancora a descrivere.
Se proviamo a mettere insieme quanto abbiamo imparato su mondo fisico ed “esistenza” nel Novecento, gli indizi puntano a qualcosa di profondamente diverso dalle nostre idee istintive su materia, spazio e tempo. La gravità quantistica a loop è un tentativo di decifrare questi indizi e guardare un po’ più lontano. La religione può offrirci qualcosa di anche lontanamente paragonabile?

L’assurda discrepanza tra la futilità della condizione umana e la minacciosa maestosità del cosmo spinge le persone a cercare un significato trascendente che puntelli le loro fragili esistenze.
Per migliaia di anni questo contesto più ampio è stato fornito dalla mitologia e dai racconti tribali: la capacità di coinvolgimento di queste narrazioni forniva agli esseri umani un’àncora spirituale di importanza fondamentale. Tutte le culture rivendicano miti evocativi di altri mondi, dal Tempo del Sogno degli aborigeni australiani alle Cronache di Narnia, dal Nirvana del buddismo fino al Regno dei Cieli cristiano.

Il concetto di tempo lineare, e di un universo creato da un essere razionale e ordinato secondo un insieme di leggi immutabili, fu adottato sia dal cristianesimo sia dall’islam, ed era l’influenza dominante in Europa ai tempi di Galileo. I primi scienziati, profondamente religiosi, vedevano il proprio lavoro come una scoperta del “piano cosmico” di Dio, rivelato attraverso relazioni matematiche nascoste. Ciò che oggi chiamiamo “leggi della fisica” veniva da loro interpretato come “pensieri nella mente di Dio”. Senza la fede in un singolo e onnipotente legislatore razionale è improbabile che qualcuno avrebbe ipotizzato che la natura fosse intelligibile in un modo sistematico e quantitativo, riflesso da forme matematiche eterne. Il metodo scientifico vero e proprio, ai tempi di Newton, era quasi una pratica occulta e veniva applicato dagli scienziati come se si trovassero in una società segreta: scrivere simboli in codice su pezzi di carta, e sottoporre la materia a esperimenti “innaturali” nel sancta sanctorum di uno strano laboratorio è, da qualsiasi punto di vista, una procedura arcana. Ne consegue che, anche se oggi è considerata qualcosa di naturale, quando ha iniziato ad affermarsi la scienza fosse ben poco diversa dalla magia.

La manifestazione più cospicua del secondo principio della termodinamica al lavoro è il modo in cui le stelle, alla fine della loro vita, esauriscono le loro riserve di combustibile nucleare e smettono di bruciare. In un futuro molto lontano non soltanto la luce stellare, ma tutte le forme di energia utile saranno del tutto dissipate. Per un esperto di termodinamica la storia dell’universo è una storia di degenerazione e decadimento inesorabili.
Scrive il chimico Peter Atkins: «Noi siamo i figli del caos e la struttura profonda di una trasformazione è costituita dal decadimento. Alle radici vi è solamente degrado e l’inarrestabile ondata del caos. Non vi è più un fine; tutto ciò che rimane è la direzione. Questa è la desolazione che dobbiamo accettare se guardiamo attentamente e con imparzialità nel cuore dell’Universo».
Eppure dopo il Big Bang — o Big Bounce che fosse — la materia si è aggregata in galassie, che a loro volta si sono differenziate in stelle; sono stati creati gli elementi pesanti, che hanno portato alla formazione di pianeti; i pianeti hanno prodotto rocce e nuvole e uragani e, almeno in un caso, quella che noi pur non sapendola ben definire chiamiamo “la vita”. Partendo da una manciata di semplici microbi, la vita sulla Terra si è diversificata nel corso di miliardi di anni nella straordinaria varietà di forme elaborate che vediamo oggi. Un cosmologo potrebbe preferire descrivere la storia dell’universo come una storia di continuo arricchimento, anziché di degenerazione e decadimento incessanti.
Sembra insomma che sia al lavoro un qualche tipo di “principio sovrastante” (un principio di complessità e organizzazione crescenti) che si applica a ogni cosa: dalla formazione delle galassie all’evoluzione della vita multicellulare.
Come per la fisica e la chimica, tuttavia, decenni di ricerca nei sistemi complessi hanno fallito nello scoprire una “legge del progresso” generale, e hanno trovato soltanto tendenze vaghe ed esempi specifici che coinvolgono circostanze particolari.

Big Bang

Domanda filosofica: siamo liberi di prendere delle decisioni, se il nostro comportamento non fa che seguire le leggi della natura? Non c’è forse contraddizione fra la nostra sensazione di libertà, e il rigore con cui abbiamo ormai compreso si svolgono le cose del mondo?
Se qualcosa in noi violasse le regolarità della natura, l’avremmo ormai scoperto da tempo. Ma non c’è nulla in noi che violi il comportamento naturale delle cose. Tutta la scienza moderna, dalla fisica alla chimica, dalla biologia alle neuroscienze, non fa che rafforzare questa osservazione. La soluzione della confusione è un’altra: quando diciamo che «siamo liberi», ed è vero che possiamo esserlo, ciò significa che i nostri comportamenti sono determinati da quello che succede dentro noi stessi, nel cervello, e non sono costretti dall’esterno. Essere liberi non significa che i nostri comportamenti non siano determinati dalle leggi della natura: significa che sono determinati dalle leggi della natura che agiscono nel nostro cervello. Le nostre decisioni libere sono liberamente determinate dai risultati delle interazioni fugaci e ricchissime fra i miliardi di neuroni del nostro cervello: sono libere quando è l’interagire di questi neuroni che le determina. Questo significa che quando decido sono «io» a decidere? Sì, certo, perché sarebbe assurdo chiedersi se «io» posso fare qualcosa di diverso da quello che decide di fare il complesso dei miei neuroni: le due cose, come aveva compreso con lucidità meravigliosa nel XVII Secolo il filosofo olandese Baruch Spinoza, sono la stessa cosa. Non ci sono «io» e «i neuroni del mio cervello». Si tratta della stessa cosa.

Allo stesso modo non esiste la “vita”: materia e vita sono la stessa cosa.

Un individuo è un processo, complesso, ma strettamente integrato. Quando diciamo che il comportamento umano è imprevedibile, diciamo il vero, perché è troppo complesso per essere previsto, soprattutto da noi stessi. La nostra intensa sensazione di libertà interiore, come Spinoza aveva visto acutamente, viene dal fatto che l’idea e le immagini che abbiamo di noi stessi sono estremamente più rozze e sbiadite del dettaglio della complessità di ciò che avviene dentro di noi. Noi siamo sorgente di stupore per noi stessi. Abbiamo cento miliardi di neuroni nel nostro cervello, tanti quante le stelle di una galassia, e un numero ancora più astronomico di legami e combinazioni in cui questi possono trovarsi. Di tutto questo non siamo coscienti. «Noi», e «Dio», e «Anima», e «Amore», siamo il processo formato da questa complessità, non quel poco di cui siamo coscienti.
«La coscienza è un miraggio che percepisce sé stesso» (Douglas Richard Hofstadter, scienziato e filosofo).

* * *

Perché definire la vita è così frustrante e difficile? Perché scienziati e filosofi hanno fallito per secoli nel trovare una proprietà fisica specifica o un insieme di proprietà che separi nettamente i vivi dagli inanimati?
Perché una proprietà simile non esiste. LA “VITA” È UN CONCETTO CHE ABBIAMO INVENTATO.
Al livello più fondamentale, tutta la materia esistente è una disposizione degli atomi e delle particelle che li costituiscono. Queste disposizioni ricadono in un immenso spettro di complessità, da un singolo atomo di idrogeno a una cosa intricata come il cervello umano.
Nel tentativo di definire la vita, abbiamo tracciato una linea a un livello arbitrario di complessità e dichiarato che tutto ciò che è al di sopra di quel confine è vivo, e tutto ciò che è al di sotto non lo è. Ma questa suddivisione non esiste al di fuori della mente. Non esiste una soglia passata la quale un insieme di atomi diventa improvvisamente “vivo”, non c’è alcuna distinzione categorica tra i viventi e inanimati, nessuna scintilla frankensteiniana.

Non siamo riusciti a definire la vita, in primo luogo perché… non c’è mai stato nulla da definire.
Carol Cleland, una filosofa dell’Università del Colorado a Boulder, che ha trascorso anni a studiare i tentativi di delineare la vita, ritiene che l’impulso di definire con precisione la vita sia sbagliato, ma non è ancora pronta a negare la realtà fisica della vita: «Concludere che non vi è alcuna natura intrinseca della vita è altrettanto prematuro che definirla. Penso che l’atteggiamento migliore sia trattare come criteri sperimentali quelli che sono normalmente considerati criteri definitori della vita».
Criteri sperimentali.
Ciò di cui abbiamo veramente bisogno, ha scritto la Cleland, è «una teoria della vita ben dimostrata e adeguatamente generale». E fa un’analogia con i chimici del XVI Sec.: prima di capire che aria, sporcizia, acidi e tutte le sostanze chimiche sono fatte di molecole, non riuscivano a definire l’acqua. Ne elencarono le proprietà — è umida, trasparente, insapore, congelabile e può sciogliere molte altre sostanze —, ma fu impossibile caratterizzarla con precisione finché molto più tardi non si è scoperto che è formata da due atomi di idrogeno legati a un atomo di ossigeno. «Per avere l’equivalente della teoria molecolare per la vita», dice la Cleland, «sarà necessario un campione più ampio. Finora abbiamo solo l’esempio della vita sulla Terra fondata su DNA e RNA. Immaginate di provare a creare una teoria sui mammiferi osservando solo zebre. Questa è la situazione in cui ci troviamo quando cerchiamo di identificare ciò che rende vita la vita».
Purtroppo è facile discordare con quest’ultima affermazione. La scoperta di vita aliena su altri pianeti amplierebbe indubbiamente la nostra comprensione di come funzionano le cose che chiamiamo “organismi viventi” e di come si sono evoluti, ma non potrebbe aiutarci a formulare una nuova, rivoluzionaria teoria della vita. I chimici del XVI Sec. non riuscivano a trovare ciò che distingue l’acqua da altre sostanze perché non ne conoscevano la natura fondamentale: non sapevano che ogni sostanza è fatta di una specifica disposizione molecolare. Al contrario, oggi sappiamo esattamente di che cosa sono fatte le creature del nostro pianeta: cellule, proteine, DNA e RNA.

Ciò che differenzia le molecole di acqua e le rocce dagli alberi e dalle persone non è la “vita”, ma la terrificante COMPLESSITÀ. Abbiamo già conoscenze sufficienti a spiegare perché quelli che abbiamo chiamato “organismi viventi” possono fare, in generale, cose che la maggior parte di ciò che chiamiamo “inanimato” non può, senza proclamare che la vita è questo e la non-vita quello e che le due cose non si incrociano mai.

Riconoscere che la vita è un “concetto” non deruba del suo splendore ciò che noi chiamiamo vita. Non è che non ci siano differenze sostanziali tra esseri viventi e oggetti inanimati; piuttosto, non troveremo mai una linea di demarcazione netta tra i due perché i concetti di vita e non-vita come categorie distinte sono proprio questo: concetti, non realtà. Ciò che accomuna veramente le cose che definiamo vive non è una loro proprietà intrinseca bensì la nostra percezione di esse (un po’ come nel principio di indeterminazione), il nostro amore per loro e, francamente, la nostra arroganza e il nostro narcisismo.
Prima abbiamo proclamato che tutto sulla Terra può essere suddiviso in due gruppi — gli animati e gli inanimati —, e non è un segreto quale sia quello che riteniamo essere superiore. Poi abbiamo insistito a misurare tutte le altre forme di vita rispetto a noi stessi. Quanto più qualcosa è simile a noi — quanto più sembra muoversi, parlare, sentire, pensare — tanto più per noi è “vivo”. Anche se il particolare insieme di attributi che rende umano un essere umano non è chiaramente l’unico modo (e, in termini evolutivi, neppure il più efficace) per essere una “cosa vivente”.
In verità, ciò che noi chiamiamo vita è impossibile senza — e inseparabile da — ciò che noi consideriamo inanimato. Se in qualche modo potessimo vedere la realtà che soggiace al nostro pianeta — per comprendere la sua struttura su ogni scala simultaneamente, dalla microscopica alla macroscopica —, vedremmo il mondo come un insieme costituito da un numero inenarrabile di granelli di sabbia, una tremolante sfera gigante di atomi (anzi, di vibrazioni che sembrano emergere dal nulla). Proprio come è possibile modellare migliaia di granelli di sabbia praticamente identici su una spiaggia in castelli, sirene o qualsiasi altra cosa si possa immaginare, gli innumerevoli atomi che compongono tutto il pianeta continuamente si riuniscono e si separano, creando un mutevole, incessante caleidoscopio della materia. Alcuni di quei “branchi” di particelle sarebbe quello che abbiamo chiamato montagne, oceani e nuvole; altri sarebbero alberi, pesci e uccelli. Alcuni sarebbero relativamente inerti; altri starebbero cambiando sotto i nostri occhi a velocità inconcepibile e in modi sorprendentemente complessi. Alcuni sarebbero rocce; altri alberi ed erba — e tu che ci passeggi intorno non riesci più a vedere la fatidica linea di demarcazione.


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