Del cazzoliberismo all’americana e del goebbelsismo renziano

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(Questo è un blogpost molto lungo, forse il più lungo che io abbia scritto su questo blog, e molto politico: chi ha da fare, prosegua oltre. Specialmente i tanti — troppi — fans di Matteo Renzi.)

Joseph Goebbels, ministro della propaganda del regime nazista, affermava convinto: «Ripetete una bugia cento volte, mille volte, un milione di volte, ed essa diventerà una verità». Tale tecnica, usata da Goebbels per far passare le bugie del Nazismo, può essere usata per ogni bugia e per far passare come vera qualunque cazzata. E ciò è ancor più… vero oggi, grazie al megafono dei media, dove le battute di agenzia sono una copia carbone dell’altra, e a ruota le relative news.
Non siamo (per fini e modi) a Goebbels ma ci andiamo molto vicini (per toni e risultati) grazie allo strombazzamento mediatico che accompagna ogni uscita del Governo Renzi (e non smetterà mai di meravigliare lo zelo fulmineo con cui le principali testate giornalistiche, le radio e le tv si siano prostrate al nuovo giovane pater della patria, sottolineando ulteriormente, se possibile, l’anomalia del nostro Paese).
Promesse infinite, proclami quotidiani. Sembra quasi che le esternazioni siano strategiche, “per vedere di nascosto l’effetto che fa”: la sparano, osservano, si regolano di conseguenza. Mantenendo sempre e implacabilmente il più stretto riserbo su quali saranno i fondi a sostegno di quanto promesso.
Una sfilza di smargiassate (in stile diverso, ma di analoga volgarità e pericolosità rispetto a quelle dell’anziano predecessore-maestro) amplificate dalla acritica fanfara mediatica: un tale casino di sparate che nessuno capisce più cos’è già legge, cos’è in discussione alle Camere, cos’è intenzione, cos’è annuncio e cosa puttanata pura per far titolo sul Tg1.

Non esiste un settore in cui il governo non abbia annunciato una “riforma epocale” (definizione, peraltro, già usata da un illustre predecessore, Mariastella Gelmini, sappiamo con quali meriti passata alla storia…). Parole in libertà si sono susseguite a sollecitare, lusingare, anestetizzare l’attenzione di un’opinione pubblica che deve necessariamente essere distratta dai dati economici e dalle condizioni individuali e collettive, entrambi deprimenti.
Tanto che a volte viene il dubbio che in fondo ci faccia comodo, Renzi — e le attuali sciocchezze senza troppo fondamento del suo entourage —. Perché con la sua sbruffonaggine copre benissimo il nostro vuoto di idee, di proposte e di persone. Perché è molto più facile esecrare che crescere, condannare fuori che cambiare dentro.

Eppure con un minimo di vaglio critico il “giovane premier” non avrebbe grandi allori dell’ottimismo dei quali fregiarsi. Intanto perché i “proclami” non sono mai accompagnati dalla adeguata copertura finanziaria, come più volte rilevato da Mef e Ragioneria Generale dello Stato (addirittura “l’addetto alla Spending Review”, Cottarelli, il 30 luglio è entrato in crisi denunciando che «si spendono i risparmi sulla spesa prima ancora che siano incassati»).
Non solo. L’unico “evento concreto” dei primi mesi del governo Renzi, i famosi “80 euro”, non ha prodotto nulla.
Le vendite al dettaglio erano e restano ferme registrando una crescita zero, mentre scendono del 2,6% su base annua. Le vendite diminuiscono sia per le imprese della grande distribuzione (-1,3%) sia per quelle operanti su piccole superfici (-3,9%). Tradotto: nemmeno per la spesa di tutti i giorni, quegli 80 euro sembrano serviti a qualcosa. «Molti annunci e pochi provvedimenti. Ecco, in sintesi, un bilancio dei primi sei mesi del Governo insediatosi il 22 febbraio, sui più importanti temi dell’economia e della società. Un dossier preparato dalla redazione», come recita l’incipit di un rapporto capillare del sito Lavoce.info.
La gente non crede affatto che dopo averglieli dati con una mano, quei pur benvenutissimi soldi, il governo (o qualcun altro) non se li riprenda con l’altra.

Una mia vignetta satirica del 9 aprile, al momento dell’esordio della vicenda degli “80 euro”

Lo scenario della prossima restituzione coatta — e con gli interessi — viene intuito nei più svariati modi, che vanno da possibili altre tasse ad aumenti dei prezzi e/o dei costi di cose e servizi (libri di scuola, mezzi pubblici, marche da bollo, tabacchi, etc). Il minimo comune denominatore in ogni caso è: «non li spendo perché tanto poi me li richiedono indietro».
Non è affatto cosa nuova che il concetto di aspettativa e di fiducia incida sull’economia reale, ma qui siamo probabilmente all’applicazione più estrema del fenomeno. Sembra quasi che gli italiani abbiano detto a Renzi: «Okay, in cambio degli 80 euro, se ci tieni tanto, ti votiamo, o comunque non ti rovesciamo il tavolo addosso; ma non è ci crediamo veramente, alle tue ottimistiche fanfaronate, almeno non per ora».
La speranza è che il principio di realtà della Ragioneria di Stato e di milioni di cittadini cominci presto a prevalere sul velleitarismo narcisistico, antidemocratico e demagogico dell’ex sindaco di Firenze. E intanto andiamo a tentare di vedere cosa c’è sotto realmente.

Il successo politico renziano ha origini remote. Scaturisce dalla capacità di fare appello ai sentimenti delle persone, al loro intuito morale. Consiste nella comprensione della psicologia morale degli elettori. Psicologia che, come in tutti gli esseri umani, si regge sulla predominanza delle passioni impulsive sulla fredda razionalità. Come nell’amara riflessione di Medea, nelle Metamorfosi di Ovidio: «Ma un impulso inaudito mio malgrado mi trascina; la passione mi consiglia una cosa, la mente un’altra. Vedo il bene, l’approvo, e seguo il male». Le intuizioni precedono il ragionamento strategico.
Come ormai accertato da numerosi studi statunitensi (lì son maestri), la morale sarebbe questione di pancia, per poi assurgere a costruzione più o meno filosofica, dopo una serie di giustificazioni post-hoc, che tendono ad assecondare la prima impressione. Funziona così anche nel marketing e nella pubblicità, dove la chiamano “assonanza/dissonanza cognitiva”. Una volta scelto il proprio piatto preferito e individuato (intuitivamente) ciò che ci disgusta, la nostra dieta morale (e politica, e consumistica) appare alquanto monotona.
Lo studio più interessante in materia si chiama “Moral Foundations Questionnaire” (o MFQ, rinvenibile a questo indirizzo), che permette di scoprire a quali aspetti della moralità siamo più attenti. L’imponente mole di dati raccolta ha condotto all’individuazione di sei fondamenta della moralità, distinguibili come sei coppie antinomiche: 1) Cura / Danno; 2) Equità / Imbroglio; 3) Lealtà / Tradimento; 4) Autorità / Sovversione; 5) Santità / Degradazione; 6) Libertà / Oppressione. Benché gli esseri umani siano sensibili a ciascuna antinomia, alcuni si rivelano particolarmente sensibili solo a un ristretto numero di esse, mentre altri dispongono di un palato morale più vario.
In sostanza, i cittadini scelgono i politici non sulla base del programma economico che li favorisce di più, né secondo una scelta ideologica ben delineata, bensì seguendo la matrice morale che meglio si addice loro. Detto in altro modo, prevale il candidato capace di titillare al meglio le papille gustative morali degli elettori nel modo più variegato e incisivo al tempo stesso.
Un esempio? Le note difficoltà incontrate dai Democratici negli USA durante l’era Bush jr. furono dovute all’incapacità di catturare l’attenzione degli elettori facendo appello alle sei fondamenta morali: battendosi spesso per la medesima categoria di battaglie — diritti civili e lotta alle diseguaglianze —, i Dem americani dimenticarono di presidiare le altre aree, rimaste appannaggio dei rivali. L’avvento di Obama sarebbe coinciso con la ritrovata sensibilità verso temi cari ai Repubblicani nel recente passato.

Noi italiani ne sappiamo qualcosa. Negli ultimi anni, il responso delle urne non è mai stato particolarmente tenero nei confronti dei partiti che hanno concentrato i propri sforzi nel portare avanti singole cause, omettendo di trasmettere agli elettori una visione del mondo e valori olistici. Si pensi a tematiche come la Green Economy, la concorrenza, il problema dei clandestini: per quanto cause più o meno nobili, esse sono riconducibili soltanto a una o due fondamenta morali. I partiti che puntano tutto su un obiettivo — o su temi differenti ma ascrivibili alle stesse fondamenta — difficilmente superano certe soglie di consenso. Solo chi si impegna con i cittadini per battaglie che stimolano tutti e sei i recettori morali può aspirare a ottenere i numeri per governare il Paese.
Peraltro la lezione di Obama, negli Stati Uniti, pare non essere stata compresa fino in fondo dalla maggior parte dell’establishment europeo, che tende a subire passivamente l’ondata di populismo e malcontento che serpeggia tra i cittadini-elettori. Il risentimento, oltre che essere legato a ragioni meramente economiche o materiali, che pure sono drammatiche, appare legato alla rottura definitiva del rapporto fiduciario tra cittadini e politica tradizionale, basato su una matrice morale prima ancora che economica. Da qui il favore riscosso da chi cavalca l’onda del populismo: leader di una rivolta morale, propugnatori di risposte altisonanti sulla carta e avide di rivalsa moralizzatrice, ma scevre di consistenza pratica (la pars construens, ossia la proposta di cooperazione verso la ricostruzione di un patrimonio pubblico fisico e morale). Qui da noi: il Movimento 5 Stelle.

Chi pare invece aver imboccato una strada diversa è il premier italiano, Matteo Renzi. Obamiano più nei modi che nei contenuti, pur non conoscendo forse le sei fondazioni morali, egli sembra avere la magica sapienza di toccare tutte le corde giuste: dai famosi 80 euro per determinati ceti meno abbienti, ricollegabili alle fondamenta legate a equità e cura per gli altri, ai costanti richiami all’unità europea e all’orgoglio nazionale (Lealtà), alla lotta alla burocrazia opprimente (Libertà), passando per la rottamazione (Autorità/Sovversione) e, infine, per i riferimenti al papa e ai valori occidentali (Santità) — questi ultimi emersi, in particolare, nel recente discorso al Parlamento Europeo a Strasburgo —. In Renzi ci sono tutti gli ingredienti per accattivare gli elettori di matrice morale “moderata”. Stimolare l’attivazione dei sei recettori morali permette di catturare il numero di elettori più ampio possibile, nell’ambito del pubblico target (cioè di quello che si riconosce nella matrice morale di riferimento).
Lo stile di vita dell’ultimo decennio, dominato dall’avvento dei social media e della comunicazione (commerciale e politica) istantanea, ha strizzato un occhio alla nostra parte istintiva, mettendo in risalto sempre più le passioni immediate, momentanee e lasciando sullo sfondo il ruolo fondamentale del “pensiero lento”.
In attesa del momento di riequilibrare l’analisi, anche in politica, e di salvaguardare gli spazi dedicati alla pianificazione e agli investimenti di lungo periodo, sfuggendo al vorticoso succedersi di cinguettii dell’era di Twitter, il “simpatico giovane premier” coniuga alla perfezione (chissà quanto solo istintivamente?) le sei fondazioni morali e gli strumenti del suo tempo (vedi la smodata pratica di lanciare “hashtag”), e per ora riesce ad allungare ben oltre il fisiologico limite dei 100 giorni la sua “luna di miele” con l’elettorato.
È in questo che Renzi somiglia di più a Berlusconi, dando il la a battute e vignette virali che li ritraggono uno fuoriuscito dall’altro: nella capacità intuitiva di saper solleticare il maggior numero di elettori, accompagnando questa capacità con una padronanza dei “mezzi del proprio tempo” (per Berlusconi l’era della tv e delle televendite, per Renzi i social network e l’informatica).

In fondo lo dice pure la Scienza. È la naturale tendenza dell’uomo a formare un gruppo, a sentirsi parte integrante della compagine a tal punto da sublimare il proprio io in quello della nuova unità, più grande e costituita da atomi collegati tra loro da un vincolo improvvisamente indissolubile. Tale spirito di gruppo è l’ingrediente chiave per permettere la cooperazione tra esseri umani, e sarebbe una delle variabili fondamentali che hanno permesso all’Uomo di distinguersi tra gli altri mammiferi e avere il sopravvento nella competizione evoluzionistica.
Il meccanismo dietro a tale miracolo quotidiano è più potente di quanto si possa immaginare: a livello neurale, osservare una persona sorridere attiva le stesse popolazioni di neuroni come accade quando lo stiamo facendo noi. Si parla, in questo caso, di neuroni “a specchio”, i neuroni dell’empatia. Di converso, proviamo un’emozione negativa (e un’attivazione neurale corrispondente) quando vediamo una persona che coopera e fa del bene agli altri subire una punizione. L’empatia al potere: non stupisce che i film strappalacrime abbiano tanto successo. Il processo empatico, tuttavia, non è incondizionato: si attiva adeguatamente solo se chi ci sta davanti ha aderito alla nostra matrice morale. Il gruppo, oltre a stimolare la cooperazione per rendere possibili obiettivi impensabili per il singolo, fungerebbe anche da controllore morale, che spingerebbe il singolo a un comportamento consono alle regole di buona convivenza e lo spronerebbe a dare il massimo delle sue possibilità.
La “luna di miele” con l’elettorato è empatia neuronale pura, dunque.
Eppure si è instaurata in un Paese letteralmente a pezzi…

TASSE, POVERTÀ, SUD, E UNA GENERAZIONE CONDANNATA

L’Italia di Renzi non è l’America di Obama: è avvilita e avvitata in una infame spirale che non sembra mostrare spiragli e appigli. Perversione che non inizia nel 2008 con la fatidica “crisi mondiale” ma viene da molto più lontano.
Il primo dato che salta all’occhio è la situazione della Sicilia, dove dal 2011 le persone a rischio povertà sono più di quelle che stanno “bene”: superata la soglia del 50%, è questa, ormai da anni, la regione in cui la situazione è più grave. Due milioni e settecentomila persone su un totale di cinque milioni. In altre aree del Meridione le cose sono meno negative ma in pochi anni sono peggiorate in maniera notevole. In Puglia e Molise, per esempio, nel 2009 a rischiare la povertà era circa il 35% della popolazione: valori che oggi sono aumentati rispettivamente di 7,8 e 9,6 punti percentuali.
Riprendere in mano la “questione meridionale” dovrebbe essere il primo impegno di ogni governo, e, peraltro, non significherebbe riproporla nei termini “gramsciani”: è passato quasi un secolo e la depressione politica del Mezzogiorno non s’identifica più nel potere della classe agraria e nella sua alleanza subalterna con la borghesia industriale del Nord, ma nel potere di una borghesia mafiosa, e nello scambio tra il voto elettorale che essa garantisce al governo centrale e le risorse finanziarie che riceve tramite quello, e che gestisce attraverso i governi locali. Questa borghesia politica è legata alla mafia militare, quella dei Provenzano e dei Riina, in un rapporto dialettico che comporta tensioni e conflitti, ma che resta indissolubile: il che spiega l’eterna risorgenza delle mafie dopo i colpi anche durissimi che esse subiscono dall’apparato giudiziario e militare dello Stato.

I “giovani” in vent’anni hanno perso quasi tutto, tanto che ormai c’è un solo termine a identificarli socialmente, questa parola d’altri tempi che sembra uscita da un documentario in bianco e nero di persone mal vestite che s’imbarcano su una grande nave, dirette all’altro capo del mondo: «povertà». Oggi le cose sono molto diverse e si può essere poveri anche con il telefonino in tasca: basta non avere di che provvedere in maniera autonoma per sé e la propria famiglia.
Dal 2006 gli unici redditi relativi (cioè rispetto alla media italiana) a crescere sono quelli di chi ha più di 55 anni. La disuguaglianza fra giovani e anziani diventa ancora più evidente se guardiamo alla ricchezza. Da un lato questo non deve sorprendere troppo: lavorando per dieci, venti o trent’anni in più si ha tempo per mettere da parte il proprio denaro — magari comprare una casa che da sola costituisce buona parte della ricchezza degli Italiani —. Ma quand’è che troppo diventa troppo? Impressiona il calo nella ricchezza relativa dei giovani: dal 1991 è diminuita del 76%, mentre quella degli over 65 è aumentata di oltre il 50%. Anche i quarantenni se la passano tutt’altro che bene, con una perdita del 44%. Certo, reddito e ricchezza degli anziani in qualche modo tornano indietro ai più giovani: ma dirlo in questo modo è assolutamente fuorviante. Perché nasconde il fatto che ci sia un’intera generazione fondata sulla carità e la paghetta del babbo e del nonno: ingeneroso chiamarli “bamboccioni”, dal momento che non hanno alcuna possibilità di avere altri introiti. Una intera generazione “vuoto a perdere”.

Uno dei dati macro più evidenti è poi il disastro prodotto dai localismi.
Le Regioni furono istituite a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta: ma già nell’immediato dopoguerra alcune grandi figure mai abbastanza rimpiante, da Nitti a Togliatti, ammonivano sui pericoli dell’ordinamento regionale per la stessa sopravvivenza dello Stato italiano. Nitti per esempio non si limitò soltanto a raccomandare alle forze politiche di non abbandonare la Repubblica nelle mani degli interessi locali che avrebbero finito per dissolvere lo Stato: mise in luce l’impossibilità delle finanze italiane di sostenere le spese delle Regioni dimostrando, cifre alla mano, che esse avrebbero portato l’Italia al dissesto. La moltiplicazione e la contestuale deresponsabilizzazione dei centri di spesa ha fatto saltare i conti dello Stato, contribuendo decisivamente alla edificazione del terzo Debito Sovrano del mondo.
Il Federalismo, la promessa panacea dei mali economici italiani, cavallo di battaglia e fondamento della Lega Nord da 20 anni, ha miseramente fallito. Tanto che dal 1997 c’è stato un boom delle tasse locali (+190,9%), mentre quelle centrali sono aumentate “solo” del 42,4%. Tra il 1997 e la fine del 2014, secondo la CGIA di Mestre le entrate fiscali aumenteranno del 52,7%. Sempre tra il 1997 e il 2014, i tributi centrali (che attualmente corrispondono al 78% del gettito totale) sono aumentati del 42,4% (in termini assoluti pari a 112 miliardi) per toccare alla fine di quest’anno quota 376,4 miliardi. I tributi locali, invece, sono praticamente “esplosi”: +190,9% (pari, in termini assoluti, a +69,5 miliardi di euro), con un gettito che nel 2014 sfiorerà i 106 miliardi di euro.
Il decentramento di parte delle funzioni pubbliche dallo Stato centrale alla periferia, avviato alla fine degli Anni ’90, non è riuscito a frenare la spesa pubblica, che invece ha continuato a crescere in misura superiore alle entrate, nonostante gli sforzi e l’impegno profuso. Mentre nei Paesi federali consolidati come Spagna, Germania e Austria, il costo complessivo della macchina pubblica è circa la metà dei Paesi unitari, da noi, che siamo ancora a metà del guado, le uscite sono in costante crescita e hanno spinto all’insù anche le entrate. Il risultato è che abbiamo continuato a spendere sempre di più, sia al centro sia in periferia, e per far quadrare i conti siamo stati costretti a subire un progressivo aumento del prelievo fiscale.

E se dai localismi saliamo agli europeismi (e poi da lì ai mondialismi), il quadro collassa ancor più drammaticamente.
Dopo sei anni di austerità, precarizzazione e disoccupazione, a Bruxelles e/o a Berlino ci si è accorti di avere esagerato. E che si rischia di far crollare tutto, di far cadere a pezzi l’intero sistema. E in questi casi, da che mondo è mondo, si fa così: si dà una “mancia” per vedere che succede. Se basta a calmare le acque. E più in là si vede se questa dazione si può togliere. O ridurre. O se, al contrario, le tensioni sociali saranno tali da doverla aumentare, o estendere ad altre fasce di popolazione. Tanto, come dimostrato da Draghi e dalla Merkel e da Mario Monti, quando serve (leggi: salvare le banche), i soldi miracolosamente spuntano fuori. Ecco. L’Europa. Le banche. La Finanza. La Troika… Ma la gente? Le persone?

E al di là dell’Oceano Atlantico è peggio. La crisi del 2008 è partita perché da anni la carta stava producendo altra carta senza che ci fosse dall’altra parte un corrispettivo reale, e avevamo (tutti quanti, ma in modo particolare gli Americani) smesso di produrre ricchezza vera, limitandoci a consumare senza effettivi bisogni e — soprattutto! — senza avere il denaro per pagare; i magazzini delle merci si sono gonfiati di beni non necessari, e gli Stati — cioè noi — si sono indebitati di 12 volte rispetto al famoso “corrispettivo reale”.
Come mai negli ultimi anni tutti i Paesi industrializzati hanno accumulato debiti pubblici sempre più consistenti, fino a raggiungere nel 2010 valori che vanno da un minimo dell’80% del prodotto interno lordo nel Regno Unito al 225,8% in Giappone? Nell’Eurozona, nel corso del 2010 il rapporto Debito/PIL è salito dal 79,3 all’85,1%. Eppure il “patto di stabilità” firmato dai Paesi dell’Unione Europea nel 1999 fissava al 60% la soglia massima di questo rapporto. E ancora: perché gli Stati e le amministrazioni locali spendono sistematicamente cifre superiori ai loro introiti? Perché il sistema bancario induce le famiglie a spendere cifre superiori ai loro redditi?
Alla risposta ci si arriva d’intuito, conoscendo i meccanismi del “consumismo”: perché la sovrapproduzione di merci ha raggiunto un livello tale che se non si acquistasse a debito, crescerebbe la quantità di merci invendute e si scatenerebbe una crisi in grado di distruggere quel sistema economico e produttivo fondato sulla crescita infinita del PIL, inventato dagli Americani. L’American Way of Life consuma(va) a spese del resto del mondo. Ma il resto del mondo per indebitarsi ora dovrebbe sperare nell’esistenza di investitori extraterrestri.
Proprio nel tentativo di far ripartire la crescita e aumentare il PIL, negli ultimi anni in Italia è stata finanziata la rottamazione delle automobili, sono state concesse agevolazioni fiscali per la costruzione di nuove case, sono stati dati incentivi all’installazione di impianti a fonti rinnovabili senza porre vincoli a favore degli autoproduttori né della tutela ambientale, è stata deliberata la costruzione di opere pubbliche tanto costose quanto inutili.
Ciononostante, gli incrementi della spesa pubblica in deficit non hanno mai riavviato la crescita (come del resto in tutti gli altri Paesi industrializzati), né hanno diminuito la percentuale dei disoccupati, che anzi è aumentata a livelli record. Insomma, abbiamo speso denaro pubblico, abbiamo aumentato il Debito e non abbiamo ottenuto nulla.
Per quale ragione gli stimoli forniti alla ripresa economica attraverso la spesa pubblica non hanno dato i risultati attesi? Perché nei Paesi industrializzati lo sviluppo tecnologico ha determinato un eccesso di capacità produttiva che cresce di anno in anno. Macchinari sempre più potenti producono in tempi sempre più brevi quantità sempre maggiori di merci con un’incidenza sempre minore di lavoro umano per unità di prodotto. Per questo la disoccupazione aumenta invece di diminuire, cosa che nella UE nessuno sembra capire.

La copertina di “End of Empire”, il duro pamphlet (ebook in vendita su Amazon) con cui due anni fa denunciai i veri motivi della “crisi mondiale”

Inoltre queste tecnologie sono molto costose, e per pagarle le aziende si orientano sempre più verso la finanza; in più i macchinari non possono rimanere fermi, perché ne deriverebbero forti danni economici in termini di ammortamento dei capitali e di mancati guadagni: devono lavorare a pieno regime, e tutto ciò che producono deve essere acquistato anche se non ce n’è bisogno. Quindi le tecnologie accrescono l’offerta di merci in misura superiore alla crescita della domanda e ciò comporta una diminuzione dell’occupazione, la diminuzione dell’occupazione riduce ulteriormente la domanda. Perciò in queste condizioni perverse l’unico modo per incrementare la domanda è l’indebitamento.
Gli USA stanno barando a un “tavolo truccato” planetario nella speranza che il declino del loro impero sia reversibile: la ‘Fed’ stampa tutti i dollari che vuole, senza copertura (altri “assegni scoperti”), ne rifornisce le sue banche, le quali a loro volta armano gli speculatori (i vari Soros di Wall Street) che mirano — con il beneplacito di Washington — a distruggere l’Euro e a preservare il Sogno Americano. L’Euro è una moneta che invece si basa sull’economia reale: la BCE non può stampare denaro.
È una guerra impari, Dollaro contro Euro. Allo stato attuale delle cose, o Tedeschi (dominatori rigoristi dell’Europa) e Americani (fino a oggi dominatori scialacquatori del mondo) capiscono che non si arriva da nessuna parte, e che bisogna fermarsi e tirare una linea (una linea che dica «Alt!, i debiti non si possono pagare, il pianeta è in default, quindi TUTTO il debito è carta straccia»), oppure andremo avanti a distruggere i popoli occidentali, precipitando in un nuovo Medioevo.
E dire che tutto questa insensata competizione fra i due sistemi occidentali avviene mentre l’Occidente intero sprofonda in una pericolosissima crisi d’identità. Mirabilmente esplicitata da queste parole di Ezio Mauro, che — me ne scuso con il lettore già estenuato dalla mia logorrea — ritengo di dover citare per intero:

(…) Per tutto il breve spazio “di pace” che va dalla caduta del Muro all’11 settembre abbiamo lasciato deperire nelle nostre stesse mani il concetto di Occidente, mentre altri lavoravano per costruirlo come bersaglio immobile. Lo abbiamo svalutato come un reperto della Guerra Fredda e non come un elemento della nostra identità culturale, istituzionale e politica, quasi che fossimo definiti soltanto dall’avversario sovietico, e solo per lo spazio della sua durata. Anche gli scossoni geografici nell’Europa di mezzo, seguiti alla caduta del blocco sovietico, e le proposte di allargamento dell’Unione sono stati gestiti con parametri più economici, di mercato e di potenza che ideali. Quel pezzo di Occidente che si chiama Europa è sembrato a lungo incapace di avere un’idea di sé che non nascesse per differenza dal confronto con il comunismo orientale, e quando il sovietismo è caduto è parso in difficoltà a definirsi, a concepirsi come la terra dov’è nata la democrazia delle istituzioni e la democrazia dei diritti. Qui sta la ragione della comunità di destino — e non solo dell’alleanza — con gli Stati Uniti, e stanno anche le ragioni specifiche che l’Europa porta in questa intesa, il rispetto degli organismi internazionali di garanzia e delle regole di legalità internazionale, che per un’alleanza democratica (anche quando è guidata da una Superpotenza) valgono sempre, anche quando è sotto attacco: perché la democrazia ha il diritto di difendersi, ma ha il dovere di farlo rimanendo se stessa.

Oggi noi dobbiamo vedere (se non fosse bastato l’11 settembre) che non è l’America soltanto il bersaglio, ma è questo nostro insieme di valori e questo nostro sistema di vita, fatto di libertà, di istituzioni, di controlli, di regole, di parlamenti, di diritti. E contemporaneamente, certo, di nostre inadeguatezze, miserie, errori, abusi e violenze, perché siamo umani e perché la tentazione del potere è l’abuso della forza. Ma la differenza della democrazia è l’oggetto dell’attacco, il potenziale di liberazione e di dignità e di uguaglianza che porta in sé anche coi nostri tradimenti, e proprio per questo il suo carattere universale, che può parlare ad ogni latitudine ogni volta che siamo capaci di comporre le nostre verità con quelle degli altri rinunciando a pretese di assoluto, ogni volta che dividiamo le fedi dallo Stato, ogni volta che dubitiamo del potere – sia pur riconoscendo la sua legittimità – e coltiviamo la libertà del dubbio.

Hanno il terrore di tutto questo, nonostante la nostra testimonianza infedele della democrazia e il cattivo uso delle nostre libertà. Lo ha Putin, con la sua sovranità oligarchica. E lo ha radicalmente l’ISIS. Ma noi, siamo in grado di difendere questi nostri principi e di credere alla loro universalità almeno potenziale, oppure siamo disponibili ad ammettere che per realpolitik diritti e libertà devono essere proclamati universali in questa parte del mondo, ma possono essere banditi come relativi altrove? In sostanza, siamo disposti a difendere davvero la democrazia sotto attacco?

La sfida è anche all’interno del nostro mondo. Perché nell’allontanamento dalla politica e dalle istituzioni dei cittadini dell’Occidente c’è la sensazione che siano diventate strumentazioni inutili di fronte alla grande crisi economica e alle crisi locali aperte nel mondo. E che la stessa democrazia oggi valga soltanto per i garantiti, lasciando scoperti dalle sue tutele concrete gli esclusi. La somma delle disuguaglianze sta infatti facendo traboccare il nostro vaso: sono sempre esistite, nella storia dei nostri Paesi, ma erano all’interno di un patto di società che prevedeva mobilità sociale, opportunità, libertà di crescita e questo teneva insieme i vincenti e i perdenti del boom, delle varie congiunture, dello sviluppo, della globalizzazione. Oggi si è rotto il tavolo di compensazione dei conflitti, il legame sociale tra il ricco e il povero, la responsabilità comune di società. Tra i precari fino a quarant’anni e licenziati di 50, produciamo esclusi per i quali la democrazia materiale non produce effetti: e perché per loro dovrebbe produrne la democrazia politica, la partecipazione, il voto?

Contemporaneamente, una parte sempre più larga di popolazione ha la sensazione davanti alle crisi che il mondo sia fuori controllo. E cioè che il sistema di governance che ci siamo dati faticosamente e orgogliosamente nel lungo dopoguerra si sia inceppato, e non produca governo dei fenomeni in atto. Per la prima volta si blocca quello scambio tra il cittadino e lo Stato fatto di libertà e diritti in cambio di sicurezza. Ci si sente cittadini dentro lo Stato nazionale, ma si percepisce che lo Stato-nazione non controlla più nessuno dei fenomeni che contano nella nostra epoca, non ha prodotto istituzioni e democrazia in quello spazio sovranazionale dei flussi finanziari e informativi dove non per caso la nostra cittadinanza – il nostro esercizio soggettivo di diritti – è puramente formale. Delle istituzioni sovranazionali a noi più vicine – la UE – sentiamo nitidamente il deficit di rappresentanza e quindi di democrazia. Portiamo in tasca una moneta comune senza sapere qual è la faccia del sovrano che vi è impressa, senza un’autorità capace di spenderla politicamente nelle grandi crisi del mondo, senza un esercito che la difenda. Alla fine dell’Europa sentiamo il vincolo, certo, ma non la sua legittimità.

La stessa America, che doveva essere la Superpotenza superstite al Novecento e dunque egemone, avverte la crisi della sua governance proprio quando l’elezione di Obama aveva dispiegato tutta l’energia democratica di quel Paese, come se quel voto avesse avvertito la coscienza dell’ultimo limite (la differenza razziale come impedimento ad un pieno dispiegamento dei diritti) e la necessità infine di superarlo. Ma nel momento in cui spezzando l’unilateralismo bushista Obama, dopo aver offerto invano il dialogo all’Islam, porta l’America fuori dalle guerre sul terreno, chiudendo un’epoca, la democrazia americana si scopre disarmata e in difficoltà a tradurre la sua forza in politica, e vede Mosca riarmarsi e Pechino lucrare vantaggi competitivi all’ombra delle crisi che investono direttamente Washington.

Il Califfato appena proclamato tra Siria e Iraq non ha ancora un vero Stato, una capitale, un sistema di relazioni, ma ha un pugnale puntato alla gola di uomini scelti per simboleggiare nel loro martirio individuale una sorta di sfida universale, che va addirittura oltre lo spettacolo di morte dell’11 settembre. La morte sceneggiata come messaggio estremo alla potenza americana, sotto gli occhi di tutto il mondo, rito primitivo del fanatismo religioso e marketing modernissimo del deserto. Nella sproporzione assoluta tra l’inermità innocente del prigioniero e la potestà totale del suo assassino (uno squilibrio miserabile, che esiste soltanto fuori dallo Stato di diritto, dai tribunali, dalle garanzie e dai diritti) si radunano i simboli e le vendette per la guerra del Kuwait dopo l’invasione di Saddam, la caccia ad Al Qaeda in Afghanistan con la ribellione all’attacco contro le Torri, la guerra in Iraq, ma anche la sfida islamista tra ciò che resta di Al Qaeda e l’ISIS, lo Stato Islamico, una partita aperta per l’egemonia politico-religioso-militare del fanatismo. Costruire sul terrore il Califfato significa soprattutto cancellare ogni rischio di contagio democratico anche parziale nei Paesi islamici, ogni istituto prima ancora di ogni istituzione, in nome di quell’«isolazionismo» che Bin Laden predicava e minacciava per cacciare dalla penisola musulmana “i soldati della croce”, con i loro “piedi impuri” sui luoghi sacri. Il nemico definitivo è dunque chiaro: l’Occidente.

È come se stessimo testando il confine della democrazia, quasi non riuscisse più a produrre rappresentanza, governo e istituzioni capaci a rispondere alle esigenze dell’epoca. Come se fosse una costruzione del Novecento, giunta esausta a questo pericoloso inizio di secolo. Non sarebbe la fine di un’ideologia, ma di tutto il fondamento dello Stato moderno, di una cultura politica, di un’identità. Per questo l’Occidente oggi va difeso, con ogni mezzo, da chi lo condanna a morte. Anche Vladimir Putin dovrebbe riflettere sulla sfida islamista, domandandosi per chi suona la campana, magari recuperando negli archivi del Cremlino la lettera che l’ayatollah Khomeini scrisse all’ultimo segretario generale del Pcus nel gennaio del 1989: «È chiaro come il cristallo che l’Islam erediterà le Russie».

Qualunque sia la via di uscita, dovremmo imparare la severa lezione: non si può affidare il destino di uno Stato con tutto quel che c’è dentro — scuola, pensioni, sanità, servizi, etc. — al “mercato”, punto e basta. Uno Stato si basa sulla solidarietà, il mercato sul profitto. Se compro una lavastoviglie, io mi aspetto e pretendo che funzioni bene, che mi lavi le stoviglie: altrimenti la rimando al negozio e cambio marca (o negozio); non posso certo essere “solidale” con lei, se lascia qualche macchia, se fa qualche rumore; né mi aspetto che i suoi circuiti sani siano solidali con quelli guasti, e che «nel complesso la lavastoviglie comunque si accende, e fa almeno qualcuno dei suoi cicli». Così combinata non la voglio.
È quello che succede col “mercato” e i titoli di Stato: se quello Stato fa schifo, i suoi titoli non mi faranno guadagnare, anzi ci rimetterò. Quindi li “riporto al negozio” (in Borsa) e “cambio marca” (prendo quelli tedeschi o cinesi).
È inutile prendersela con la Finanza o con la “speculazione”: quelle fanno il loro mestiere. È il Capitalismo, che è fatto così, e non è che non lo sapessimo. L’errore madornale è stato l’aver affidato al Capitalismo e al Mercato ciò che sul mercato proprio non dovrebbe starci. E questo è tutto.

Quale nome potremmo dare a tutto questo casino? Perché i termini obsoleti otto-novecenteschi — Capitalismo, Liberismo, Socialismo — non bastano certo più a dare un’identità a quello che sta succedendo (qualcuno ci provò molti anni fa con un insensato «Fine della Storia»).
Come la chiamiamo una società dove il dieci per cento possiede oltre il cinquanta per cento, dove se nasci povero tale resti perché l’ascensore sociale è fuori servizio da decenni, dove i servizi pubblici vengono ridotti ogni anno, dove i beni d’accesso universale sono invece privatizzati e monetizzati, dove i parlamenti eletti sembrano svuotarsi sempre di più di sovranità rispetto a poteri e meccanismi esterni, comunque non eletti? Come lo chiamiamo questo posto dove il denaro si fa con il denaro invece che con il lavoro — e il lavoro è diventato un lusso per cui ammazzarsi, umiliarsi e sottoporsi dumping sempre peggiori —? Come la chiamiamo la società dove il libero sviluppo di pochissimi è diventato la sacra condizione per la disperazione di tutti gli altri?
Io un nome ce l’avrei: «cazzoliberismo all’americana». Cioè, “liberismo del cazzo” basato sul vecchio modello americano.
E dire che non esiste solo il modello americano. Ne esistono altri e altri ancora si possono costruire, si possono immaginare e provare a creare, specie in un pianeta in cui il mito del PIL, della competizione, del “mors tua vita mea” inizia a mostrare la corda — e altre ipotesi di benessere vengono affacciate, basate su valori esistenziali diversi dal successo individuale.
Penso al giorno in cui sapremo far camminare le buone idee sulle gambe di persone decenti e possibilmente contemporanee, viventi, ascoltabili senza pensare che abitino in un altro secolo o in un’altra Repubblica — o che mirino solo al proprio tornaconto…
Mi chiedo se il mio premier (di 12 anni più giovane di me, porca miseria!) a queste cose ci pensa. Se ne è consapevole, dietro quella sua retorica strombazzante… Perché la mia impressione è tutt’altra. E lo vedo da come va la barca da lui timonata.

Allora, in un Paese democratico dovrebbe funzionare così: c’è una maggioranza, che porta avanti il suo progetto di governo; e c’è un’opposizione, che fa l’opposizione a quello che fa il governo e indica come invece dovrebbero andare le cose. Ciò dovrebbe consentire al cittadino-elettore, se correttamente informato, di scegliere a fine legislatura se far governare ancora la maggioranza uscente o spedirla all’opposizione, mandando al governo chi prima si opponeva.
Bene, sembra semplice. Ma non in Italia.
Da noi funziona così: c’è una maggioranza, che in teoria ha due opposizioni; ma di queste opposizioni, in realtà, una sta surrettiziamente con la maggioranza (Forza Italia); mentre l’altra (M5S) non riesce a decidere né a dirci se e come governerebbe se fosse maggioranza, cioè ad esempio con quale premier, quali ministri, quale programma economico e sociale; in compenso, il cittadino non è correttamente informato perché i media stanno tutti con la maggioranza (il che non migliora le cose ma le peggiora).
Personalmente ho un rapporto di amore-odio verso il Movimento 5 Stelle. Amore per le intenzioni quasi sempre ottime che li animano, per la radicalità etica nella contrapposizione al marciume, per l’onestà ideale di fondo che ne caratterizza i più; odio per la dipendenza dagli umori e dai diktat di una o due persone, per la scarsa tendenza al pragmatismo nel cambiare in meglio questo Paese, per la pasticcioneria comunicativa (e non solo) che spesso presta il fianco ad attacchi già di per sé pelosi, interessati e prevenuti. Da quando c’è la “pax renziana”, tuttavia, il mio sofferente interesse per i pentastellati — che seguo dall’inizio, nelle loro contraddizioni — è ulteriormente aumentato. Per forza: “l’arco di maggioranza”, come si è detto, va da Forza Italia al PD; tutti i poteri forti e meno forti, quindi tutti i media, sono unanimemente schierati con questo arco; al di fuori di quest’arco — escludendo l’incasinatissima e minoritaria sinistra radicale —, di fatto l’unica opposizione è il Movimento 5 Stelle. E, come si diceva, un’opposizione è piuttosto importante, in democrazia. Senza la possibilità concreta di un’alternativa nel breve-medio termine, una democrazia affonda nel pensiero unico, nell’aria serena dell’ovest.
Al movimento “grillino”, tuttavia, non posso chiedere niente: non essendone stato elettore, non sono miei rappresentanti. Quindi non dovrei incazzarmi se un giorno sfanculano il premier, poi improvvisamente ci dialogano, poi lo sfanculano di nuovo, e nessuno capisce più qual è la direzione presa; né dovrei scuotere la testa se, nello stesso giorno in cui loro anatemizzano la stampa tutta — compresa quella non certo nemica, come il Fatto Quotidiano —, un loro sindaco risponde ai lettori sulla Gazzetta di Parma, vecchio bastione dell’establishment locale; né dovrei preoccuparmi se in Europa hanno scelto un partner neoconservatore, liberista e nuclearista, contrario alla Tobin tax, alla regolazione del mercato, alla progressività del sistema fiscale, alla tassa di successione (Nigel Farage).
Invece mi incazzo. Perché sono un cittadino in cerca di opposizione, di un sistema democratico “normale”: quello con una maggioranza che fa il governo e con un’opposizione che si prepari a sostituirla.

E poi, comunque, una questione resta centrale, piaccia o meno: la questione della vecchia dualità Sinistra-Destra.
Qui bisogna intendersi seriamente, ragazzi, basta con le minchiate. Storicamente chiamiamo “Sinistra” quel variegato numero di partiti che all’interno di un sistema democratico come il nostro si propongono come i rappresentanti della maggioranza meno abbiente della popolazione. A questo si possono spesso aggiungere altri valori collaterali che nel corso della Storia si sono associati a queste parti politiche come per esempio la lotta per i diritti civili, il pacifismo, l’internazionalismo. Chiamiamo invece storicamente “Destra” quell’universo di partiti che si propongono di fare gli interessi della parte più ricca della popolazione unendo spesso a questo anche posizioni a favore della patria, della concezione religiosa della famiglia, etcetera.
Questo funzionamento si può riproporre in maniera più dettagliata anche per corpi sociali meno ampi e decisamente più definiti — per esempio L’Italia dei Valori era un partito molto gettonato fra gli appartenenti e gli ex appartenenti alle forze dell’ordine, il Movimento Pensionati fra, appunto, i pensionati, un partito come quello di Oscar Giannino presso un certo di tipo di piccola e media imprenditoria, etc. (L’unico incomprensibile era quello di Ingroia, che parlava a dei comunisti estinti col linguaggio dei “magistrati forcaioli” altrettanto inesistenti. E infatti ha fatto la fine che ha fatto.)
A questo punto il grillino è già saltato sulla sedia e sta urlando su Facebook: «Ma questi non rappresentano più nessunooo!1!1!1!!»
Errore: rappresentano chi li vota! Certo, è impossibile dire che Berlusconi abbia fatto “tecnicamente” gli interessi dei milioni di poveri che l’hanno votato in passato. O che i Violante e i D’Alema, salvando Berlusconi per 19 anni di seguito, abbiano fatto “tecnicamente” quanto gli elettori DS/PDS/PD chiedevano. Ma sicuramente li hanno rappresentati “politicamente”.

Chi c’era se lo ricorda bene: caduto il Muro di Berlino, si pensò che la liberazione di mezza Europa dalla dittatura sovietica volesse dire la possibilità di costruire una Sinistra nuova, libertaria, non dogmatica, lontana da ogni equivoco (Breznev, i gulag, etc.), quindi in grado di fare radicali proposte sociali e civili senza il rischio di vedersi assimilata al fallimentare statalismo buropauperista dell’Est.
La Sinistra storica però si divise in pochi nostalgici del “comunismo perduto” (e tutt’ora nessuno ha capito cosa ci fosse da essere “nostalgici”, di un flop così) e nell’esperimento della “terza via” blairiana/clintoniana, che qualcuno battezzò “Ulivo mondiale”. L’esperimento finì male: nell’indistinguibilità della Sinistra dalla Destra, come trovarsi due mani con il pollice nello stesso punto. E coi leader, da Blair a D’Alema, ben inseriti negli establishment di potere.
L’immagine plastica di questo fallimento non è solo Blair — un nome che oggi in Gran Bretagna non si può nemmeno pronunciare senza essere seppelliti di pernacchie —, ma più di recente lo stesso Hollande: uno che ha fatto campagna elettorale dicendo «il mio nemico è la finanza» e che ora ha nominato ministro dell’economia un banchiere. (Per tacere del nostro D’Alema, ormai passato alla storia come “il protettore di Berlusconi”.) Per questo negli ultimi trent’anni è cresciuto a dismisura il numero di quanti sono convinti che Destra e Sinistra non esistono più: colpa di cosa hanno fatto — e cosa ancora fanno — i sedicenti leader di sinistra. Non è a parole che si può convincere la gente che sbaglia a pensarla così, che Sinistra e Destra siano due mani identiche: è con i fatti, con le scelte. Finché fatti e scelte della Sinistra restano indistinguibili da quelle che ha fatto e fa la Destra, non c’è cazzo. Si deve passare dal Nanni Moretti che si rivolge al leader in tv col famoso «D’Alema, dici qualcosa di sinistra!» a un più efficace «Leader XY, fai qualcosa di sinistra!».
Per evitare situazioni come queste il cittadino ha un’arma potentissima che raramente sfrutta e della cosa può incolpare solo se stesso: non votare più il partito le cui dichiarazioni d’intenti in termini di rappresentatività non corrispondono all’effettiva azione di governo. Detto altrimenti, siamo scemi noi, non il sistema.
Tutto ciò è estremamente sano, ed è il gioco alla base della democrazia: se non ci sono interessi diversi da rappresentare, semplicemente non c’è democrazia. Perfino un’eventuale vittoria totale di un partito di Sinistra autenticamente popolare avrebbe altissime probabilità di degenerare prima o poi (più prima che poi, come s’è visto in URSS e Cina e Cambogia e a Cuba) in dittatura, qualora fosse totalmente sprovvisto di qualsivoglia forma di opposizione.
Siamo esseri umani, siamo diversi e vogliamo cose diverse. Per questo il modo migliore che abbiamo di stare assieme è sederci a un tavolo, discutere e trovare un compromesso. Non è un metodo perfetto: ma l’uomo non è un animale perfetto! Per arrivare a questo sistema ci sono voluti 4 millenni, centinaia di milioni di morti e decine di migliaia di studiosi che hanno dedicato tutta la loro vita a questi temi, fornendo supporto fondamentale a chi poi nella pratica svolgeva l’attività politica: non è esattamente il frutto due stronzi di corrotti che vanno a mignotte in un appartamento di Roma pagato dal ministero…

Nel Novecento non c’erano molti dubbi in proposito — movimento operaio, lotta di classe, etc —, basta rileggersi Norberto Bobbio per ricordarsi che all’epoca la dualità si fondava quasi esclusivamente sul concetto di eguaglianza sociale-disuguaglianza sociale.
Ma per la verità io di dubbi non ne avrei nemmeno oggi, anno di grazia 2014. Per esempio, per me sarebbe “di sinistra” mettere i piedi nel piatto della finanza, vietando gli strumenti speculativi a rischio e i cda incrociati. Ma sarebbe di sinistra anche ridurre alla ragione un neocapitalismo palesemente impazzito e arrogante come mai era stato, per esempio mettendo un tetto agli stipendi dei manager e introducendo nelle aziende un rapporto retributivo tra il dipendente a tempo pieno più pagato e quello meno pagato, più un’aliquota marginale oltre il milione di euro tassata al 60-70 per cento, e ovviamente una patrimoniale vera.
Oppure, sarebbe di sinistra l’abolizione di tutti i privilegi fiscali e di altro tipo per le Chiese, il taglio delle spese militari, la fine delle missioni “di pace” (sic!), tutte.
Ma sarebbe di sinistra anche decidere di non porre nessun limite alla ricerca scientifica — neanche sulle cellule staminali embrionali — l’abolizione della legge 40/2004, il diritto di redigere le proprie volontà in tema di fine vita e di testamento biologico, compresa l’eutanasia, il diritto a ogni tipo di terapia del dolore, il diritto alla scelta farmacologica e indolore per l’interruzione volontaria di gravidanza, l’abolizione della necessità di ricetta medica per l’acquisto della pillola del giorno dopo per le maggiorenni, il diritto di matrimonio e adozione per ogni persona indipendentemente dal suo orientamento sessuale.
Anche perché basta ipocrisia e balle, basta con la cazzata della “natura che deve fare da sola” (che poi vale solo per gli altri perché appena riguarda me o i miei cari ecco che la natura la distorco a piacimento). Intanto c’è già, l’Eugenetica, si tratta semmai di garantire che sia regolamentata come un diritto di tutti e non di pochi: c’è nelle infinite forme di diagnosi che avvengono su gravidanze naturali o assistite, c’è nell’amniocentesi, c’è nella villocentesi, e nessuno ci rinuncia a questi diritti. E ci sarà sempre di più, l’Eugenetica: per eliminare malattie, prevenirne altre, allungare o allargare l’esistenza, potenziare i sensi o l’intelligenza — e magari eliminare la sofferenza psicologica, la depressione o l’obesità —. E perché tutti vogliono garantire ai propri figli un’esistenza al massimo delle loro potenzialità e al minimo delle difficoltà di partenza: se la genetica potrà garantirlo, chi ci rinuncerà? Nessuno. E basta anche con la vulgata che vuole l’Eugenetica per forza legata al Nazismo e al razzismo, perché qui si tratta proprio di lavorare nel senso contrario, cioè di garantire a tutti uguale diritto all’Eugenetica, o almeno a quelle parti di Eugenetica che una società ritiene possano e debbano essere a disposizione di tutti, anziché dei pochi che comunque vi potranno ricorrere, creando così un nuovo divide, un nuovo abisso “di classe”. L’Eugenetica è “di sinistra”, chi ci marcia contro è “di destra”.

E poi sarebbe pure di sinistra, secondo me, decidere che l’otto per mille per il quale il contribuente non dà indicazione venga destinato al welfare, così come sarebbe di sinistra alleviare quella tortura che sono le carceri italiane con la diffusione degli arresti domiciliari con verifica tecnologica (sensori, gps, etc), ma anche il diritto alla sessualità in carcere e l’abolizione dell’ergastolo.
Sarebbe di sinistra pure decidere, secondo me, che ogni parlamentare avesse l’obbligo di pubblicare, nello spazio riservatogli dal sito della Camera di appartenenza, la sua ultima Dichiarazione dei Redditi entro 15 giorni dalla consegna all’Agenzia delle Entrate, e che nello stesso spazio avesse l’obbligo di dichiarare ogni tipo di contributo ricevuto non solo dal proprio partito ma anche da eventuali fondazioni o associazioni di cui faccia parte.
Penso anche che sarebbe di sinistra abolire il quorum per il referendum abrogativo e decidere che le leggi di iniziativa popolare non discusse e votate dalle Camere entro due anni dalla loro proposta diventino oggetto di referendum popolare propositivo, sempre senza quorum. E sarebbe di sinistra che ogni proposta e/o disegno di legge depositato alle Camere fosse messo online almeno tre mesi prima della loro discussione per ricevere i contributi in merito dei cittadini.
Sarebbe poi di sinistra stabilire una dead-line oltre la quale proibire la circolazione sul territorio nazionale di automobili con motori a combustibili fossili, e inserire nella Costituzione l’accesso a Internet come diritto umano fondamentale, stabilendo che la Rete è libera e ogni legge che la riguarda debba essere ispirata alla salvaguardia e all’estensione della sua libertà e non al proibizionismo.

Adesso invece le cose si sono parecchio complicate e — proprio perché si sono parecchio complicate — la prima reazione è quella della scorciatoia, di chi getta da parte il libro perché non riesce più a capirlo: «basta, Destra e Sinistra non esistono più, sono etichette stinte su bottiglie vuote». Scorciatoia che è stata percorsa da parecchi, negli ultimi vent’anni: Bossi e Grillo i più noti, ma adesso anche Renzi sembra voler sfuggire alla dialettica Sinistra-Destra, o comunque ne interpreta il lascito come giustapposizione tra azione e stagnazione, tra innovazione e conservazione .
In un certo senso, è del tutto vero che quelle categorie, come erano vissute nel XX Sec., sono superate: è vero cioè che è superata l’identificazione esclusiva della dualità Sx/Dx sulla base esclusiva della contrapposizione eguaglianza sociale-disuguaglianza sociale. Così come è vero, tuttavia, che la contrapposizione sociale resta comunque come una componente di qualsiasi dialettica politica, qualsiasi nome si decida di dare alle sue parti — anzi, nel XXI Sec. è meglio dire «le» contrapposizioni sociali, al plurale: visto che non c’è più solo quella tra proprietari dei mezzi di produzione e salariati ma ci sono quelle diffuse tra precari, semi precari, somministrati, flessibili, iperflessibili, partite Iva, ditte individuali, dipendenti a basso/medio/alto reddito, pensionati, quasi pensionati, super pensionati, ma anche proprietari di casa e inquilini, con figli e senza figli, etc., in una atomizzazione che è sia di classe, cioè di ruolo nel processo produttivo, sia di ceto, cioè di reddito, ma talvolta anche semplicemente di prospettive esistenziali e condizione psicologica.
Accanto a queste contrapposizioni, ad alimentare i nuovi contrasti politici ci sono tuttavia altri fattori, che non sono né di classe né di ceto. Per esempio, da anni abbiamo più o meno accettato che della dialettica politica facciano parte anche i diritti civili e le sopracitate questioni bioetiche; così come quelle ambientali-ecologiche. Entrambi argomenti che non appartengono alla vecchia contrapposizione solo economica-sociale tra Destra e Sinistra ma che vi si sono inserite: l’hanno arricchita, cambiata, resa più complessa ma anche più completa. Così come si sta inserendo sempre di più, nella dualità, anche la questione dello “sviluppo vs. decrescita”, per usare i termini più semplificatori con cui si etichetta una questione invece molto articolata, cioè quella della qualità della vita delle persone più o meno legata alla dinamica di produzione e consumo. È una questione affascinante, anche se qui non intendo approfondire: ma secondo alcuni per esempio già il “nuovo modello di sviluppo” teorizzato da Enrico Berlinguer negli anni Settanta era prodromico alle odierne riflessioni decrescitiste, nonostante la cultura sviluppista del PCI che ha poi trovato il suo apice nel “buonsensismo” industriale del PD lombardo-emiliano di Bersani (per tacere pietosamente dell’ultimo autodafé di mister ‘puro-cachemire-Bertinotti’: «Io appartengo a una cultura che ha pensato che si potessero comprimere i diritti individuali in nome di una causa di liberazione»… Ossia, il trucco infame e pigro della contrapposizione tra diritti civili e diritti sociali. Quanto godo a vederlo fuori dai giochi, questo tizio…).

Ma c’è un altro tema che si va inserendo sempre di più nella nuova dialettica tra Sx/Dx, e che forse la caratterizzerà in modo robusto nei prossimi anni. È il tema, importantissimo, del rapporto tra cittadini e decisori: tra deleganti e delegati, in una democrazia rappresentativa. Molte delle discussioni e delle pratiche politiche degli ultimi anni ruotano attorno a questo tema: primarie, non primarie; Porcellum, non Porcellum; trasparenza e informazione sugli eletti tipo quella di Openparlamento oppure il Freedom of information Act (che in Italia ancora non abbiamo), streaming degli incontri fra i politici (quello che a volte c’è e a volte no, bontà loro), strumenti di democrazia elettronica varia (finora si è andati per tentativi, e non solo nel M5S), strumenti di pressione dal basso verso l’alto (petizioni, indirizzi email della PA a cui i cittadini possono mandare i loro suggerimenti). Attenzione, però: perché a fronte di questa spinta (più potere al «basso») ce n’è una che va nella direzione opposta (più potere all’«alto»). È quella del personalismo carismatico, del “partito del capo”, del leader che risolve tutti i problemi più o meno da solo; quello che conta è che ci faccia vivere un po’ meglio o almeno non peggio; al limite, si circondi di qualche bravo tecnico e risolvano loro i problemi complessi del reale, che li paghiamo per questo e noi abbiamo altro da fare. (Personalmente, segnalavo già nel 2010 l’impossibilità di un’alternativa credibile a sinistra, attraverso il “leaderismo” sfrenato.)
Insomma, si sta creando sempre di più una dialettica tra cittadinanza informata che vuole partecipare (da una parte) e gente che invece non ha un particolare interesse a informarsi e preferisce delegare il tutto a “un leader simpatico, empatico e onnipotente” (dall’altra parte). Non ho molti dubbi nel considerare la prima tendenza “di sinistra” e la seconda decisamente “di destra”, anche se entrambe poco hanno a che fare con la dualità originale (quella economica-sociale), che ulteriormente complicano e arricchiscono. In tal senso, come si fa ancora a parlare del nostro Renzi come di un leader “di sinistra”?

“Davvero di sinistra” sembrava la Lista Tsipras. Alla sua nascita la Lista Tsipras aveva attivato speranze come non si vedevano da anni, nell’area a sinistra del PD. Centinaia di comitati locali, iniziative spontanee, banchetti nei quartieri, incontri pubblici e flash mob, gente che tornava all’attivismo politico dopo un lunghissimo distacco, altra gente che vi si avvicinava per la prima volta. A tanti era sembrato possibile costruire finalmente una nuova forza politica, radicalmente a sinistra in termini di proposte e contenuti ma emancipata dai tic più settari e antichi che hanno sempre devastato quest’area.
Oggi lo vediamo amaramente com’è finita, quella speranza lì. In litigi esasperati e nel riemergere violento dei peggiori settarismi, con gli “intellettuali” — che da questi difetti si dicevano immuni — che invece non hanno dato certo prova migliore dei “vecchi partitini” e dei loro leader. Anzi. In più, da dopo quel 25 maggio, la Lista Tsipras è letteralmente sparita, come soggetto politico. Ultima notizia di un certo rilievo: il voltafaccia di Barbara Spinelli in merito al suo seggio, con la conseguente ennesima rissa interna. Poi, adios. A urne chiuse, il mezzo miracolo è stato preso e buttato al macero. Non si è più saputo nulla della Lista Tsipras fino alla notizia sull’«assenteismo» di Spinelli. Che era un po’ una cazzata (in realtà, su 36 votazioni al Parlamento UE in cui lei è risultata assente, 34 si sono svolte nello stesso giorno, in cui Spinelli era a Roma per un incontro pubblico con Tsipras, programmato da tempo). Eppure su di lei, per questa mezza bufala, si è scatenato di tutto: specie da sinistra, dai suoi elettori, o ex. E la ragione è semplice: nulla — assolutamente nulla — fa infuriare come la speranza tradita. E non è certo l’accusa di assenteismo, finora poco fondata, a rappresentare quella speranza tradita. Semmai, all’inizio, è stato il disattendere se stessa di Spinelli sulla questione del seggio. Ma, soprattutto, è stata la sparizione successiva di quella che doveva essere la “nuova Sinistra italiana”: ingoiata dalle vanità, dalle arroganze e dagli anatemi dei suoi garanti.

Noi “di sinistra” siamo fessi, è un cliché incontestabile, la fessaggine. Sennò non saremmo finiti come siamo: chi a esaltarsi per Renzi, chi a ripararsi in Grillo, chi già volato nell’astensione, e chi «chissà dov’è finita la lista Tsipras». Fessi, sì: ma non fino al punto da non capire a cosa serve, ogni tanto, dall’altra parte, tirare fuori l’Articolo 18. Perché anche un cretino capirebbe che lo fanno “per vedere l’effetto che fa”: come reagiscono il governo, il sindacato, i famosi mercati. Se va male, amen: ci si riprova tra un po’, magari su un’altra cosa, le pensioni, il welfare; se va bene, come ai tempi della signora Fornero, si è dato un altro colpettino, un’altra bottarella vincente nella già stravincente “lotta di classe dall’alto verso il basso” che questi del cazzoliberismo conducono da trent’anni.
In tutto questo, “noi di sinistra” confermiamo comunque di essere fessi perché ogni volta che ci tirano fuori l’Articolo 18 non siamo capaci di contrattaccare. Tipo così: «Ok, ’sto Art.18 non è un totem, va bene, ma scusate, già che ci siamo: e una qualche forma di reddito minimo per disoccupati e precari, come c’è in tutta Europa? E che ne dite di una bella patrimoniale da 400 miliardi per finanziare il welfare, quella di cui off-the-record parlava Barca? E l’imposta di successione sulle grandi ricchezze, che qui ne abbiamo una che è tra le più basse del mondo? E la galera per gli evasori sopra soglie meno assurde di oggi? E magari anche per quelli che mettono su interi cantieri edili in nero, e quelli che fanno i finti tirocini per far lavorare persone senza sganciare un euro? Ah, e poi ci sarebbe anche il problemino del salario minimo, che pure esiste in quasi in tutto il mondo tranne che da noi, e nei call center in Calabria ormai si viaggia sotto i tre euro all’ora»…

E QUINDI DOVE ANDIAMO A PARARE?

Zoomiamo di nuovo sulle nostre italiche miserie del 2014.
Credo che solo un pazzo furioso possa gioire delle pessime notizie estive sull’economia italiana. Voglio dire: il “tanto peggio tanto meglio” andrebbe semplicemente abrogato dai nostri cervelli come zona erronea da non frequentare, dato che il peggio sarebbe solo immensamente doloroso per tutti o quasi.
Quindi ci si avvicina all’autunno con una grande paura: la produzione che non riprende, anzi; gli “80 euro” che chi li prende non li spende, quindi consumi fermi; la BCE che fa venire i brividi alla schiena chiedendo “cessioni di sovranità”; il Ministro degli Interni che tenta il vecchio trucco berlusconiano di spostare le tensioni su altro — nel caso di Alfano, i “vù cumprà” — per evitare scoppi d’ira altrove diretti, al rientro dalle ferie.
Ecco: in tutto questo, in autunno ci sarà da fare una finanziaria, forse qualche manovra pure prima, vedremo. E qui verrà fuori tutto, credo.
Verrà fuori in primo luogo la statura reale di questo “simpaticone di premier” (c’è uno capace o no, dietro l’immagine dell’arrogantello sbruffone?), ma verrà fuori soprattutto la sua vera visione politica, quella che finora ha nascosto sotto la bolla mediatica fatta di proclami generazionali, retorica nuovista e generico ottimismo.
Verrà fuori, banalmente, se Renzi è “di Destra” o “di Sinistra”: cioè se replicherà le solite vecchie ricette che ci trasciniamo da tanti anni anni, quelle che curiosamente promettono di guarire la stessa crisi che hanno causato; oppure se ai dogmi trentennali e ai loro ortodossi custodi il premier italiano vorrà e saprà opporsi, comprendendo che lì sì che ci sono le élite, lì sì che c’è tanto ancora da “rottamare”. Già, perché è facile fare la faccia feroce con gli anziani professoroni nostrani, i Rodotà e i Settis; ed è ancora più facile sbertucciare Corradino Mineo, i “comitatini”, i “gufi” e i “rosiconi”. Molto più difficile e più coraggioso sarebbe sfidare i poteri autentici e le “paludi” vere…

Il successo politico di Matteo Renzi, effimero o duraturo che sia, si basa su due caposaldi.
Il primo è l’ottimismo, la speranza. Ben interpretata dal leader, anche generazionalmente e attorialmente, questa speranza è stata indubbiamente suscitata in molte persone: i dati delle Europee lasciano pochi dubbi in proposito.
Il secondo caposaldo di Renzi è l’assenza di un’alternativa. E anche qui, al momento, il premier stravince. Un po’ perché da quando è arrivato rappresenta la famosa “ultima spiaggia”; un po’ perché il Centrodestra è di fatto diventato una corrente del PD — e tra le più prone! —; e un po’, infine, perché nell’opposizione (M5S, area SEL-Tsipras, il gruppo Civati & Co.) mancano chiarezza d’intenti e programmi di governo verosimili, così come aspiranti leader altrettanto imprudenti o coraggiosi quanto l’ex rottamatore.

Il risultato di quanto sopra è semplice: Renzi governerà e vincerà le elezioni finché questi due caposaldi resteranno tali. Cioè finché continuerà a suscitare speranza (a suon di “riforme”, siano esse annunciate o compiute, utili o dannose) e finché non ci saranno programmi sistematici e leader affidabili alternativi a lui.
È, a guardar bene, il rovesciamento del processo narrativo in corso, dello “storytelling” direbbero dall’entourage di Obama, quello a cui tante persone stanno credendo in buona fede. Il noto apologo secondo il quale Renzi sarebbe un “innovatore popolare”; e a ostacolarlo sarebbero “le élite”, “i poteri”.
Ora, si dà il caso che proprio le élite e i poteri in Italia detengono (appunto, e fra gli altri) anche il potere mediatico; e che questo potere mediatico è al 95 per cento schierato con Renzi (anche in modo imbarazzante); sicché non serve un genio per intuire che se davvero le élite e i poteri fossero contrari a questo premier, be’, difficilmente metterebbero in campo tutte le loro divisioni armate per lui!

Purtroppo temo che abbia ragione Antonio Polito quando scrive che il Patto del Nazareno «non contiene nient’altro che il patto medesimo, politico e personale, tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi. I contenuti sono solo una variabile, e infatti cambiano in continuazione, ogni volta che i due contraenti, o loro delegati, vogliano».
Insomma, è un accordo che consiste nello stare in accordo. Su cosa, importa poco.
Ne fa fede questo strano rapporto amoroso con Forza Italia, a parole limitato alle riforme costituzionali, in realtà sempre più organico e stabile. Basta leggersi tutte le mattine l’organo ufficiale del berlusconismo, il Giornale: ormai un buffo quotidiano semigovernativo.
Curioso, no? L’uomo che esaltava l’alternanza e la distinzione tra Centrodestra e Centrosinistra — nonché tra governo e opposizione — ha creato la situazione più ambigua di sempre. Con una maggioranza composta dal Centrosinistra più un pezzo di Centrodestra, e in realtà allargata anche all’altro più robusto pezzo del Centrodestra, che però fa finta di essere all’opposizione, ma invece no. Sicché all’opposizione resta di fatto solo una forza che si proclama «né di sinistra né di destra», contro un governo che è “sia di centrosinistra sia di centrodestra”. (Nell’ottobre scorso, Renzi sosteneva che il PD doveva essere «la sentinella del bipolarismo»: ma più che di fronte al Bipolarismo, qua siamo di fronte al Disturbo Bipolare!)

E c’è di più. C’è il Berlusconismo, l’indomito mai sopito Berlusconismo.
Stiamo per creare un “Senato-dopolavoro” che servirà solo a portare a Roma in trasferta settimanale dozzine e dozzine di consiglieri regionali nominati dai partiti, presumibilmente scelti in questo doppio incarico a risarcimento di qualche mancata nomina nello stesso partito di appartenenza, e peraltro nell’accordo piduista Renzi-Berlusconi benedetto da Napolitano è contenuto qualcosa di peggio che non questo “Senato dei nominati” (il Senato andava semplicemente abolito e contemporaneamente il numero dei deputati portato a cento, come modestamente si suggerisce qui). Il vero elemento golpista del “Patto del Nazareno” è costituito dalla legge elettorale, che consentirà a una forza di minoranza un controllo totale non solo del legislativo ma anche delle istituzioni di garanzia: Presidenza della Repubblica e Corte Costituzionale.
Nell’ambito di questa legge elettorale supertruffaldina, micidiale per la nostra già instabile democrazia, l’elemento più grave è dato dalla vera e propria istigazione a delinquere rappresentata dall’incentivo alla presentazione di liste locali di clientelismo mafioso e liste nazionali di indecenza corporativa. Sarà infatti vantaggioso presentare liste che non hanno alcuna possibilità di eleggere un deputato ma che concorreranno alla somma dei voti con cui la coalizione potrà ottenere i premi di maggioranza farlocchi. Liste improbabili e impensabili in Paesi civili ma che nelle prossime elezioni saranno presenti davvero, tipo la lista “Forza Dudù”, che Berlusconi ha già fatto sottoporre a test dalla sua sondaggista di fiducia — con raccapriccianti esiti positivi.
E altrettanto vantaggioso sarà presentare in ogni circoscrizione liste di mozzaorecchi locali coalizzate con i partiti principali dell’uno o dell’altro schieramento, liste che sul piano nazionale conteranno per lo zero virgola ma che su quello locale possono anche raggiungere consensi a due cifre. Basterà perciò avere una lista di clientelismo locale affaristico e/o mafioso in ogni circoscrizione e l’incremento nazionale per una coalizione potrebbe toccare il 10%!

“Chisti simu”, in Italia, nel 2014.
E a tanta brava gente, in fondo, non resta che credere a questa favola del Renzismo.
Qualcuno per ingenuità, cioè per scarsa resistenza e scarsa diffidenza di fronte ai media; qualcuno per illusione ottica generazionale: vedendo un leader giovane e dinamico, gli viene naturale credere che voglia ribaltare i vecchi poteri. E non riesce a scorgere che si sta rivelando esserne invece un furbo guardiano.

Il piccolo Goebbels nell’epoca del cazzoliberismo all’americana, appunto. E sticazzi.

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(A chi mi taccerà di “disfattismo” e “catastrofismo”, a tutti quelli che si industriano operosamente ogni giorno per rendere più difficile l’esercizio della riflessione critica e dello spirito di indipendenza da partiti, consorterie, lobby e schifezze varie, voglio a suggello ricordare che dalle parti di questo insignificante blog non ce ne importa uno strafico secco della vulgata della renziana ‘Speranza di Cambiamento Perché È La Volta Buona’, e che qui si continuerà a dire e scrivere quel che passa per la testa.)


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