Perché la proclamazione del “califfato” Iraq-Siria dovrebbe preoccupare seriamente tutti noi

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Negli ultimi giorni l’Iraq — Paese a maggioranza sciita con una storia recente complicata e violenta — è stato conquistato per circa un terzo del suo territorio da uno dei gruppi islamici più estremisti in circolazione, lo “Stato Islamico dell’Iraq e del Levante”, sunnita, più noto con la sigla “ISIS”.
Non è la prima volta che in Occidente si sente parlare di ISIS: da più di due anni questo gruppo combatte nella guerra civile siriana contro il presidente sciita Bashar al’Assad, e da circa un anno ha cominciato a combattere non solo le forze governative siriane ma anche i ribelli più moderati, creando di fatto un secondo fronte di guerra. L’ISIS è un’organizzazione molto particolare: definisce se stesso come “Stato” e non come “gruppo”. Usa metodi così violenti che perfino al’Qāida se ne è distanziata. I suoi capi sono molto ambiziosi. Controlla tra Iraq e Siria un territorio esteso approssimativamente come il Belgio, e lo amministra in autonomia, ricavando dalle sue attività i soldi che gli servono per sopravvivere. Teorizza una “guerra totale” e interna all’Islam, oltre che contro l’Occidente, e soprattutto — cosa che da noi è passata (colpevolmente) quasi del tutto inosservata — ha dichiarato di aver istituito un “califfato”.

A differenza di altri gruppi islamisti che combattono in Siria, l’ISIS non dipende per la sua sopravvivenza da aiuti di Paesi stranieri, perché nel territorio che controlla di fatto ha istituito un mini-Stato: ha organizzato una raccolta di soldi che può essere paragonata al pagamento delle tasse; ha cominciato a vendere l’elettricità (al governo siriano, cui aveva precedentemente sottratto le centrali elettriche); e ha messo in piedi un sistema per esportare il petrolio siriano conquistato durante le offensive militari. I soldi raccolti li usa, tra le altre cose, per gli stipendi dei suoi miliziani, che sono meglio pagati dei ribelli siriani moderati o dei militari professionisti, sia iracheni che siriani: questo gli permette di beneficiare di una migliore coesione interna rispetto a qualsiasi suo nemico statale o non-statale che sia.

Domenica 29 giugno i militanti dell’ISIS hanno annunciato in un messaggio su Internet la “ricostituzione del califfato” nell’area da loro controllata in Iraq e in Siria, pubblicando anche in diverse lingue un documento ufficiale. Il portavoce dell’organizzazione Abu Mohammad al-Adnani ha detto che il nuovo nome dell’ISIS è “Stato islamico” e che il nuovo leader è Abu Bakr al-Baghdadi, chiamato “califfo Ibrahim” dal suo primo nome.
Il califfato annunciato dall’ISIS è stato imposto nell’area che va da Mosul (nel nord dell’Iraq) alla periferia di Aleppo (in Siria) e da Rutba (nel sud dell’Iraq) alla periferia di Dayr az Zor (sempre in Siria). Il portavoce dell’ISIS ha anche detto che questo sistema politico è «il desiderio di ogni jihadista». Rivolgendosi agli altri gruppi jihadisti e islamisti, ha spiegato: «Non avete alcuna scusa religiosa per non sostenere questo Stato. Sappiate che con l’istituzione del Califfato, i vostri gruppi hanno perso ogni legittimità. Tutti devono giurare fedeltà al Califfato».

L’ISIS venne fondato nel 2000 da Abu Musab al-Zarqawi, un giordano che dagli anni Ottanta e poi Novanta — cioè fin dai tempi della guerra che molti afghani combatterono contro i sovietici che avevano occupato il territorio dell’Afghanistan — era stato uno dei principali rivali di Osama bin Laden. Al’Qāida era nata sull’idea di sviluppare una specie di legione straniera sunnita, che avrebbe dovuto difendere i territori abitati dai musulmani dall’occupazione occidentale. L’obiettivo di Zarqawi era invece quello di creare un califfato islamico esclusivamente sunnita sul modello dei primi califfati della storia. Nel 2006, Zarqawi venne ucciso da una bomba americana. Il suo successore fu Abu Omar al-Baghdadi (morto nel 2010): il suo posto fu preso da Abu Bakr al-Baghdadi, l’uomo che ora è stato proclamato “califfo dei musulmani di tutto il mondo”.
Di Abu Bakr al-Baghdadi non si sa molto. Secondo alcune informazioni è nato nel 1971 a Samarra, a nord di Baghdad, si è unito ai ribelli iracheni poco dopo l’invasione guidata dagli Stati Uniti nel 2003 e ha trascorso quattro anni in un campo di detenzione statunitense. Dopo che la sua morte fu annunciata nel 2005, Abu Bakr al-Baghdadi ricomparve, vivo, nel maggio del 2010 come militante dell’ISIS. All’interno di questa organizzazione è stato finora considerato un comandante e uno stratega militare. Il giovane iracheno di Samarra è una vecchia conoscenza degli USA, che su di lui hanno posto una taglia di 10 milioni di dollari.
Oltre ad al-Baghdadi, deux ex machina dell’ISIS è il citato capo militare e della comunicazione al-Adnani, 30enne spietato e abilissimo anche nella propaganda sui social network.

Territori del neoproclamato «califfato» ISIS

«L’annuncio del califfato è lo sviluppo più importante della jihad internazionale dopo l’11 settembre», ha detto Charles Lister, ricercatore dell’istituto Brookings Doha Center. «Tutti i gruppi legati ad al’Qāida e gli jihadisti indipendenti dovranno ora decidere se appoggiarlo o opporvisi. Ciò potrebbe segnare l’inizio di una nuova fase per il jihadismo transnazionale (…) e un pericolo reale per al’Qāida e la sua leadership». Il corrispondete di Al Jazeera Imran Khan ha detto che i vari gruppi sunniti che hanno combattuto finora a fianco dell’ISIS in Iraq non hanno ancora giurato fedeltà al califfato e che, anzi, l’annuncio della sua creazione potrebbe causare al loro interno diversi problemi: la loro ribellione è infatti rivolta contro il governo centrale di Nouri al-Maliki ma non a favore della creazione di un califfato, obiettivo specifico dell’ISIS.
Ma il problema è molto più grosso di quanto appaia in queste descrizioni, sommarie e di scarsa lungimiranza.

Califfo in arabo significa “successore”, ed è il titolo attribuito ai successori del profeta Maometto, il fondatore dell’Islam morto nel 632 d.C e che fino ad allora rappresentava l’autorità temporale e spirituale: governava l’Umma (la comunità religiosa), era giudice delle dispute interne, capo delle milizie e principale stratega. Con la morte di Maometto (che non indicò alcun successore) fu necessario trovare un’altra guida temporale per tutti i musulmani.
Il primo califfo sunnita della storia fu Abu Bakr, amico e suocero di Maometto. Si distinguono tre fasi del “califfato” (cioè della forma di governo che rappresenta l’unità politica dei musulmani): la prima iniziò con Abu Bakr e fu portata avanti dai tre califfi successivi che avevano conosciuto il Profeta e che governavano da Medina. Il califfo aveva il compito di guidare la preghiera, doveva essere riconosciuto come capo di tutti i musulmani, battere moneta, guidare l’esercito. Doveva poi difendere e possibilmente estendere il dominio dell’Islam, assicurare la legge e l’ordine, riscuotere le tasse e, in generale, amministrare la comunità con l’aiuto di alcuni consulenti. Nel 661 salì al potere la famiglia degli Omayyadi, che instaurò un califfato invece dinastico, rimasto in vigore fino al 750 e che spostò la capitale da Medina a Damasco. L’Impero omayyade si estese arrivando in Spagna, fino all’attuale Uzbekistan e all’attuale Pakistan. Nel 749 iniziò la terza fase: i membri della famiglia degli Abbasidi (discendenti da uno zio di Maometto) guidarono un’insurrezione che sterminò tutti i rappresentanti degli Omayyadi e che portò all’instaurazione di un nuovo califfato dinastico: la capitale venne spostata da Damasco a Baghdad, che diventò uno dei maggiori centri culturali e politici dell’epoca. Gli Abbasidi governarono fino al 1258, anno in cui i Mongoli distrussero Baghdad e uccisero l’ultimo califfo. In realtà, un ramo secondario abbaside sopravvisse e trovò rifugio al Cairo fino a quando il titolo di califfo fu assunto dal Sultano ottomano Selim II, nel 1517. Il califfato ottomano si esaurì nel 1925 ad opera di un’Assemblea costituente voluta dal Presidente della nuova Repubblica di Turchia, Ataturk. Da allora la ricostruzione del califfato e di un’unione politica islamica ricorre con poca fortuna nei progetti e nelle vicende politiche delle regioni mediorientali.

CAPIRE L’ISLAM

L’Islam (sostantivo verbale traducibile con “sottomissione [a Dio]”) è considerato dai suoi fedeli come l’insieme delle rivelazioni elargite da Allah all’umanità fin dall’epoca del suo primo profeta, Adamo. Dal punto di vista dei musulmani, l’Islam non deve quindi essere considerata come ultima in ordine di tempo rispetto alle altre due grandi fedi monoteistiche Ebraismo e Cristianesimo, ma come l’ennesima riproposizione della volontà divina all’umanità, resa necessaria dalle continue distorsioni intervenute come effetto del fluire del tempo e dell’azione (talora maliziosa) degli uomini. Torah, Salmi, Avesta e Vangelo, cui si aggiungeranno in seguito anche i Veda dell’Induismo, sono perciò considerati testi che, in origine, non contenevano rivelazioni diverse da quella coranica.
Per questo motivo è corretto definire Maometto “Sigillo dei profeti”, ed è un principio fondamentale per la fede islamica credere che con la sua morte sia terminato per sempre il ciclo profetico, tanto che viene accusato di massima empietà, e di fatto posto al di fuori dell’Islam, chiunque lo dichiari riaperto. Nell’Islam non vengono pertanto disconosciuti il Vecchio e il Nuovo Testamento, della cui “origine celeste” non si discute, riconoscendo per logica conseguenza il carisma dei profeti vetero-testamentari (da Adamo a Noè, da Abramo a Mosè), come pure quello di Gesù. Secondo i musulmani, il Corano è però “l’unica e non più modificata affermazione della volontà divina”, destinata a perdurare inalterata fino al Giorno del Giudizio.

L’Islam non è un ‘monolite’ ma ha due correnti principali: Sunniti e Sciiti.
Alla morte di Maometto si verificarono delle scissioni, causate dal problema della successione al profeta nella guida religiosa e politica della comunità musulmana. Oggi i Sunniti sono l’83%, 680 milioni di persone, gli Sciiti circa il 9%, altre sette rappresentano ciascuna appena l’un per cento, o quasi. I Sunniti sono i musulmani fedeli alla Sunnah, “la tradizione”: secondo loro nessuno può succedere a Maometto, in quanto con il “sigillo dei profeti” termina la Rivelazione. Il successore e vicario del Profeta, il “Califfo”, può essere solo custode dell’eredità profetica, può dirigere i credenti e amministrare gli affari della comunità secondo il Corano. Attualmente il “califfato” come istituzione dinastica non esiste. Tutti i musulmani sembrano d’accordo su questo principio: se i governi nazionali degli Stati islamici osservano la “sharî’a”, cioè la legislazione comunitaria completa già stabilita, non è necessario l’ufficio sovranazionale del califfato.
Gli Sciiti sono invece i seguaci della “shì’a”, il partito di Alì, cugino e genero di Maometto: si dividono in ismaìliti, imàmiti e altri gruppi minori. Alì sarebbe stato istruito dal Profeta, poco prima della morte, sui più profondi segreti dell’Islam. A sua volta avrebbe trasmesso il suo sapere alla famiglia. I suoi diretti discendenti sono perciò considerati “imàm” (guide) e custodi di questa sapienza, con un’autorità incontrastabile. La maggioranza degli Sciiti è in Iran.
Dalla corrente sciita sono nati altri movimenti autonomi all’interno dell’Islam: i “babiti”, seguaci di Sayyid Alì Muhammad di Shiraz, i “drusi”, concentrati in Libano e nella Siria meridionale, che considerano il califfo Al-Hakim bi Amri, morto nel 1021 d.C., «l’ultima incarnazione di Allah», e gli “ahmadiyya” dell’India. Ma importanti sono soprattutto gli “hashemiti”, i discendenti ‘diretti’ del Profeta Maometto e guardiani dei luoghi santi. Il re di Giordania Abdallah è il quarantaduesimo “erede di Maometto”.
Gli hashemiti sono stati scacciati dall’Arabia dai “wahabiti”, movimento fondato nel 1700 da Mohammad ibn Abd al-Wahab, che si proponeva di riportare l’Islam alla purezza originaria, abolendo l’adorazione di santi e martiri. Le moschee wahabite sono quelle semplici e senza minareto. Wahabiti conquistarono la penisola arabica e La Mecca. Wahabiti sono gli attuali regnanti dell’Arabia Saudita proprietari del 15% del Debito Pubblico USA. Wahabita era Osama bin Laden, come pure il leader dei guerriglieri ceceni Shamil Basaev. I wahabiti sono nemici storici degli hashemiti.
E infine c’è il Sufismo, nato tra i Sunniti nel IX Secolo, che non ha un sistema dottrinale che lo distingua precisamente rispetto alle altre correnti dell’Islam. I sufisti credono di godere di una speciale relazione “elettiva” con la divinità, grazie alla quale possono stabilire una forma di comunicazione con Dio al fine di ottenere la comunione spirituale e la conoscenza della verità divina. Fonte di questa potenzialità è lo stato di grazia riservato da Dio stesso agli iniziati. L’amore, la musica, il vino e la poesia sono considerate esperienze fondamentali per l’ascesi mistica. In sostanza, sono gli “hippies” dell’Islam.

E poi c’è il Fondamentalismo: una corrente dell’Islam del XX Secolo, sostenitrice dell’interpretazione letterale del Corano. Il termine indica oggi convenzionalmente l’ideologia dei numerosi movimenti nati nel mondo islamico per propugnare, anche con il ricorso alla violenza, il ritorno alla rigida osservanza dei precetti della religione come forma di opposizione politica e culturale all’Occidente. Il primo gruppo integralista è stato quello dei Fratelli Musulmani, nato nel 1928. Il suo esponente di maggior prestigio, Sayyid Qutb, fu giustiziato per ordine delle autorità egiziane nel 1966. Negli anni Settanta il modello politico degli integralisti divenne quello dell’Iran, dove nel 1979 l’ayatollah Khomeini, una delle più alte autorità dell’Islam sciita, riuscì a conquistare il potere facendo del fondamentalismo religioso il motivo ispiratore di una rivoluzione popolare contro il regime filo-occidentale dello shah Reza Pahlavi.

Altri importanti centri del fondamentalismo islamico sono il Sudan, dopo il colpo di Stato militare del 1989 che portò al potere il “Fronte Islamico Nazionale” di Hassan al Turabi, e l’Afghanistan, dove dal 1996 la più rigida ortodossia islamica è stata imposta con la vittoria dei Talebani, giovani reclutati nelle scuole coraniche e divenuti miliziani di una delle fazioni in lotta per la supremazia dopo il ritiro degli invasori sovietici dal Paese.
In Turchia la costituzione laica non ha impedito al Refah, o “Partito del benessere”, di Necmettin Erbakan, vicino agli ideali del fondamentalismo islamico, di divenire forza politica di governo. In Algeria il FIS, “Fronte islamico di salvezza”, venne messo fuori legge dal partito al potere dopo avere ottenuto la maggioranza dei suffragi nel primo turno delle elezioni politiche del dicembre 1991. La decisione scatenò la reazione violenta del movimento, che colpì soprattutto intellettuali e giornalisti, ma anche semplici cittadini contrari alla prospettiva di islamizzazione dello Stato. Risultato: oltre 60.000 morti.

IL RUOLO DELL’EUROPA, IL POTENZIALE RUOLO CHIAVE DELL’ITALIA

Questo dell’Islam, finora affrontato con la falange bellica e imperialistica statunitense, dovrebbe in realtà essere un “problema” quasi del tutto europeo.
Lo spazio islamico con il quale gli Europei dovrebbero interagire per respingere l’avanzata estremista è quello del bacino del Mediterraneo, grosso modo l’ex-Impero Romano. Una frattura geopolitica originata dal crollo di Roma che ha dato vita alla moderna idea d’Europa, segnata dal Cristianesimo. È uno spazio con tre matrici: quella dell’Islam occidentale, “l’Islam delle Sierre” (Spagna e Marocco), risalita dal “Maghreb” («dove tramonta il sole») fino alla penisola iberica dove realizzò una fiorente civiltà poi espunta dalla Reconquista cattolica e tuttora vissuta conflittualmente dagli Europei, che sembrano ancora vittime delle scorribande dei Mori; poi quella dell’Islam orientale di stampo turco-centroasiatico, “l’Islam delle Steppe”, che ricucì la cultura bizantina fatta a pezzi dai Crociati — e anche qui, la memoria europea sembra ancora sotto l’influsso delle battaglie difensive contro le orde Ottomane —; e infine quella dell’Islam centrale o “Islam delle Sabbie”, dall’Algeria alla Mesopotamia. La più intransigente e pericolosa delle tre.
È da un “Islam delle Sabbie”, cioè dall’Arabia Saudita, che provengono i profeti wahabiti. Obiettivo: costruire dappertutto, anche in un contesto loro storicamente estraneo come il bacino euro-mediterraneo, piattaforme di espansione di un Islam fanatico antioccidentale e militante, fecondando il territorio del “dar al-harb” (casa della guerra) con enclavi del “dar al-islam” (casa dell’Islam). Sono migliaia, in Europa, gli imàm e gli ulama di Islam “delle Sabbie”, estremisti che predicano in luoghi di culto non registrati, spesso anche spoglie cantine, invitando a ghettizzarsi, ad autoescludersi dalle società ospitanti per non ‘infettarsi’.
I musulmani europei che al teorema della contrapposizione non ci stanno — e sono la maggioranza —, sono però stretti fra il martello del radicalismo “wahabita” di stampo saudita-pakistano e l’estremismo “salafita” di matrice maghrebina, e l’incudine dell’incomunicabilità — tinta da punte di islamofobia — con i Paesi ospitanti, e sono le prime vittime del cosiddetto “scontro di civiltà”. Molti di loro cedono e diventano manovalanza del terrore.

“Rifare” il Mediterraneo, integrando queste culture islamiche nell’unico humus comune del Mare Nostrum, dovrebbe essere un prioritario interesse nazionale di Paesi come l’Italia: per imbrigliare l’immigrazione da sud e prosciugare il terreno al jihadismo maghrebino, ma anche per fare l’Europa veramente. L’Italia cioè ritroverebbe una sua funzione geopolitica nell’Unione Europea — un “oggetto misterioso” senza bussola nel quale sulle presunte regole fino a oggi sono prevalsi i rapporti di forza e i club come “l’asse franco-tedesco” o gli “incontri trilaterali Londra-Parigi-Francoforte” — attraverso la ri-tessitura dei rapporti fra i popoli dell’area.
Il “telaio del Mare Nostrum” andrebbe incardinato su perni che hanno già, storicamente, un profilo: le fasce costiere e il relativo sviluppo armonico attraverso nervature come il commercio, il turismo, l’agricoltura, l’artigianato; là, su direttrici come Savona-Marsiglia-Barcellona, o come Spagna-Algeria, o come Tunisia-Libia-Sicilia, o ancora Croazia-Albania-Puglia-Grecia-Turchia, potrebbero nascere “suture” che sarebbero come tanti nuovi distretti economici e sociali, volàno di progresso…

L’Islam “occidentale”, risalito dal Maghreb fino alla Spagna, aveva dominato il Mediterraneo grosso modo dall’800 fino al 1492, quando era terminata la Reconquista: a quel punto i re cattolici spagnoli si erano sentiti autorizzati a fare propria buona parte delle coste centro-occidentali, sfrattando i Normanni. In quello stesso momento era cominciata sul quadrante est l’ascesa geopolitica dell’Impero Ottomano, che aveva risalito il Bosforo e aveva portato “l’Islam orientale” fin nei Balcani e perfino alle porte di Vienna, 1529. Dopo qualche secolo di sostanziale equilibrio, nel 1800 aveva fatto irruzione nel Mare Nostrum la potenza coloniale britannica: Gibilterra, Baleari, Malta, isole Jonie, Cipro, apertura del Canale di Suez per collegare all’Inghilterra le colonie arabe e asiatiche, conquista dell’Egitto… La Nazione Araba nacque grazie agli interessi coloniali inglesi, che alimentarono fra le tribù la visione di una “umma” interamente araba e le sfruttarono per attaccare e demolire l’Impero Ottomano. Non solo: in quel momento, sempre sotto la spinta degli interessi inglesi, andava piantando le sue radici anche il successivo problema israelo-palestinese, poiché le comunità ebraiche sefardite residenti nell’impero turco erano state incoraggiate a emigrare verso il “focolare nazionale ebraico” (oggi è più un focolaio) in Palestina, protettorato britannico. E non era finita: sempre gli Inglesi avevano favorito l’indipendenza della Grecia, frenando lo slancio russo verso i Balcani — che erano rimasti in parte islamici — e, come reazione all’espansionismo ellenico, stimolando la nascita della Turchia, dove l’Islam aveva cessato di essere religione di Stato.

Il “progetto Jihad” ha caratteristiche inedite che rendono inafferrabile l’attuale integralismo armato. Prima di tutto la natura “transnazionale”, “globalizzata” e “immateriale”, quasi una replica del “network imperiale” americano, di cui infatti mutua alcuni metodi relazionali — l’Islam sfrutta bene sia il web che la televisione satellitare —, generando fra i popoli musulmani una sintonia che si era perduta da centinaia d’anni, attraverso canali mediatici che possono fare a meno di santuari territoriali; poi il “doppio fronte” interno ed esterno, da un lato contro i regimi apostati, autocrazie secolari «che si spacciano per democrazie», simili ai regimi dell’Europa dell’Est della Guerra Fredda, Arabia, Egitto, Pakistan, monarchie del Golfo Persico, “cavalli di Troia” occidentali «che svendono le ricchezze» — leggi petrolio — di terre islamiche, dall’altro i “neocrociati” occidentali «che derubano l’Islam»; e ancora, l’indottrinamento incessante dei giovani e l’addestramento di nuove leve, attraverso le scuole coraniche che sfuggono ai controlli istituzionali, sia che si trovino in Paesi islamici sia che si trovino in territorio europeo; quindi la natura “senza centro” delle varie organizzazioni jihadiste, che si limitano a condividere un pensiero comune di massima e sul terreno agiscono per conto loro, come cani sciolti, rendendo inutile l’attività diplomatica statale e molto difficile l’investigazione delle varie intelligence; infine il linguaggio “reiterativo” politico e coranico, strutturato come un ipertesto del web, aggiornato di tanto in tanto solo con le imprese esplosive, che serve a rendere sexy l’Integralismo in sé — cosa diversa rispetto all’Integralismo Terrorista, che ne è solo una piccola componente — per le popolazioni di credo musulmano. Osama bin Laden è stato soltanto il genio che ha capito per primo come creare la struttura raccordando verso un fine comune più “nobile” i diversi mujaheddin impegnati nelle più svariate cause, riuscendo perfino a mettere d’accordo sciiti e sunniti; ma la “persona” non serviva più, era solo un’icona vuota, come Che Guevara nella famosa foto di Alberto Korda. Il suo obiettivo primario, coinvolgere gli USA sul maggior numero di fronti possibile, per indebolirli, non è mai riuscito: il “jihad globale” continua allora a operare da sé sullo stesso fine.

È vero che l’aspirazione alla libertà, quel “fattore umano” per esempio così sottovalutato nell’analisi delle effettive cause del crollo dell’Unione Sovietica, è un concetto valido dappertutto, anche nei Paesi islamici. Ma il metodo americano — sinergia fra approccio militare e “democrazia imposta” — è destinato solo ad aumentare la rabbia. E la quantità di nuovi adepti all’integralismo armato. Perché in molti Paesi del “Terzo Mondo” gli obiettivi politici sono definiti dalle tribù e non da uno Stato legittimamente riconosciuto come “autorità superiore”. E poi perché l’ipocrisia occidentale è lampante. I jihadisti saranno pure accecati dal messaggio integralista, ma sanno benissimo che le fantomatiche “armi di distruzione di massa” sono state vendute a Saddam Hussein dagli Americani e dai loro network: i disertori dell’esercito di Baghdad rivelarono che l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica di Vienna, anziché limitare gli acquisti di materiali fissili da parte degli Iracheni, li facilitava. Anche gli Inglesi, a fine Ottocento, erano arrivati in Iraq promettendo di liberare i popolo dal giogo ottomano, e finirono per imporre il loro.

La realtà è che l’Islam ha un disegno di conquista dell’Europa basato sui petrodollari, che invece di creare opportunità e sviluppo nel mondo arabo, vengono usati per impiantare moschee e centri di predicazione islamica in varie parti d’Europa, financo Roma.
Il motore propulsivo del Jihad e del ritorno al “Califfato” — territorio interno più colonia estera, entrambi governati dalla “sharî’a”, la legge islamica — prevede la scelta del martirio snaturando a proprio uso e consumo il concetto di “morte gloriosa in battaglia”, visto che il suicidio è vietato dal Corano. E l’efficacia del messaggio è testimoniata dalle migliaia di “shahid” (martiri) pronti a immolarsi sul terreno: un’arma “non convenzionale” che si fa beffe della straripante Potenza Occidentale. L’obiettivo geopolitico è la creazione di entità statali differenti da quelle ristrette negli attuali confini afghani, iracheni, egiziani, sudanesi, cioè geograficamente più grandi, simili ai califfati storici, per poter affrontare da posizioni di forza il futuro, inevitabile scontro frontale con Stati Uniti, Israele, Russia, India e Cina.

IL PERICOLO SOTTOSTIMATO, E I METODI DA ADOTTARE

Perciò, casomai la somma di quanto fin qui esposto non fosse immediatamente chiara, la novità portata dall’ISIS è che per la prima volta nella storia del Jihad e del fondamentalismo islamico viene proclamata la forma di governo che più di tutte dovrebbe rappresentare l’unità politica dei musulmani sunniti — quasi 700 milioni di persone, un decimo del genere umano.
È un progetto filosofico, l’utopia di un assetto politico-sociale-religioso “definitivo”, un po’ Terzo Reich e un po’ “La Repubblica” di Platone (o “L’Utopia” di Tommaso Moro, o “La città del Sole” di Tommaso Campanella, o “La nuova Atlantide” di Francesco Bacone).

Non c’è niente di più sbagliato che pensare al movimento dell’ISIS come a “un gruppo sgangherato di terroristi fanatici e sanguinari”. I miliziani in nero che in pochi mesi hanno conquistato migliaia di chilometri quadrati sono bene addestrati e bene organizzati. Soprattutto, hanno bene in mente il Califfato che vogliono costruire, per il quale le città espugnate di Raqqa e Mosul hanno una valenza precisa, storica e simbolica.
Niente, a partire dai confini, è un caso. Tutto è ideologico, oltre che criminale, nella nuova entità territoriale spuntata in Medio Oriente.
Con “Stato Islamico dell’Iraq e del Levante”, i miliziani intendono i territori del Levante della Grande Siria prima della caduta dell’Impero Ottomano e della spartizione territoriale moderna, frutto dell’accordo coloniale segreto di Sykes-Picot del 1916 (con un trattato sottobanco, in pieno conflitto mondiale, il diplomatico inglese Mark Sykes e quello francese François Picot si accaparrarono fette del Medio Oriente tracciando letteralmente con il righello confini che avrebbero mutilato la Siria e creato un Iraq britannico “indipendente”, abitato da almeno tre culture diverse — sciiti, sunniti, curdi). L’ISIS promette agli arabi di vendicare la «grande offesa coloniale», restaurando il primo Califfato islamico degli Omayyadi (661–750 d.C.) che riuniva questa vasta regione, prima della dominazione ottomana e mongola. La neoconquistata Raqqa, sconosciuta ai più, ha un valore simbolico per i jihadisti: fu la capitale del terzo Califfato degli Abbasidi (796-809 d.C.). E si combatte per Mosul perché l’antico centro assiro è il luogo di sepoltura di diversi profeti del Vecchio Testamento, base anche del Corano.

In Iraq e in Siria, l’ISIS punta alla riconquista delle vecchie capitali, Damasco e Baghdad. E, da lì, alla presa di tutto il territorio siriano, da Homs a Hama e Latakia, fino alla metropoli, parzialmente già presa, di Aleppo.
In Iraq, non rientrerebbero nel disegno del Califfato né il meridione sciita a sud di Baghdad, né la regione autonoma del Kurdistan: due cuscinetti che, fatta esclusione per il governatorato di frontiera di Diyala, salvano per ora l’Iran sciita dalla minaccia di invasione diretta.
Tra i Paesi confinanti con la Siria e l’Iraq, molto più a rischio, viceversa, viene ritenuta la Giordania, esposta sia a nordest sia a nordovest. Nelle zone più povere del regno hashemita già sventolano le bandiere nere dell’ISIS. Inoltre è stato di massima allerta ai confini col Libano, dove un gruppo sunnita collegato all’ISIS ha rivendicato un attentato a Beirut. E, soprattutto, con la Turchia che, nelle zone di confine delle province di Aleppo e Raqqa, ha allevato i qaedisti di al’Nusra.
Ma l’allarme per l’Europa è nella dichiarata intenzione di annettere presto o tardi al Califfato tutto il territorio che fu degli Omayyadi: e basta guardare la mappa diffusa su Twitter, che mostra l’obiettivo territoriale del califfato dell’ISIS con le aree che intende avere sotto controllo «entro cinque anni», per sentirsi correre un brivido lungo la schiena… La Grecia. La Turchia. Tutti i Balcani. Gli Urali. Perfino la Spagna. Una discreta fetta d’Europa, l’intero Medio Oriente, il Vicino Oriente, i Paesi asiatici dell’ex-URSS, giù fino al Pakistan, e la metà del continente africano. Un piano di conquista degno dell’ego di Alessandro Magno.

Il successo che l’ISIS sta riscuotendo presso la popolazione musulmana di tutto il mondo (in Giordania sfilano già le prime manifestazioni popolari con cortei “di appoggio e simpatia”) dovrebbe far capire che l’Islam è in procinto di trasformarsi nuovamente nella più pericolosa e devastante polveriera mondiale, con l’ISIS e l’idea di “califfato” a far da miccia. «Abbiamo circa 30 mila volontari che hanno compilato i visti, hanno i passaporti e sono pronti a partire in ogni momento», afferma Syed Bilal, portavoce dell’associazione Anjuman-e-Haideri che appoggia l’ISIS, citato dall’agenzia Iraqinews. «Altre decine di migliaia sono in contatto con noi e hanno offerto il loro supporto». Quanto ci metteranno a diventare milioni?

Insomma, il salto di qualità del Jihad che nessuno vorrebbe, in Occidente.
Eppure siamo sempre e ancora nel campo della criminalità. Della violenza. L’integralismo non può svincolarsi dall’idea (snaturata, stando al Corano) di martirio, di imposizione, di invasione, di terrore.
Ed è qui che ci vorrebbe un salto di qualità uguale e contrario anche nei think-tank e nelle task force occidentali. Ancora legate all’industria bellica e alla “democrazia dei droni e delle bombe” di matrice statunitense.

Si deve comprendere che l’unico metodo efficace contro l’integralismo islamico può nascere solo dalla comprensione che il terrorismo assomiglia alla “delinquenza”: le sole tecniche efficaci sono quelle “di polizia”, mentre gli eserciti servono soltanto a impinguare l’industria bellica. L’introduzione forzata della democrazia nei Paesi Arabi è pura follìa: come la storia recente insegna, servirebbe solo a far eleggere i partiti islamici più intransigenti, come gli ayatollah in Iran o come i Fratelli Musulmani. Non è per niente facile creare Stati democratici laddove non sono mai esistiti “diritti costituzionali” o “rendiconto del potere” nei confronti del popolo — sebbene Giappone, Corea del Sud e Taiwan (Paesi in ogni caso non islamici) li abbiano realizzati.

La “pazienza poliziesca”, che assimili il terrorismo alla criminalità comune, da “contenere” sapendo che comunque non si può estirpare del tutto, può invece portare alla dissoluzione di intere “organizzazioni”: come l’IRA in Irlanda del Nord, come l’ETA nei Paesi Baschi, come la Mafia a New York, come le Brigate Rosse in Italia, come la RAF in Germania. Pagando certo un prezzo più alto — vedi l’11 settembre 2001 a New York — di una “semplice” autobomba dell’ETA o di un’esecuzione dei padrini; ma più “alto”, cioè vasto, ne è anche l’orizzonte.
Soltanto così potremo sventare il disegno imperiale del “nuovo Califfato omayyade” — e tutte le vittime innocenti che ne conseguiranno —, lasciandolo riposare negli annali della Storia che fu.

* * *

(Disclaimer: buona parte dei brani nozionistici sull’Islam sono tratti da “L’Uomo Nuovo” — Luigi Manglaviti ©2005 — pagg. 417/19, 448/52)

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