Italicum e riforma del Senato, due immense porcate

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Renzi-Berlusconi

Leggendo, ascoltando e vedendo i commenti di questi giorni ho avuto modo di costruirmi un robusto promemoria sulle assurdità della nuova legge elettorale («Italicum») e della riforma del Senato. E a riguardare tutto mi sono fatto la netta convinzione che le due cose non vogliano né i fantomatici “tagli ai costi della politica” né il bene della democrazia in Italia: l’obiettivo reale è un altro. Pessimo.

ITALICUM

La nuova legge elettorale prevede liste bloccate e un premio di maggioranza del 37% dei voti; se non si raggiunge il limite si va al ballottaggio. È una fesseria che si può facilmente smontare con un esempio banale: poniamo una coalizione tra partitini del 3/4% e una forza del 20%. In caso di vittoria, il partito al 20% si prende il 55% dei seggi, mentre quelli al 3/4% restano fuori dal Parlamento per lo “sbarramento” (fissato al 4,5%). Non solo. Chi vince solo al ballottaggio prende il 53% dei deputati, che vuol dire soltanto 11 seggi di differenza: come viene garantita la “governabilità” con soli 11 seggi in più, quando in Italia abbiamo avuto casi di “ingovernabilità”, tradimenti, voltafaccia, trasformismi e “compravendite” anche con 40 o 50 seggi in più?
Altro capolavoro: ogni candidato può presentarsi in otto collegi diversi. Quindi nei restanti sette andranno avanti i “nominati dai partiti” che finiranno al secondo, terzo, magari quarto posto, e magari pure con pochissimi voti.
Il precedente «Porcellum» è stato bocciato dalla Consulta come “incostituzionale” sia per le liste bloccate sia per il premio di maggioranza. Nell’«Italicum» rimangono liste bloccate e premio di maggioranza. Se la Consulta conosce un briciolo di Aristotele…

SENATO

Poi si guardi al nuovo “Senato delle autonomie”. (Intanto, è già assurdo che lo proponga il governo, perché una cosa come tagliare via una delle due camere è roba pesantemente costituzionale e toccherebbe al Parlamento). Si vuole abolire la seconda camera per «velocizzare i tempi» e «risparmiare denaro». Sarebbe bello. Se fosse vera l’intenzione.

Riguardo alla velocità, è tutto molto relativo: come ha spiegato Marco Travaglio, il ‘Lodo Alfano’ ci ha messo appena 20 giorni a uscire dal CdM e a finire sulla Gazzetta Ufficiale, la famigerata ‘legge Fornero’ soltanto 16 giorni; mentre di converso la legge anticorruzione ha impiegato 1.456 giorni: ossia, rispettivamente, meno di tre settimane, poco più di due settimane, quasi quattro anni. Ognuno giudichi da sé…
Il Parlamento non funziona, è vero: non riesce a stare al passo con gli eventi del Paese. Ma non è colpa né della Costituzione, né della “doppia ridondante rappresentanza” Camera-Senato, né delle lobby, né dei “mali della politica”: è colpa dei REGOLAMENTI PARLAMENTARI. Della ‘burocrazia interna’ al Parlamento che si è andata creando e accumulando dal 1971 a oggi. Un complesso di norme scritte — una specie di codice — che ciascuna delle due Assemblee adotta, in ossequio a una precisa disposizione costituzionale (art. 64, primo comma), che dovrebbe «disciplinare i diritti e i doveri dei deputati, specificare le modalità di elezione e i compiti del Presidente e degli altri organi, stabilire come si organizzano i lavori parlamentari e come viene stabilito l’ordine del giorno delle sedute, le procedure di discussione e di voto dei progetti di legge», ma che in realtà non crea altro che confusione, peggio che nel centro delle grandi città all’ora di punta.
Una proposta di legge entra in Parlamento ma non si sa quando ne esce. Perché va a infilarsi in un tunnel di meccanismi astrusi che ne impedisce e/o ostacola la calendarizzazione, la valutazione, la discussione in aula. E quindi, per fare ogni santa cosa, il governo — qualsiasi governo, si badi bene, non solo quelli degli ultimi anni — è costretto a procedere per decreti. Soltanto per fare un esempio, centinaia delle disposizioni del vituperato governo Monti sono ancora nei cassetti, in attesa dei decreti attuativi.
Questo è il vero dramma della “velocità” del Parlamento italiano.

Quanto ai “risparmi”, Matteo Renzi dice che il Senato costa «un miliardo». Intanto la vera cifra è la metà: 500 milioni. Che è sempre molto, certo. Ma guardiamo la “soluzione” proposta. Avremmo 148 senatori contro gli attuali 315. Risparmio sulle indennità? Pochissimo. Le indennità dei senatori oggi costano allo Stato circa 43 milioni di euro l’anno; se a questa cifra si sommano i soldi devoluti ai gruppi e i vari rimborsi, si arriva a circa 100 milioni di euro l’anno. Non è ancora chiaro quanti di questi soldi saranno effettivamente risparmiati, perché comunque lo Stato dovrà farsi carico delle trasferte (voli, alberghi, etc) di 148 persone che proverranno quasi tutte da fuori Roma. Non è escluso, al momento, che per queste trasferte ci sia anche una diaria. Non si sa neppure se questi senatori avranno diritto a un assistente pagato, come gli attuali. Di sicuro, visto che Palazzo Madama rimarrà in attività, non viene abolita (anche se forse sarà gradualmente ridotta) tutta la macchina del Senato — stenografi, palazzo, auto, manutenzione, affitti, spese varie —, che rappresenta il grosso del suo costo: 246 milioni l’anno solo per i dipendenti nel 2013, per esempio.
E l’effettivo rapporto costi-benefici complessivo della riforma?
Il nuovo Senato mantiene solo quattro delle attuali prerogative (leggi costituzionali e di revisione costituzionale, elezione del Capo dello Stato, dei membri di Csm e Consulta), non vota più le leggi ordinarie ma esprime “pareri”, non vincolanti — di cui la Camera può cioè infischiarsi —. Per le leggi sugli enti locali le regole cambiano ancora. Regole diverse anche per le leggi di bilancio. In pratica, come è già stato calcolato, si rischiano fino a 12 modi diversi per approvare una legge: con il paradosso di perdere molto più tempo rispetto a oggi.
A far parte del nuovo Senato saranno 148 senatori così organizzati: 19 governatori e i presidenti delle province di Trento e Bolzano (a proposito: attualmente, 15 di questi 21 sono indagati…). Ci sono poi 20 sindaci dei capoluoghi di regione. Poi due rappresentanti a regione scelti fra i consiglieri di regione (per dire: anche qua ci sono attualmente decine e decine di indagati, per “rimborsopoli”). Ci sono infine due sindaci per Regione. Quanto al Capo dello Stato, ne elegge 21: il 15% del monte-senatori. E ci sono i 5 senatori a vita.
Il meccanismo ha quattro grossi problemi più uno gigantesco.

Primo problema: come fanno a votare il Capo dello Stato o a legiferare sulla Costituzione, se non sono mai stati eletti per farlo, come ordina la stessa Costituzione?
I governatori delle Regioni, quando li eleggeremo governatori, sapremo che li stiamo mandando anche in Senato, quindi nella loro carica senatoriale saranno in qualche modo “legittimati” dal voto popolare. Anche i sindaci delle città capoluogo di regione, quando li eleggeremo sindaci a Milano o a Napoli, sapremo che li stiamo mandando anche in Senato, quindi nella loro carica senatoriale saranno in qualche modo legittimati dal voto popolare (resta magari la domanda su perché un milanese e un napoletano possano esprimere questo senatore mentre un cremonese e un avellinese no, ma amen). Il presidente della provincia autonoma di Trento è eletto direttamente dai cittadini, quindi vale per lui quello che si è detto per i governatori. Altri 40 saranno invece scelti tra i 1.117 consiglieri regionali italiani. Scelti da chi? Dai consigli regionali a cui appartengono: dunque dai partiti. Saranno i partiti a selezionarne 40 su 1.117, trasformandoli anche in senatori. Poi ci sono altri 40 sindaci che diventano senatori con la stessa logica: in Italia i sindaci sono 8.092 e la scelta avverrà fra questi 8.092; a nominarli senatori penseranno le nuove “assemblee regionali dei sindaci”, che ovviamente saranno dominate dai partiti cui appartengono questi sindaci. Quindi su 148 senatori ne avremo 80 che non saranno mandati a Palazzo Madama dai cittadini — ai quali nessuno chiederà quali 40 tra gli 8.092 devono diventare senatori —, bensì dai partiti. Infine bisogna aggiungere a questi senatori i 21 scelti dal Presidente della Repubblica e (finché campano) i 5 senatori a vita. E il presidente della provincia di Bolzano, anche lui scelto dai consiglieri provinciali (e quindi dai partiti).
Ricapitolando: su 148 membri di Palazzo Madama, quelli scelti anche come tali dai cittadini (con una scelta “di rimbalzo”: ti eleggo governatore/sindaco ma so che sarai anche senatore) saranno soltanto 41, pari a poco meno del 28%.
È vero che con il «Porcellum» testé bocciato dalla Consulta erano tutti quanti nominati dai partiti: ma con un’importante differenza. Con la legge Calderoli l’elettore sceglieva tra blocchi di persone che comunque si candidavano al Senato, mentre con questa riforma non saprà mai, votando per un consigliere regionale o un sindaco di città non capoluogo di regione, se questa persona potrà e/o vorrà far parte o meno della ristrettissima selezione di consiglieri e sindaci che poi diventeranno senatori, in base a decisioni del tutto estranee agli elettori stessi.

Secondo problema: per Governatori, Consiglieri e Sindaci, il Senato sarà un doppio lavoro (quando non un… dopolavoro), e un doppio impegno sempre “part-time” — metà settimana a Roma, metà nelle rispettive sedi —. Il rischio di far male entrambi i mestieri è molto concreto, specie in un Paese come l’Italia in cui spesso e volentieri, quando si tratta di “politica”, se ne fa male già uno solo.

Terzo problema: quasi tutta questa gente sarà “fuori sede”. Quindi bisognerà rimborsargli le trasferte. La questione “rimborsi”, dunque, plausibilmente potrebbe aggravarsi.

Quarto problema: la effettiva rappresentatività. Per esempio, la Val d’Aosta avrà gli stessi senatori della Lombardia, la quale ha però 80 volte gli abitanti della Val d’Aosta. Il Molise è 20 volte più piccolo della Campania: ma le due regioni avranno uguale numero di senatori.

Ma il problema più grande di tutti è il quinto e ultimo.
Il Senato dura in carica 5 anni: intanto, però, nello stesso lasso di tempo, le elezioni locali si succedono, e si succedono in tempi più ravvicinati, e più volte. Ogni volta che un Governatore, un Sindaco, un Consigliere viene trombato alle elezioni locali, in Senato esce un senatore e ne arriva un altro. Il nuovo Senato, cioè, diventa una specie di autogrill con “sliding doors” sempre in funzione, con facce che cambiano praticamente a OGNI SEDUTA, senza soluzione di continuità. Come si può costituire una “maggioranza”, o anche solo a giungere a decisioni coerenti e condivise su un singolo tema, in simili condizioni?!

Ci sarebbe un’alternativa infinitamente più semplice (e proprio per questo non verrà mai presa in considerazione), se davvero si vuole “risparmiare tempo e denaro con la politica”.
Consta di tre sole cose. 1) Dimezzare i parlamentari. 2) Dimezzare le loro indennità. 3) Differenziare i compiti di Camera dei Deputati e Senato (cosa che si fa, con ottimi risultati, in una vera democrazia: gli USA). Si centrerebbero tutti gli obiettivi di risparmio ed efficienza.

Perché dunque non si vuole l’eleggibilità diretta dei nuovi senatori? Perché è così importante che i cittadini non mettano becco nella scelta dei futuri senatori, che pure avranno poteri pari a quelli dei deputati sia nelle revisioni costituzionali sia nell’elezione del Presidente della Repubblica, così come nella scelta dei membri della Consulta e del Csm? Per quale oscura ragione il superamento del bicameralismo perfetto deve passare per forza attraverso la creazione di un ramo del Parlamento nel quale tre quarti dei membri saranno scelti da partiti e Quirinale?
Si va finalmente verso i “tagli ai costi della politica”, okay, e a tal uopo serve che i senatori siano amministratori locali, già pagati come tali. Ma il risparmio che si otterrebbe eliminando gli stipendi dei senatori non viene in gran parte perso con le loro trasferte? Si tratta di 148 persone che per venire a Roma uno o due giorni la settimana saranno ovviamente spesati, alloggeranno negli hotel a cinque stelle e probabilmente avranno, come adesso, un assistente pagato. Oltre al danno, difficilmente quantificabile, del fatto che lavoreranno molto meno nel loro ruolo d’elezione originario, ossia come sindaci o governatori o consiglieri.
Forse è una decisione che sotto sotto tende a favorire il Centrosinistra: il PD tenta in questo modo di assicurarsi un “Senato amico”, essendo notorio il fatto che alle elezioni amministrative il Centrosinistra abbia quasi sempre risultati migliori che alle politiche. Perciò con una tale riforma del Senato lo stesso Centrosinistra si garantirebbe un “controllo” di Palazzo Madama senza passare dal voto nazionale.
O magari siamo davvero a una «svolta autoritaria», molto omeopatica e gentile nei modi: semplicemente, con la non eleggibilità, si vogliono allontanare ulteriormente i cittadini dai luoghi di decisione, aumentando a dismisura il potere dei segretari di partito. L’«Italicum», con le sue liste di nominati, il premio di maggioranza, le candidature plurime e l’eliminazione dei partiti che prendono meno dell’8%, blinda la Camera dei Deputati; il Senato è depotenziato e comunque in mano ad amministratori locali “rimbalzati” al potere nazionale. I due rami del Parlamento, in sostanza, vengono allontanati ancora di più dai cittadini che dovrebbero rappresentare.

La tentazione della dietrologia è davvero irresistibile. Temevamo la “svolta autoritaria” prevista nel Piano di Rinascita della P2, incarnata da Berlusconi: rischiamo invece di ritrovarci presto con il “presidenzialismo autoritario” del Centrosinistra.
(In fin dei conti, a destra, dopo Berlusconi, si profila il nulla; a sinistra il nulla c’è già fin dalla scomparsa di Berlinguer; il PD ormai è sempre più simile alla vecchia Democrazia Cristiana. L’unico contraltare al ritorno alla Prima Repubblica è il Movimento 5 Stelle, con tutti i suoi — enormi — limiti: con queste due contromisure, Italicum e riforma del Senato, si mira a blindare il Potere nelle sue roccaforti. Ben distanti dai cittadini. È la nuova Balena Bianca. Molto peggiore di quella di Andreotti, io credo.)

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