Il “malleus maleficarum” della Rete. Scritto in una settimana

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Dove va il mondo? Dov’è la “crescita”? Dove lo sviluppo?
È risaputo, basta guardarsi intorno: la Rete. La libera circolazione delle informazioni. La democrazia partecipata. I tablet. Gli smartphone. Gli e-book. Il software. L’innovazione. La tecnologia. E quella grande prateria digitale che vede scorrazzare sia i giganti del web e dell’informatica, Google, Amazon, Apple, Facebook, Microsoft, Intel, che milioni di piccole ma agguerrite start-up che stanno cambiando il volto dell’economia mondiale.

Tutto questo, a quanto pare, all’Italia non sta bene.
Una classe politica sempre più vorace, incapace e soprattutto miope sta pensando bene di trasformare un Paese già fanalino di coda in termini di diffusione di Internet (una nazione che sta peraltro proprio adesso faticosamente riemergendo da quasi un ventennio di governo del “signore del telecomando”) in una specie di Birmania europea, in una terra da oscurantismo medievale dalla quale far fuggire a gambe levate i Google, gli Amazon, le Apple, le Microsoft e le tante innovative start-up. Allontanando ancora di più i suoi cittadini e le sue imprese dalle magnifiche sorti e progressive dell’innovazione e del futuro.
In quella che è già passata alla storia recente come «la settimana nera di Internet in Italia», il Parlamento, il Governo e l’AgCom (Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni) — ciascuno per sé e tutti insieme remando contro l’ammodernamento del Paese — hanno imbastito una pletora di provvedimenti che isolerà ancora di più l’Italia dal resto dei Paesi sviluppati, scavando un (ulteriore) solco difficilmente colmabile e soprattutto giustificabile. Il digital divide che già ci ammazza all’interno, applicato anche all’esterno.
Cos’è successo?
Di tutto.
E tutto concentrato in pochi giorni, quasi  fosse un copione dell’orrore e della censura che neanche la Santa Inquisizione si sarebbe sognata di scrivere con maggiore efficacia.

Venerdì 13 dicembre (come non essere superstiziosi, poi!) 2013 la commissione Bilancio della Camera dei Deputati ha detto sì alla cosiddetta “web tax”, inserita tra gli emendamenti della legge di stabilità che dovrà essere votata dal Parlamento entro la fine dell’anno: nata come proposta illuminata di Francesco Boccia (PD) e successivamente approvata come emendamento a firma di Edoardo Fannucci (sempre PD), è una normativa che impone alle imprese italiane di acquistare servizi online esclusivamente da soggetti dotati di una partita Iva italiana. Un’iniziativa duramente criticata dallo stesso Ministero dell’Economia, che l’ha bollata come «incostituzionale» e «contraria al diritto europeo». Cosa questo significhi è presto detto: d’ora in poi non potremo più acquistare merce o software o servizi di qualunque tipo da siti web che non abbiano aperto una partita Iva nel Belpaese. E se la mia azienda per prosperare avesse bisogno proprio di quel software o servizio prodotto SOLO da una piccola società statunitense o canadese o indiana che mai e poi mai aprirà partita Iva in Italia? Niente, dovrò accontentarmi di quanto offerto dal futuristico mercato italiano. Quello che non esiste da nessun’altra parte in Europa, da noi sta per diventare realtà: da Amazon a Google a qualunque altra impresa anche piccola, magari operante dall’altra parte del globo… rischiamo seriamente di rimanere tagliati fuori da tutto, perché il servizio che sarà disponibile agli altri cittadini europei, fornito magari da una piccola impresa dell’Oregon, a noi sarà precluso, essendo nei fatti impossibile dall’estero espletare tutte le pratiche previste dalla burocrazia italiana per sobbarcarsi l’onere di una posizione fiscale nel Paese più tartassato e oberato di scartoffie amministrative del mondo civilizzato.

Il giorno prima l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni ha varato la sua personalissima nuova legge sulla “tutela del diritto d’autore online”, attribuendosi — in un’inedita sintesi dei tre poteri dello Stato (legislativo, esecutivo e giudiziario) — il potere di vita o di morte su qualsiasi genere di contenuto pubblicato online e ripromettendosi di esercitarlo nell’ambito di procedimenti sommari, quasi militari, esautorando sostanzialmente i giudici che fino a oggi si sono occupati di far rispettare le leggi in materia, sia online che offline.
Altro che «Internet nuova agorà» e «piazza pubblica telematica»: chiunque potrà ottenere la rimozione del mio contenuto in un blog o su YouTube in una manciata di ore, semplicemente scrivendo all’AgCom e sostenendo, a torto o a ragione, che per esempio sto usando un sottofondo musicale che gli appartiene. Il potere conferito all’AgCom è quasi illimitato, da far paura: questa agenzia, novella Torquemada, può per esempio costringere un ISP (provider) italiano a deviare il traffico verso la piattaforma ospitante il blog o il video incriminato (sempre a torto o a ragione, senza l’onere della prova). Ossia, teoricamente AgCom può per esempio bloccare l’intero YouTube rendendolo invisibile in Italia, per la denuncia effettuata su un unico suo video. Tutti i blogger e i siti web personali si preparino in blocco a trasformarsi in odierni Giordano Bruno, Galileo Galilei e Tommaso Campanella.

E non è ancora tutto perché la suddetta trovata raggiunge il climax quando si somma a quella seguente. Sempre venerdì 13 dicembre il Consiglio dei ministri ha approvato il cosiddetto decreto “Destinazione Italia”, titolo che suona quasi ironico in relazione alle cose di Internet: nel pacchetto, che dovrebbe «attirare imprese estere in Italia» (!), ci sono infatti due disposizioni che lasciano a bocca aperta.
La prima stabilisce che per «linkare, indicizzare, embeddare, aggregare» un contenuto giornalistico «occorre prima chiedere il permesso alle associazioni di categoria degli editori e pagare il prezzo che dovrà essere concordato con queste ultime o, qualora ciò non risultasse possibile, stabilito dalla (solita onnipresente) Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni». È la parola «fine» messa sui provider di ricerca che indicizzano le ultime notizie per poi rimandare eventualmente alla fonte, come fa per esempio Google News. In pratica si riscrivono radicalmente le dinamiche di circolazione delle informazioni online e si trasforma il web italiano in una piccola televisione gestita dall’AgCom nella quale pochi decidono chi può dire cosa.
La seconda disposizione dice in sostanza che «la lettura dei libri verrà incentivata attraverso un opportuno programma di benefici fiscali che non riguarderanno i libri elettronici». Be’, esattamente ciò che ci vuole in un’epoca storica nella quale ormai ci siamo tutti abituati a leggere — quel poco che leggiamo — su un tablet o su un e-book reader!
I nomi che hanno i provvedimenti sono l’esatto opposto di ciò che rappresentano: scrivono «incentivo alla lettura», si legge «misure assistenzialiste per i libri di carta»; scrivono «tutela delle opere e della cultura», si legge «incertezza giuridica in contrasto con le soluzioni europee e attribuzione impropria di poteri giuridici»; scrivono «tutte le aziende saranno finalmente uguali davanti al fisco», intendono dire «comprometteremo gli sforzi dei principali obiettivi dell’agenda digitale europea, infrangeremo le regole comunitarie e aumenteremo il gap tecnologico ed economico nel digitale»; scrivono «competitività delle imprese, rilancio dei consumi e attrazione degli investimenti stranieri», ma si legge «nessuno avrà più un solo motivo per investire in questo Paese».
Un simile normativa sottende la disonestà di chi vuole imporre la propria ignoranza e la propria incapacità come misura di tutte le cose: i giganti dell’editoria, in crisi per non aver voluto né saputo innovare negli ultimi vent’anni, pretendono di imporre per legge la conservazione dei loro privilegi davanti a un mondo che si sta muovendo in blocco e velocemente nella direzione dello sviluppo digitale. Un’evoluzione che qui si vuole impedire con la rivendicazione dell’ignoranza come regola gestionale per tutti. L’arroganza della tutela delle rendite, ottenuta strozzinando un Paese in difficoltà e soffocando qualunque tentativo di sviluppare nuova conoscenza e nuova competitività, è l’assunto che sorregge nel concreto i provvedimenti del decreto. In ambito digitale il testo sovverte sistematicamente la dichiarazione di intenti esposta nei titoli degli articoli, che alluderebbero a una serie di provvedimenti volti ad attrarre capitali stranieri in Italia, e ad agevolare la ricerca e il sapere. L’unica cosa che questo governo sostiene con la sua concezione del digitale è il ritorno al medioevo dei feudi e dei baroni, dei privilegi di sangue e dell’immobilismo. Niente di nuovo, in fondo: per chiunque si occupi di Internet e di digitale il legame con l’Italia è sempre motivo di vergogna.

E per finire, la SIAE si è praticamente “scritta da sé” un decreto che figurerà a nome del Ministro dei beni e delle attività culturali (Massimo Bray) sull’aggiornamento del famigerato “equo compenso”: che viene ridotto sui prodotti che ormai non hanno più mercato, come i registratori Vhs e i vecchi telefonini, ma che viene aumentato del 500% (!) sui prodotti amati dagli italiani come gli smartphone e i tablet (da 50 centesimi a 5,2 euro, e per i computer la proposta è di 6 euro).
Cos’è l’equo compenso? Una farsa. Ciascuno di noi acquista supporti digitali come cd, dvd, penne usb per salvare o trasferire i propri file di lavoro. Ma saremmo anche liberi di riversarvi contenuti piratati, soprattutto se fossimo rimasti indietro di quegli anni decisivi in cui la cultura digitale ha favorito lo streaming legale e non piratabile, rispetto alle transazioni peer-to-peer. Però queste sono sofisticazioni che non interessano alla SIAE: potremmo in futuro commettere dei reati di pirateria, quindi tutti e indistintamente paghiamo SUBITO una tassa su cd e dvd vergini. Il principio è palese: «per ora comincio a sbatterti in galera, così se un giorno commetterai un reato saremo già in pari». L’occasione fa l’uomo ladro, è meglio essere previdenti. Ma è giusto che ogni cittadino che compra un dispositivo debba pagare per una eventuale copia, pur non facendola? Oggi ci sono lo streaming, il cloud, gli abbonamenti: se io ascolto musica sul mio smartphone non farò alcuna copia. Pensare di aumentare il prezzo a causa della possibilità di copia è anacronistico: piuttosto, per come evolve immaterialmente il mercato della musica (e della letteratura), ormai svincolato da supporti digitali fisici, andrebbe ridotto!

Questo è quanto.
Chi ci governa ha deciso che il nostro fato dev’essere “chiudere e chiudersi”. Chiudersi in una campana di vetro e morire asfissiati dai fumi velenosi della fabbrica burocratica italiana e del suo sistema clientelistico, chiudendo fuori gli attori stranieri. Proteggere il “nostro” con sgravi e sussidi e vivere solo del nostro declino, caldi caldi nel nostro paesello. Anzi, nel nostro orticello sempre più spoglio di lattughine, già abbondantemente tassato com’è di suo.
Sembra tanto l’ennesima furbata all’italiana per battere cassa, controllare e mantenere ignoranti i già supertassati cittadini italiani, togliendo a chi economicamente non può permetterselo la possibilità di tenersi aggiornato e adeguatamente informato attraverso i più popolari motori di ricerca. Si prenderanno vari piccioni con una fava. Un comportamento da veri irresponsabili, che avrà il solo effetto di rendere il Paese sempre più invivibile e ignorante.
Con quale scusa politica i nostri illuminati dirigenti si sono adoperati per mettere in piedi questi assurdi pasticci? I promotori della “web tax” ritengono che debbano essere cambiate le regole per le società online perché quelle attuali consentono loro di registrare i ricavi presso un’altra società del gruppo, che spesso ha sede in un Paese con una tassazione più favorevole rispetto a quella italiana. Amazon, per esempio, ha sede legale in Lussemburgo per le sue attività in Europa, mentre Facebook e Google registrano i loro ricavi in Irlanda. Si stima che nel 2012 Facebook abbia pagato all’Agenzia delle Entrate circa 192 mila euro, mentre Google — che è più presente con personale e attività in Italia — circa 1,8 milioni di euro, a fronte di decine di milioni ricavati grazie alle inserzioni pubblicitarie, o nel caso di Amazon con le vendite dirette di prodotti.
L’idea di riformare la tassazione per le attività dei colossi del web viene da lontano. I governi si sono resi conto del fatto che imprese quali Google facciano profitti in tutto il mondo pagando al fisco quote irrisorie. L’azienda di Mountain View è un esempio perfetto di come attraverso triangolazioni, scatole cinesi e paradisi offshore, si possano ottenere le migliori condizioni fiscali possibili. Google ha scelto per sede l’Irlanda, che ha una tassazione agevolata per le imprese: il 12,5% di aliquota contro il 33% degli USA. Formalmente, se Google Ireland Ltd riportasse negli Stati Uniti i guadagni fatti all’estero dovrebbe pagare al fisco americano un conto salato: ma Big G evita il salasso reinvestendo gli utili fuori dai confini americani. Non solo. Google paga i contributi per i dipendenti a Dublino, ma la filiale irlandese è una controllata della Google Netherlands Holdings, a cui arrivano i proventi delle altre sedi all’estero. E cosa fa la holding olandese? Gira la grande fetta dei profitti a un’altra finanziaria, sempre con sede in Irlanda: la Google Ireland Holdings, che però è una controllata di una società con sede alle Bermuda. La finanziaria irlandese approfitta di un regime di doppia nazionalità previsto dal sistema fiscale di Dublino: così per gli Stati Uniti è una società irlandese e per l’Irlanda è bermudiana. Risultato: secondo il Financial Times, nel 2012 Big G ha pagato all’Irlanda solo 17 milioni di euro, su 153,9 milioni di profitti e 15,5 miliardi di fatturato. Oggi sarebbe impensabile fare a meno di Google: è però un fatto che questa azienda, grazie al quasi monopolio pubblicitario online mondiale, disponga di riserve liquide superiori a molti Stati e possa permettersi di arrivare in qualsiasi mercato digitale, offrire servizi gratuitamente, uccidere la concorrenza e poi offrire gli stessi servizi a pagamento (vedi Google Apps).

Ma è bene intanto ricordare che queste società non fanno nulla di illegittimo: sfruttano le regole del mercato unico europeo, che permettono alle società di lavorare e operare in tutti i Paesi dell’Unione Europea senza dover aprire una sede legale in ciascuno di questi. Ossia, il “problema” non riguarderebbe solo l’Italia ma tutta Europa. Eppure i politici italiani pensano che è dall’Italia che si debba partire per “risolverlo”.
Il nodo sta nel semestre di presidenza italiana UE.
Il governo di Enrico Letta si vuole presentare al semestre con un programma di riforme che dipani gli orizzonti delle contraddizioni nella convivenza europea, una serie di attività di rafforzamento dei principî unitari che si possano rivelare appetibili agli altri Stati in termini economici e finanziari: «a partire dal web, magari».
Un Paese disastrato ma creativo come l’Italia trova idee originali come la “web tax” o come la stessa “censura sul copyright” per rispondere a una duplice esigenza: da un lato riempire casse sempre vuote, dall’altro colmare il vacuum fiscale creato all’interno degli Stati UE. Entrambe sono fondate su due voragini che la globalizzazione e il mercato del web hanno aperto in Europa: l’asimmetria fiscale che permette alle società multinazionali e alle holding di poter filtrare gli utili e la tassazione adatta al proprio scopo, nonché l’incapacità politico-economica degli Stati di determinare una tassa unica per le transazioni web e la raccolta pubblicitaria derivante dal mercato. Il fatto è che queste megasocietà Internet, al pari delle holding finanziarie, hanno scardinato i confini e usato con molto acume le differenti normative: il perno economico delle società del web si fonda sul principio della corrispondenza tra sede legale e posizionamento fisico dei server che gestiscono i flussi economici. Le stesse imprese di web marketing e advertising seguono il medesimo percorso.
La perdita per le casse degli Stati è talmente evidente che il caso è entrato nell’agenda del G20 e dell’OCSE. Tuttavia il gruppo di lavoro incaricato di trovare l’intesa per una riforma della tassazione si è trovato bloccato tra i rigoristi francesi, interessati a recuperare il loro denaro e preoccupati per la perdita di competitività della loro economia, e i moderati americani, decisi a tutelare la libertà di movimento dell’economia digitale.
La sciovinista Francia non si è arresa: ci è però andata coi piedi di piombo. Gli editori e il governo hanno accusato Google di violazione di copyright sui contenuti editoriali, finendo per sottoscrivere un’intesa attraverso la quale Mountain View si impegna a finanziare i progetti di innovazione digitale dell’editoria transalpina. Nel frattempo il governo di Parigi ha continuato a studiare l’introduzione di una “Google tax”. Il 10 settembre 2013 il Conseil National Numérique, l’ente transalpino che si occupa di innovazione digitale, ha concluso che l’introduzione di una tassa solo a livello nazionale avrebbe «penalizzato l’ecosistema francese» e «indebolito Parigi nei negoziati internazionali». Di conseguenza il governo francese ha deciso di portare il dossier in Europa chiedendo di creare una commissione ad hoc, con l’intento di allargare l’imposta ai 28 Stati UE. I leader di Stato e di governo avrebbero dovuto discuterne nel vertice di ottobre, ma lo scandalo Datagate ha sconvolto l’agenda.
Ci prova adesso (da sola) la classe politica più disastrata d’Europa o quasi: i finti avversari uniti nelle “larghe intese”, gli italiani PD ed ex-PdL.
È un compito che apparentemente può portare molto lustro a chi lo realizza. Se il Parlamento italiano riuscisse a creare il primo modello di riferimento sulla tassazione del web fondato sul principio del contatto o accesso alla Rete, quindi identificato fisicamente dal territorio e da uno “spazio digitale” (l’IP o il numero sim, accertati dai provider, dai siti commerciali e dai gestori di dati mobili), allora potremmo parlare di un principio di “sovranità strategica della Rete” in cui gli attori commerciali dovrebbero sottomettersi alle singole regole nazionali.
(L’alternativa sarebbe fondare la propria missione sulla sigla del “Trattato di libero scambio transatlantico”, includendo la visione sul web tra i punti di forza della ratifica: un segnale di grande capacità costruttiva tra popoli e mercati, all’interno di spazi e tracciati condivisi. Gioverebbe all’Europa, all’ultima idea plausibile per poter condividere questo ideale di unione fra nazioni che gli stessi cittadini europei ormai stanno accantonando delusi, sarebbe una giustificazione utile per poter continuare a “sacrificarci” nell’austerità che c’impone.)
Ma se non si hanno le idee chiare, meglio lasciar perdere.
E le idee sono tutt’altro che chiare. Per esempio nelle ultime settimane sono circolate cifre molto diverse su quanto potrebbe fruttare al fisco italiano la “web tax”: da poche decine di milioni di euro al “miliardo di euro” di Boccia, cifra che però è in contraddizione con le stime sui ricavi complessivi della pubblicità digitale in Italia (700/800 milioni di euro all’anno di fatturato totale, cioè prima delle tasse). Il problema è che non è possibile fare una stima affidabile di quanto denaro porterebbe la “web tax”: mentre è certo il suo impatto devastante sul settore Internet.
Per giunta, a fronte di cifre tutto sommato “scarse”, di converso ci saranno sempre un Tar, un tribunale o una Corte Europea che freneranno la fame da pentola bucata nei conti e la frenesia caotica della disparità di visioni giuridiche nei rapporti con l’economia del web. Creando però nel frattempo l’ennesima scusa per non venire né a investire né a comprare in Italia.

L’effetto deleterio di queste norme è perciò facile da prevedere e sarà quasi immediato negli effetti.
Soprattuto con la “web tax”. Che terrà lontani (ancor più di adesso) gli investitori stranieri e renderà molto più complicata la gestione della pubblicità a livello globale, con conseguenze gravi per le aziende italiane che promuovono all’estero i loro prodotti usando Internet.
Ma questa legge è un’autentica sciagura perché non è limitata alla raccolta pubblicitaria bensì è estesa a tutti i servizi online, nessuno escluso. Chi non lavora nel settore non se ne rende conto ma ci sono migliaia di piccoli servizi che vengono usati dalle aziende italiane, informatiche e non, piccole o grandi che siano. Quasi tutti i fornitori sono all’estero e quasi nessuno ha la dimensione necessaria perché valga la pena di avere a che fare con il nostro sistema fiscale, con le sue complicazioni e i suoi costi di gestione.
Un esempio banale che possono capire tutti: non si potranno comprare nomi di dominio da registrar non italiani. E non tutti i domini si possono comprare in Italia.
Altra cosa banale: non si potrà avere un server all’estero se non da quei pochi giganti che decideranno di prendere partita Iva in Italia — semmai ce ne saranno —. A oggi, se un’azienda ha ambizioni di servire grossi numeri di clienti di tutto il mondo, deve farlo con server fuori Italia. Bene: non potrà più, a meno di andarsene anch’essa all’estero.

Servirebbe insomma l’esatto contrario dell’iniziativa “apripista” tutta italiana e solo italiana del “perseguire i Goliath della Rete”: imitare l’Irlanda, cioè ridurre il prelievo fiscale e la burocrazia fiscale a uno standard competitivo con gli Stati europei; a quel punto sì che si potrebbero attirare — non obbligare! — Google, Amazon, Apple e quant’altri a versare qui in Italia la propria quota fiscale prodotta nella penisola, e al contempo con i proventi di quella quota provare a ridurre le tasse per tutti quanti noi.
Certo, così sarebbe troppo intelligente. Quasi british, nella sua semplicità. E infatti noi, che siamo italiani, cacciamo via dall’Italia il “web che conta”. Mentre l’Europa sta a guardare con curiosità: «andate avanti voi che siete scemi: così poi noi intelligentoni ci regoliamo sui pro e contro».
Stiamo giocando col fuoco.

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Per capire quanto l’andazzo italiano sia distorto e retrogrado rispetto al mondo del Terzo Millennio, ecco cosa dice il presidente americano Barack Obama agli studenti della Science Fair:

«Questa settimana sono orgoglioso di essere a fianco di studenti, insegnanti, imprese e organizzazioni no profit che si danno da fare per sostenere l’informatica nelle scuole americane. L’apprendimento di queste competitività non è solo importante per il vostro futuro, è importante per il futuro per il nostro Paese: se vogliamo che l’America paese sia sempre all’avanguardia abbiamo bisogno di giovani Americani come voi, in grado di padroneggiare gli strumenti e le tecnologie, che cambieranno il nostro modo di fare pressoché ogni cosa.
È per questo che vi chiedo di impegnarvi in questa sfida.
Non comprate un nuovo videogioco: fatene uno.
Non scaricate un’app: progettatela.
Non giocate col vostro telefono: programmatelo.
Nessuno è nato esperto di informatica, ma con un po’ di duro lavoro, di matematica e scienze, chiunque può diventarlo. Questa settimana è l’occasione per provarci. E non permettete a nessuno di dirvi che non potete farlo. Che voi siate un giovane uomo o una giovane donna, che viviate in città o in campagna, i computer occupano un ruolo importante nella nostra vita. E se siete pronti a studiare e lavorare sodo sarete voi a dare forma al vostro futuro.»

Bene, ora rapportiamo il discorso di Obama alla magnifica dirigenza politica del Paese delle caste e delle baronìe, dei Razzi e degli Scilipoti, dei Berlusconi e dei D’Alema…

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Aggiornamento del 19 dicembre

Amazon è “salva”, Google no. Il colosso guidato da Jeff Bezos e le altre multinazionali del commercio elettronico tirano un sospiro di sollievo: potranno continuare a vendere in Italia e pagare le tasse dove vogliono (in Paesi con regimi fiscali più convenienti). Dal testo della “legge di stabilità” sulla quale la Camera sarà chiamata a votare la fiducia al Governo, infatti, la Commissione Bilancio ha stralciato quella parte della cosiddetta “web tax” che riguarda l’e-commerce, limitando l’obbligo di avere una partita Iva italiana solo a chi vende pubblicità rivolta al mercato nazionale (quindi, su tutti, Google).

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