Siamo tutti migranti. Le grandi migrazioni hanno guidato la storia dell’umanità: impossibile bloccarle con le regole dell’economia, o con la forza ottusa della xenofobia.
Noi italiani che fummo fuggiaschi, pellegrini e migranti, dovremmo occuparci di fuggiaschi, pellegrini e migranti di oggi con più umanità e con più consapevolezza di tutti gli altri europei; di fronte a un migrante dovremmo sapere come comportarci ricordando cosa eravamo noi, quando partivamo con le valigie di cartone, quando andavamo a lavorare e spesso a morire, nelle miniere di carbone oppure già solo nel tentativo di partire.
Corpi in fila sui moli dei porti senza neanche sacche di plastica a coprirne la vergogna e la dignità calpestata. Volti mediterranei, volti italiani. Uno, due, tre, dieci, venti, la conta fu lunga, la conta è lunga ancora oggi, immagini del passato dentro immagini del presente. Centinaia di migranti africani morti negli ultimi giorni nei naufragi sui barconi della speranza, in fuga da povertà e guerra. Centinaia di emigranti italiani, annegati sui piroscafi che li portavano negli USA, in Brasile, in Canada, a inizio Novecento, ugualmente in fuga da povertà e guerra.
Anche il fenomeno degli “scafisti” e della tratta dei migranti non è nuovo: il boss Albert Anastasia si vantava del fatto che la mafia italoamericana era riuscita in pochi anni a far entrare clandestinamente 60 mila migranti italiani solo a New York, a dispetto del filtro di Ellis Island. “Wop”, acronimo di WithOut Passport, è stato uno dei soprannomi più comuni e più offensivi degli italiani negli USA, dov’era pronunciato («uàpp») così da suonare come “guappo”: i wop taliani espatriati senza passaporto ammonterebbero almeno a 4 milioni.
Ma anche nei circuiti ufficiali le cose non andavano in modo leggero: nel solo 1907 gli italiani “aspiranti americani” sbarcati a Ellis Island, “l’isola delle ostriche” di fronte a New York dove venivano accolte e filtrate le persone che chiedevano di vivere negli Stati Uniti, furono 1.285.349: ossia — altro che Lampedusa! — 3.521 al giorno.
L’oceano era un’angoscia, per chi non l’aveva mai visto. Tanto più che i santuari erano pieni di ex-voto con navi in balìa delle tempeste. Da chi era già nelle “Meriche” arrivavano lettere come questa, di tale Francesco Costantin, veneto: «Non trovo parole adeguate per descriverle per l’intiero lo sconvolgimento del piroscafo, i pianti, i rosari e le bestemmie di coloro che hanno intrapreso il viaggio involontariamente, in tempo di burrasca. Le onde spaventose s’innalzano verso il cielo, e poi formano valli profonde, il vapore è combattuto da poppa a prua, e battuto dai fianchi».
Caricate all’inverosimile di “tonnellate umane” e spesso ridotte a sgangherate carrette, le navi degli emigranti italiani erano esposte a epidemie che potevano essere devastanti. Il trasporto dei nostri nonni avveniva talvolta sugli stessi mercantili un tempo serviti alla tratta degli schiavi, con meno di due metri di aria per ogni essere umano. Le navi respinte dai porti del Sudamerica perché infestate dalle epidemie furono molte. Nel 1894 il “Matteo Bruzzo” contò 19 vittime solo sulla rotta del ritorno; il “Vincenzo Florio” 20 morti; peggio andò al “Carlo R” che, partito da Genova, dopo una sosta a Napoli fu sconvolto dal colera: 211 morti su un migliaio di passeggeri.
Ma il vero incubo furono i naufragi.
1891, Utopia
Nella copertina de “L’Illustrazione italiana” il naufragio dell’Utopia, un bastimento inglese che, partito da Trieste e fatta tappa a Napoli, trasportava 3 passeggeri in 1ª classe, 3 clandestini, 59 membri equipaggio e 813 migranti italiani. Arrivato davanti al porto di Gibilterra la sera del 17 marzo 1891 con un tempo pessimo e visibilità ridotta, sbagliò manovra e andò a sbattere contro il rostro di una corazzata alla fonda.
Colò a picco in pochi minuti, facendo 576 vittime. Quasi tutte meridionali.
1898, Bourgogne
Nell’immagine di “Le Monde Illustré” l’affondamento del Bourgogne, un piroscafo francese carico di emigranti per buona parte italiani, che naufragò il 4 luglio 1898 dopo una collisione con un veliero inglese al largo della Nuova Scozia: 549 morti.
Nell’altra illustrazione (a dx), copertina del “Petit Journal”, i corpi buttati dal mare sulla spiaggia.
I due Lusitania
Furono addirittura due i Lusitania che affondarono carichi di emigranti italiani. Il primo, salpato da Le Havre, si schiantò il 25 giugno 1901 contro una scogliera nelle acque di Terranova: 20 morti. Il secondo fu colato a picco da un sottomarino tedesco il 7 maggio 1915 mentre navigava da New York verso l’Europa. I morti furono 1.198, in massima parte lavoratori europei che rientravano in patria.
1906, Sirio
“Il tragico naufragio del vapore Sirio”, cantato da una famosa canzone, fu una delle pagine più nere. Partito da Genova il 2 agosto 1906 con oltre un migliaio di migranti, il piroscafo andò a schiantarsi due giorni dopo sugli scogli davanti alla costa spagnola di Cartagena, in una giornata limpida di sole. Scogli segnati su tutte le carte nautiche e accuratamente evitati da tutte le navi. L’equipaggio calò una scialuppa e abbandonò al suo destino la massa di contadini e montanari che non sapeva cosa fare. La nave rimase con la prua fuori dall’acqua per ben 16 giorni prima di affondare: eppure il caos e l’assenza di soccorsi provocarono oltre 500 vittime.
1912, Titanic
Anche tra i 1.523 morti del Titanic c’erano molti italiani.
1915, Ancona
L’Ancona era un piroscafo modernissimo; costruito nel 1908, dotato di due eliche, toccava i 16 nodi e in 3ª classe poteva ospitare 2.500 passeggeri. Quasi sempre emigranti. Il 7 novembre 1915, mentre infuriava la battaglia dell’Isonzo (Prima Guerra Mondiale), venne sorpreso da un sottomarino austriaco a sud della Sardegna: 206 migranti morti. L’amaro titolo de “L’Illustrazione italiana” fu indimenticabile: «Una vittoria navale dell’Austria».
1927, Mafalda
Gemello del Principessa Iolanda, affondato il giorno del varo, il Principessa Mafalda era stato a lungo la nave ammiraglia della flotta commerciale italiana. Il giorno che partì per il suo viaggio fatale, però, il piroscafo era ormai vecchio: al ritorno avrebbe dovuto essere smantellato. Per 8 volte i motori si fermarono già nel Mediterraneo: ciò nonostante, il capitano Simone Gulì si avventurò in Atlantico. Al largo del Brasile il Mafalda perse un’elica e l’acqua invase la nave. Il “Corriere della Sera”, su pressione di Mussolini, titolò «Poche decine di vittime». Un conteggio successivo (quello ufficiale) arrivò a 314. Ma il “Clarin” argentino denunciò un numero di morti più che doppio: 657.
1940, Arandora Star
L’Arandora era un transatlantico da crociera sequestrato dalle autorità inglesi all’inizio del Secondo Conflitto Mondiale. Fu qui che per ordine di Churchill («Acciuffateli tutti!»), dopo la dichiarazione di guerra di Mussolini, vennero caricati 700 immigrati italiani destinati alla detenzione in Canada. Una retata vergognosa che colpì antifascisti in esilio o ebrei fuggiti dall’Italia dopo le leggi razziali. La nave, su cui erano stati concentrati altri 500 prigionieri, fu intercettata e silurata da un sottomarino tedesco il 2 luglio 1940. Sparirono tra i flutti 446 persone.
* * *
Quando parliamo di immigrazione, non dobbiamo inoltre mai dimenticarci di che cosa è la legge “Bossi-Fini”. Una norma che vìola palesemente il principio del non-refoulement (non respingimento), il quale vieta di rimpatriare o espellere i richiedenti asilo forzatamente verso Paesi in cui potrebbero essere a rischio di gravi abusi dei diritti umani.
La legge Bossi-Fini (30 luglio 2002, n. 189) prende il nome dall’ex leader di Alleanza Nazionale Gianfranco Fini e da quello della Lega Nord Umberto Bossi (all’epoca rispettivamente vicepresidente del consiglio e ministro per le riforme istituzionali nel governo Berlusconi II), e regola le politiche sull’immigrazione in Italia.
La norma, che ha sostituito e modificato la precedente “Turco-Napolitano”, prevede due cose assolutamente inaccettabili per un Paese occidentale moderno:
1. L’espulsione degli immigrati “irregolari” (ossia in assenza di permesso di soggiorno e senza validi documenti d’identità) viene emessa in via amministrativa e deve essere immediatamente eseguita con l’accompagnamento alla frontiera da parte della forza pubblica; gli immigrati irregolari privi di documenti di identità validi devono essere portati nei centri di permanenza temporanea, i cosiddetti “cie”, istituiti dalla legge Turco-Napolitano, al fine di essere identificati e poi respinti.
2. La Bossi-Fini ammette i respingimenti al Paese di origine in acque extraterritoriali, in base ad accordi bilaterali fra Italia e paesi limitrofi; chi aiuta i migranti a entrare in Italia rischia l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, reato punito con la reclusione fino a tre anni e con una multa fino a 15mila euro per ogni persona “favorita”.
Molto banalmente, in assenza di risorse e investimenti e di procedure certe per la richiesta di asilo, il punto 1 si traduce nel recludere in autentici lager, in condizioni disumane, centinaia di persone — compresi donne e bambini — che magari stanno fuggendo dalla guerra, mentre il punto 2 impedisce i soccorsi a persone in difficoltà, invitando per esempio un peschereccio o un mercantile di passaggio a lasciar affondare le navi-catorcio in alto mare con tutto il loro carico di disperati onde “evitare guai con la giustizia”.
Tutto ciò è disgustoso.
Questa legge è figlia di una cultura secondo la quale è un valore in sé la preservazione della cultura tradizionale, è un valore in sé il Paese monoreligioso e monoetnico di cinquant’anni fa. Lo slogan leghista «Sì alla polenta, no al cous cous» rende benissimo questa visione. E non a caso Bossi ha voluto la paternità di una simile legge. Insieme a Fini, che all’epoca non aveva ancora scoperto il Futuro e la Libertà, quindi solleticava la pancia nostalgica del Paese.
Il terreno di coltura della legge attuale sono stati quello dell’indimenticato Pier Gianni Prosperini, di Alleanza Nazionale: «cammello e barchetta e tornatevene a casa», quello del leghista Borghezio: «Padania bianca e cristiana!», quello di Irene Pivetti che proponeva di «respingere i migranti a baionettate», quello del «mandiamo Schettino a prenderli, gli africani», e altre bestialità.
La legge Bossi-Fini, insomma, non è stata affatto il parto di un ragionamento pragmatico sul numero di persone che si possono positivamente integrare, sul balance tra doveri umanitari e possibilità d’accoglienza, sugli studi — pur numerosi e approfonditi — su benefici e costi dell’immigrazione. Si trattò all’epoca semplicemente della trasformazione in legge di un sentiment razziale, di una sub-ideologia monoetnica. Qualsiasi discussione per cambiarla, la Bossi-Fini, deve prima fare piazza pulita — ma molto pulita – di tale ideologia. Ricordando cos’eravamo noi italiani fra fine Ottocento e inizi Novecento, in fila al “cie” di Ellis Island — o, se andava male, carne per i pesci.
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