Quand’ero poco più che ventenne ruppi gli indugi post-adolescenziali, abbandonai la facoltà di Architettura, la mia terra e le mie cose per gettarmi a capofitto in un “sogno di modernità” da costruire per la vita: diventare pubblicitario. Era il 1986 e quel mestiere, in quell’esatto momento, era LA modernità. Era il «fai un lavoro che ti piace e non lavorerai mai in vita tua». Era, soprattutto, il Top Culturale: la Comunicazione e il Marketing erano l’orizzonte del “mondo perfetto” ereditato dal positivismo del boom economico. (Personalmente, erano anche il matrimonio perfetto per le mie varie vene artistiche: Disegno, Musica e Scrittura erano —e sono ancora— un tutt’uno nella Pubblicità.)
Se oggi avessi 20 anni non avrei dubbio alcuno, mi getterei con la stessa passione in tutt’altro campo: il Digitale. Informatica, web, software.
È sempre un “mondo della comunicazione”, certo: però la modernità di linguaggio, a distanza di appena un quarto di secolo, non si basa più sull’ottimismo un po’ calvinista della produzione e diffusione di beni, cui le tre arti citate sopra erano asservite, bensì sulla velocità, facilità e comodità nella circolazione di qualcosa di assolutamente immateriale: le informazioni stesse.
Più banalmente: ieri per un giovane era «figo» il mestiere di costruire un poster o un annuncio stampa per un prodotto di consumo o per un marchio, coi pennarelli prima e con un Mac poi; ora è incredibilmente sexy padroneggiare una piattaforma di content management o scrivere codice Javascript per animare un sito web o programmare un’app per tablet e smartphone, con il fine di veicolare una quantitàdi cose incredibilmente più estesa (non cecessariamente prodotti, anzi: arte, progetti, opinioni, filosofie, singole persone, movimenti…) e sovente più moralmente corretta.
Ma la rivoluzione riguarda anche la Letteratura. Fino a ieri era impensabile per uno scrittore pubblicarsi e distribuirsi da solo; oggi è possibile, e siamo già alla fase in cui è anche possibile “a costo zero”. Sempre per citare la mia esperienza personale — stavolta quella di scrittore —, sono passato dall’autoproduzione cartacea a quella elettronica, e sempre senza l’ausilio di editori né negozi, tanto da presumere di poterlo insegnare ad altri autori, facendone perfino una filosofia e trascinando la gente in esperimenti del tutto inauditi.
Eppure sono limitato. Sono confinato “a metà strada”. Sono soltanto un “geek”, uno sperimentatore di modernità digitale: so mettere in piedi un sito (purché non troppo tecnologico) e agganciarlo ai Social Media, e so realizzare un ebook per Amazon, ma non saprei proprio come costruire un negozio online o una app da scaricare sul telefonino per farti ordinare i miei libri da lì. Oggi mi farebbe assai comodo essere un esperto vero. Un programmatore. Un hacker, magari. Ma è troppo tardi per partire e accumulare la necessaria esperienza.
A mia parziale consolazione, nel mio piccolo, c’è comunque una certezza: anche così limitato, anche così in mezzo al ponte fra la modernità di ieri e quella di domani, sono molto più avanti della gran parte delle persone che conosco e della società che mi circonda…
La Cultura è sempre più “geek”.
E a questo punto è meglio che io risponda alla domanda «Chi e/o cosa sono i Geek?»: sono le persone che con maestria usano e amano gli strumenti innovativi. Ne esistono di diversi tipi: il geek informatico è il più noto, ma per estensione ogni campo di studi e molte realtà culturali hanno i loro geek — in politica, geografia, scienze naturali, musica, storia, linguistica, sport.
Fino a pochi anni fa il mondo delle tecnologie era considerato un dominio tipico di questa categoria di cose e di persone, caratterizzata da una connotazione non sempre positiva (i Geek, insieme agli altrettanto tecnologici Nerd, vengono per esempio ingenerosamente accusati di scarse capacità di socializzazione). Oggi che la nostra cultura è sempre più digitale, invece, c’è un rovesciamento di prospettiva: la tecnologia è diventata il sistema nervoso attraverso cui la nostra cultura circola e viene elaborata. Sta cambiando il modo in cui la cultura funziona. E il “lessico geek” è sempre più centrale nel descrivere come funzionano i settori cruciali del nostro quotidiano: dalla politica all’istruzione, dal giornalismo alla circolazione delle idee, dai prodotti culturali alle logiche interne delle nostre città.
Così non stupisce che le tendenze da osservare per il 2013 siano permeate da fattori che non hanno apparentemente nulla a che vedere con la nostra idea tradizionale di “cultura”, ma che stanno cominciando ad avere un impatto molto forte sul modo in cui viviamo. E sono concetti importanti da conoscere, se si vuole far parte della contemporaneità.
Ci sono tecnologie destinate a cambiare le regole del gioco. Che modificano e modificheranno sempre di più il modo in cui vendiamo, compriamo, collaboriamo, impariamo, innoviamo e facciamo tutto il resto. E non si tratta solo di Internet, no.
A molta gente i trend tecnologici continuano a sembrare solo astrusità incomprensibili. Ma sono gli assi su cui si sta muovendo il mondo. Quando parliamo di “big data” o di “cultura degli algoritmi”, ci stiamo riferendo di un modo nuovo di raccontare (e raccontarci) la realtà. Di un approccio destinato ad avere un impatto sul nostro lavoro, sul nostro quotidiano, sul nostro futuro imminente.
Big Data per esempio è uno snodo cruciale delle prossime cose a venire: è il modo di trattare volumi di informazioni in costante aumento che non possono essere gestiti utilizzando applicazioni analitiche e sistemi database tradizionali (un esempio è costituito dai dati correlati alle informazioni di Facebook e Twitter). La cattura e l’analisi di questi dati può portare vantaggi enormi in termini di processi decisionali. Il problema di fondo è la complessità che si cela dietro queste operazioni: complessità che supera i limiti attuali delle piattaforme e sistemi dedicati alla gestione e all’analisi dei dati.
Esistono forme e dimensioni diverse dei Big Data, così come esiste una molteplicità di utilizzo: ricerca in tempo reale di tentativi di frode, analisi competitiva su Internet, ottimizzazione di call center, analisi dei Social Media, gestione intelligente del traffico… Per soddisfare questo tipo di esigenze si devono trattare significativi volumi di dati, “multi-strutturati” e soggetti a una continua espansione.
Negli ultimi vent’anni la maggior parte delle applicazioni analitiche sono state create utilizzando dati strutturati estratti da sistemi operazionali che venivano poi consolidati su data warehouse; la particolarità di Big Data è invece contraddistinta da due fattori inattesi: aumento esponenziale del numero di sorgenti dei dati, incredibile varietà dei contenuti.
Fino a ieri le soluzioni in questo campo non potevano essere sviluppate in quanto troppo costose da implementare, o per l’inadeguatezza delle infrastrutture hardware/software: oggi l’evoluzione tecnologica sta rendendo possibile l’impossibile. Big Data.
Per avere un’idea dell’importanza di questo campo di ricerca può essere utile la descrizione che ne fa Ray Rivera del New York Times: «I Big Data sono probabilmente l’unica tecnologia che può rivaleggiare con la capacità della televisione di catturare il mondo in modo profondo e panoramico, riuscendo contemporaneamente a plasmarlo».
Quanti dei nostri leader conoscono anche il solo concetto di “big data”?
L’impatto di queste innovazioni non è la tecnologia in sè, ma la capacità di modificare il comportamento di milioni di persone e di ridisegnare le regole della cultura, della società e del vivere civile. Possiamo ancora permetterci di raccontare il mondo di oggi senza avere una comprensione profonda di come queste tendenze lo stanno modificando?
No. E purtroppo il nostro sistema educativo non è affatto pronto a insegnarci a farlo. O perlomeno non in maniera diffusa e omogenea. La responsabilità di raccontare la cultura che cambia è completamente delegata a chi fa informazione, da insider, da analista o per una testata professionale. Perfino i libri cominciano a essere lenti a narrare qualcosa che evolve così in fretta — figuriamoci la Scuola.

Ma il vero rischio è un altro: è che la stragrande maggioranza di noi, a partire dalla classe dirigente, finisca per sottovalutare quello che sta accadendo, semplicemente perché nel parlarne si utilizza un lessico oscuro. Perché sentiamo «tweet» o «algoritmo» e pensiamo a cose che potrebbero non riguardarci. Perché ci appare «roba da ingegneri» o «da tecnocrati». E perché, più realisticamente, non accettiamo di avere di nuovo su di noi la responsabilità di studiare quello che ci accade intorno. E dunque di imparare a considerarlo importante.
Ogni nuova tecnologia porta con sé una serie di questioni che vanno affrontate, e vanno affrontate con consapevolezza. Non farlo equivale a un passo indietro, a un indirizzarsi verso una rassegnata barbarie.
La nostra cultura sta completando un cambiamento radicale: è il momento di prenderne atto. Di cominciare a lavorarci, di mettere con più convinzione in agenda il tema, invece di appassire sulla nostalgia, sulle frasi precotte tipo «a un ebook preferisco il profumo della carta». Magari è il momento di metterlo in agenda anche fuori dai consessi degli “early-adopter” e di lavorare con più attenzione sulla divulgazione e sull’appartenenza culturale di un pubblico più ampio.
«Abbiamo bisogno di un intero set di nuove capacità», scrive Jill Geisler di Poynter, «per far fronte a questi tempi di grande sfida e cambiamento». E propone le sue 10 skills che i leader moderni dovrebbero avere: Pensiero strategico, Collaboratività, Intelligenza emotiva, Pensiero critico, etc.. Ma gli elenchi potrebbero essere tanti e diversi.
Sono tecnologie che modificano anche il modo in cui pensiamo. Che lavorano sui tanto decantati motivi dello sviluppo e della crescita (delle comunità locali come degli Stati). E ce ne sono tante altre in arrivo. La capacità di un Paese di essere moderno e competitivo ha una buona correlazione con la capacità dei suoi cittadini di comprendere il nuovo che hanno intorno.
È ancora ammissibile, nel 2013, non solo per uno scrittore o per un pubblicitario o per un musicista ma per un politico, per un preside, per un insegnante, per un dirigente d’azienda, per un imprenditore, far finta che la tecnologia sia “altro da sé”, facendone un po’ snobisticamente (lo snobismo della volpe verso l’uva) e tanto tanto irresponsabilmente a meno? No! Perché qui, è palese, non stiamo parlando del semplice manuale di istruzioni di un frigorifero…
«Il futuro arriva in fretta», dice una massima, ed è così dal Novecento: ma ha una direzione e una responsabilità. Il modo migliore per predire il futuro è quello di inventarlo.
Cosa stiamo facendo, invece, noi? E quando dico «noi» intendo la società italiana: che facciamo in Italia?
(Io sono comunque un “geek”, fratello, e lo dico con orgogliosa amarezza: tu cosa sei? Sei di quelli che a un ebook preferiscono il profumo della carta? E poi ti sorprendi se in Germania o in Olanda «si vive meglio»?)

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