Perché noi Italiani siamo fatti così male? Quali oscure, torbide ragioni ci inducono ad accodarci plaudenti al despota di turno, sempre più privi di ogni senso di responsabilità civile? Perché quelli di noi rimasti con un po’ di sale in zucca sono da secoli (il problema è antico) costretti a vergognarsi di “essere italiani” al cospetto di stranieri che ci accusano — a ragione — di decadenza, corruzione, debolezza, conformismo, passività politica e morale?

Ci fu un tempo in cui l’Italia era “la civiltà” e gli altri “i barbari”. Uno splendore italiano che, al di là della gloriosa e irripetibile Romanità, raggiunse l’apice in epoche più recenti con l’Umanesimo e il Rinascimento.
Come illustra Wikipedia, «per “Umanesimo” si intende quel vasto movimento culturale che, iniziato negli ultimi decenni del Trecento e diffusosi nel Quattrocento, ha come caratteristica principale la riscoperta dell’Uomo attraverso la ricerca e la letteratura dei classici latini e greci: “humanae litterae” o “studia humanitatis”, da cui appunto trae origine il termine “Umanesimo”. Alla visione medievale della vita, che poneva Dio al centro dell’Universo e imponeva all’Uomo una totale sottomissione al volere e al potere della Chiesa, gli umanisti contrappongono una visione in cui l’essere umano è posto al centro dell’Universo ed è considerato artefice e padrone del proprio destino. Si diffonde una grande fiducia nell’intelligenza umana; si esaltano, in particolar modo, la dignità dell’Uomo, la sua superiorità sugli altri esseri naturali, le sue innumerevoli capacità creative. Centri di diffusione della nuova cultura sono soprattutto le grandi corti signorili, in particolare la corte di Lorenzo de’ Medici detto “il Magnifico”, presso la quale si riuniscono moltissimi artisti e letterati del tempo».
Pico della Mirandola fu autore di una “Oratio de hominis dignitate” che gli storici considerano il “manifesto” del Rinascimento, l’opera che meglio spiega e descrive il genio creativo dell’Italia di quegli anni. Di fronte alla «fervida Italia» (dal Trecento a tutto il Cinquecento) il mondo continuava reverente a inchinarsi: l’elogio attraversava i secoli e tutto lasciava credere che non sarebbe mai finito.
Umanesimo e Rinascimento avrebbero altresì portato ben presto l’Italia a unificarsi anche politicamente: il primato morale e intellettuale della Penisola in Europa avrebbe determinato la necessità di una simile conseguenza. Avremmo avuto l’Unità non nel 1861 ma già nel XVI secolo, saremmo stati avanti a Francia e Stati Uniti, e forse oggi l’Italia sarebbe qualcosa di molto diverso, e di più “grande” (e stimato), a livello planetario.
A conti fatti l’italiano, comunque lo si voglia giudicare oggi, spunta fuori da lì, proviene da quel «bagliore fatto di tante luci improvvisamente accese», a cominciare da quella di un idioma che quasi non fa in tempo a nascere e già si incarna in una serie di capolavori che dettano legge ancora oggi: basti pensare a Dante, Petrarca, Boccaccio. Non accadde da nessun’altra parte, sebbene una letteratura provenzale e una letteratura francese precedettero di oltre un secolo quella italiana (benché entrambe prive di forti personalità poetiche, con un significato forse più sociale e politico che artistico).
Che cosa successe, dunque? Che cosa impedì al nostro luminoso destino di compiersi?
Qualcosa avvenne, e di grosso, a livello teocratico: una “protesta” contro la Chiesa Cristiana corrotta. Gli eccessi mondani della Chiesa “secolare”, rappresentata dall’èra di Alessandro VI (1492–1503), erano esplosi sotto papa Leone X (1513–1522), la cui campagna per raccogliere fondi per ricostruire la Basilica di San Pietro con la “vendita delle indulgenze” fu la chiave che sollecitò la “protesta delle 95 tesi” di Martin Lutero. Una dissidenza che portò alla scissione del Cristianesimo, con la Riforma Protestante, muovendo dalle istanze di Lutero e dei vari Giovanni Calvino, Ulrico Zwingli, Thomas Müntzer e Filippo Melantone.
Alla spaccatura protestante, la Chiesa reagì con la causa primigenia di tutti i nostri mali attuali: la Controriforma.
Alla rottura dell’unità cristiana dovuta alla “ribellione” di Lutero, l’Europa si divaricò in due contrapposte concezioni religiose e politiche che non tardarono ad avere ripercussioni di carattere addirittura antropologico — in ogni caso, di natura culturale tra un’Italia attraversata da una prepotente vocazione teocratica (è esattamente a questo punto che nasce quella “questione cattolica” che non ci scrolleremo più di dosso) e un’altra cospicua parte del continente avviata sulla strada di una laicità destinata ben presto a trasformarsi in “rivoluzione borghese”.
L’italianissimo servilismo con prospettiva di lucro, o comunque di vantaggio contingente, e relativa mancanza di scrupoli e di senso della responsabilità, si caratterizzano sempre più come il portato di un lungo, lunghissimo addomesticamento che si sviluppa nei secoli a partire dalla Controriforma fino ai giorni nostri senza soluzione di continuità. Vengono dalla Controriforma gli effetti nefasti del cattolicesimo sul popolo italiano, sul nostro modo di essere cittadini, anzi sudditi poco inclini alla responsabilità individuale, poco sensibili al nostro destino morale, sempre intenti a tessere compromessi con noi stessi e con il mondo, convinti che la ricetta della felicità stia soprattutto nel conferire deleghe in bianco a chiunque si mostri saldamente in possesso di quel bene ineffabile che si chiama “carisma” (parola greca che in origine significava semplicemente “grazia”, ma che nella teologia cattolica, come spiega il dizionario Garzanti, sta per «dono soprannaturale che Dio può elargire a un credente per il bene della Chiesa»). Viene voglia di dire che in cima ai nostri pensieri di italiani perfetti (per fortuna ci sono anche gli imperfetti) ci sono soprattutto “uomini della Provvidenza” dotati di molto carisma. L’odore che preferiamo è quello dell’incenso.
La Controriforma espulse dall’Italia quell’«homo novus» che era stato appena plasmato da Umanesimo e Rinascimento sostituendolo con un suddito deresponsabilizzato, vera e propria maschera della sottomissione e della rinuncia a ogni forma di autonomia di pensiero. Essa trovò nel popolo italiano un materiale umano nient’affatto malleabile — anzi di grana dura e speciale, come sta a dimostrare la vicenda di Giordano Bruno che muore sul rogo convinto che la libertà di giudizio è tutto e senza libertà di giudizio la vita non è più un bene, non vale nulla, meglio non viverla affatto —, e reagì muscolarmente.
Gli Italiani, non ancora “coagulati” in in vero e proprio popolo, furono costretti a vivere l’esperienza di una sottomissione (di cui continuano a pagare le conseguenze) attraverso quel “divieto di pensare in proprio” che si trasformerà ben presto in conformismo coatto e cortigianeria. Che cosa fu infatti la Controriforma se non l’obbligo ad affidarsi ciecamente alla parola dei papi e delle gerarchie della Chiesa, unica titolata a pronunciare sentenze di merito, e non soltanto nel campo etico e in quello dei comportamenti quotidiani, ma perfino in quello scientifico?
La Chiesa pretende di avere proprie risposte a qualunque quesito, terreno e ultraterreno. Risposte indiscutibili. Risposte che non ammettono alcun compromesso. Risposte che esigono soltanto cieca obbedienza. Possiamo ben dire che la Chiesa, tra il Cinquecento e il Seicento e anche oltre, farà conoscere con notevole anticipo all’Italia (e non soltanto) il fascismo che si annida tra le pieghe del potere, di qualsiasi potere e tanto più di quelli che non si accontentano di imporre le proprie regole con la forza bruta ma pretendono d’impossessarsi della coscienza stessa del cittadino, espugnandone mente e cuore.
Il modello Inquisizione, oltre a costituire una sorta di rappresentazione anatomica del potere dispotico, può essere considerato, almeno in parte, un caso di “fascismo vincente”. Fu messa in moto la più mostruosa macchina repressiva fino ad allora conosciuta, le cui conseguenze arrivano fino ai nostri giorni (e tutto lascia pensare che li supereranno).
Circa le tecniche per il controllo delle anime, l’istituto della “confessione” divenne lo strumento principe usato da Santa Romana Chiesa per raggiungere i suoi scopi. Per Agostino di Ippona (“sant’Agostino”, 354–430 d.C., massimo pensatore cristiano del primo millennio e certamente anche uno dei più grandi geni dell’umanità in assoluto), soltanto Dio sa se nel confessarmi ho detto la verità oppure ho mentito, quindi soltanto Dio è in grado di giudicarmi ed eventualmente assolvermi (i primi capitoli del libro Decimo delle “Confessioni” risultano particolarmente illuminanti su questo tema). La Controriforma sovvertì tale principio: essa conferì in maniera definitiva alla confessione carattere privato e auricolare; prevalse la concezione del peccato come crimine, almeno in parte risolvibile, oltre che attraverso il pentimento, sulla base di una “transazione” con l’autorità ecclesiastica. In altri termini, la Chiesa cattolica romana pretese (e pretende) di esercitare, attraverso la penitenza, un potere disciplinare sui singoli cristiani, in netta contrapposizione con la concezione protestante della penitenza che non ha niente da spartire con «l’espiazione mediante le opere o il pagamento in denari».
Se una data di nascita può essere attribuita al cittadino italiano post-rinascimentale, essa cade fuori d’ogni dubbio in quel 1545 in cui prese il via il Concilio di Trento, fonte di decisioni capitali e irreversibili. Fu infatti nel corso di quell’assemblea che il nostro carattere nazionale prese definitivamente forma come “dipendenza” da un’autorità frapposta in maniera ineludibile tra noi e la nostra coscienza. Tra noi e il nostro Dio. Fu allora che i sacerdoti furono definitivamente sciolti dall’obbligo della segretezza riguardo alle rivelazioni apprese in confessionale e costretti a denunciare all’Inquisizione, oltre alle persone sospettate di eresia, anche i nomi dei loro eventuali complici. E fu sempre allora che cominciarono ad ardere, assieme ai roghi, anche i primi falò di libri giudicati in prevalenza veri e propri strumenti di Satana messi in circolazione per devastare menti e anime.
Nel contrasto della penitenza come “conversione”, rientro in se stessi, strada verso Dio, e la confessione come tribunale delle colpe, è racchiuso il più ampio conflitto tra una “religione della coscienza” e una “religione dell’autorità”. Fu ribadito e disciplinato il vecchio sistema delle pratiche e degli scambi maturato nel tempo intorno alla penitenza, che diventò di fatto la soluzione cattolica alla speranza di salvezza nell’aldilà, e nello stesso tempo lo strumento del dominio e controllo delle coscienze da parte dell’autorità ecclesiastica.
«Quando si pensa all’Italia si pensa al Rinascimento. Ma l’Italia attuale è l’opposto dell’Italia del Rinascimento. Essa è il prodotto di tutte le forze storiche che hanno voluto combattere gli effetti de Rinascimento cancellandone il risultato. La prima di queste forze è la Controriforma, sotto il suo aspetto primitivo dapprima, quello della fine del XVI e del XVII secolo: interdizione del teatro in Italia, direzione dell’arte, soppressione della letteratura umanistica e non religiosa, lotta conto il movimento scientifico. Cattolicesimo spagnolo e austriaco. Inquisizione. Spionaggio politico e religioso. Niente libri stranieri, proibizione di pubblicare qualunque cosa che non sia stata censurata cinque o sei volte. Questo stato di cose si prolunga sino al XIX secolo o piuttosto si generalizza. Vedere la descrizione di Stendhal e di Taine. Una sola eccezione sino alla fine del XVIII secolo: Venezia. Essa è anche il solo paese d’Italia dove ci sia ancora una pittura originale nel XIII secolo. Altrove la Chiesa sterilizza istantaneamente tutto ciò che tocca. È istruttivo vedere dei centri politici, intellettuali e artistici già molto brillanti, Ferrara e Urbino per esempio, ridotti a zero dall’oggi al domani, dopo che la Chiesa vi ha messo sopra le mani: stasi di qualsiasi produzione, morte e tristezza (ancora oggi); svendita delle opere d’arte da parte dei cardinali legati. (…) La Controriforma, il contro-Rinascimento, si estende in Italia nel XVII e XVIII secolo. Si rinnova e si aggrava nel XIX secolo fino all’Unità. Nel XX secolo, dopo la seconda guerra mondiale. La Chiesa si affanna instancabilmente a spegnere tutto ciò che era stato alla base del Rinascimento: libertà intellettuale, libertà morale, curiosità scientifica, gusto della bellezza in se stessa, avidità di godere la vita, ricerca appassionata su tutte le idee.»
(Jean-François Revel, “Pour l’Italie”, 1958)
La confessione è a sua volta parente del pentitismo, fonte di delazione che si fonda su precisi programmi di scambio: protezione e benefici giudiziari contro informazioni, testimonianze, denunce. Non è forse diventata, l’Italia, il Paese dove tutti si pentono? In cui tutti si confessano? In cui tutti contano su una riabilitazione facile che restituisca loro la possibilità di nuovi peccati da confessare e di cui pentirsi in futuro?
Di fronte al ricco che ruba, evade, specula, mette sul lastrico la povera gente, la Chiesa non ha mai agitato crocifissi al grido di «Vade retro, Satana!». Il che ci autorizza a chiedere se questo silenzio, questa ostentata disposizione alla benevolenza, non abbiano incoraggiato e non continuino a incoraggiare abusi e reati, insomma se non configuri un “costo” economico per l’intera comunità.
C’è chi si chiede come possano tanti malavitosi, autori di delitti efferati, dirsi convintamente cattolici e partecipare a cerimonie e riti religiosi; se ciò non avvenga per effetto di un qualche paradossale equivoco da parte loro. Ecco un modo per dimenticare chi siamo e da dove veniamo. Come se roghi, supplizi e abusi di ogni genere non fossero stati garantiti da una vera e propria teologia della crudeltà e della delazione.
Un tema che non è stato ancora indagato — almeno non è stato ancora indagato a fondo — è quello delle connessioni tra la cosiddetta Onorata Società e le istituzioni religiose meridionali soprattutto nel nostro passato remoto, quando si originarono le prime strutture mafiose all’ombra dei potentati locali, impasto di aristocrazia terriera e clero (i rapporti della mafia con il potere non sono certo una novità del Novecento). Quanto al ruolo di alleato naturale sostenuto dalle gerarchie ecclesiastiche nei confronti dei ceti dominanti nell’Italia del Sud, esiste una vasta letteratura al riguardo: c’è solo l’imbarazzo della scelta. Secondo il giornalista Frarcesco Merlo, la mafia avrebbe addirittura mutuato l’intero sistema penale dell’Inquisizione. La “faccia tagliata”, per esempio, era la tortura che la Chiesa infliggeva all’eretico. E il “sasso in bocca” è la variante mafiosa della mordacchia inquisitoriale, pena comminata al bestemmiatore.
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Servili, bugiardi, fragili, opportunisti: il mondo continua a osservarci stupito e a chiedersi donde provengano tante riprovevoli inclinazioni, tanta superficialità etica e tanta mancanza di senso di responsabilità. Colpa delle stelle?, del clima?, della natura beffarda che ci avrebbe fatti così per puro capriccio? Affatto!
Dopo oltre quattro secoli, la “fabbrica dell’obbedienza” continua a produrre la sua merce pregiata: consenso illimitato verso ogni forma di potere (tanto meglio se dal cuore marcio, dal momento che la Controriforma sa essere sempre molto indulgente con se stessa e con i propri alleati e sostenitori). Da allora nulla è più cambiato: l’italiano si confessa per continuare a peccare; si fa complice anche quando finge di non esserlo; coltiva catastrofismo e smemorante cinismo con eguale determinazione. Dall’Ottocento unitario al Fascismo, dal dopoguerra democristiano alla stessa dinamica del Compromesso Storico, fino alla maestosa festa mediatica del berlusconismo — che, c’è da scommetterci, proseguirà nell’inciucio che porterà gli attuali PD e PdL a confluire nel nuovo “partito tecnico di Monti” nel 2013 —, il proverbiale “Mario Rossi” ha indossato la stessa maschera dell’ossequioso Girella (il protagonista del “Brindisi”, poesia scritta da Giuseppe Giusti e pubblicata nel 1844), un uomo che aveva la caratteristica di cambiare opinione in continuazione schierandosi sempre dalla parte del più forte, del vincitore — e di ciò si vantava —: «viva il potere!, viva i ricchi!, viva la Chiesa!».
(Omaggio a “La Fabbrica dell’Obbedienza”, di Ermanno Rea: saggio, pamphlet, sfogo, invettiva, manifesto… comunque lo si voglia definire, un libro di straordinaria lucidità e saggezza, una riflessione che diventa sbrigliata ricognizione storica, appassionato atto di accusa, istigazione al pensiero. Un grande «no» scolpito nel tempo dei «sì» più vischiosi che la società civile italiana abbia mai conosciuto. Un libro che tutti gli Italiani rimasti «col sale in zucca» dovrebbero leggere avidamente, per scoprire da dove veniamo. E forse anche per capire come uscirne.)
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