Un grido di dolore digitale

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Recita un famoso aforisma che «si apprezza veramente qualcosa solo quando la si perde».
Con l’autocensura preventiva di Wikipedia Italia ci si cala completamente in tale archetipo: perché si è persa una cosa il cui valore è inestimabile. La gratuità del sapere.
Per la prima volta nella Storia dell’umanità, lo “scibile” è stato portato a tutti gli esseri umani, alla distanza di appena un “clic”; soprattutto, la sterminata conoscenza accumulata dall’Uomo è stata resa disponibile all’Uomo, pur con qualche inevitabile difetto (una web-enciclopedia scritta e modificata dai lettori non è immune da strafalcioni e fonti incerte, e ha talvolta fatto impallidire studiosi, spaventato accademici e depistato studenti convinti di avere a portata di mouse un’autorevole “Treccani gratuita”), senza pretendere nulla in cambio, né un controvalore né una merce barattata né lavoro né sacrifici né preghiere, nulla. È un miracolo reso possibile da Internet, dove il “gratis”, in un mondo reale cupo in cui la finanza e il capitalismo hanno plagato ogni ambito, è il vero valore eletto a norma.
Lo “strumento Wikipedia” deve ancora essere migliorato, certo: ma il miracolo del “sapere per tutti” resta. E resta vastissimo, come nessuna “vera” enciclopedia potrebbe garantire: per esempio, nessuna “autorevole Treccani” rende disponibile un maestro come Hitchcock o le teorie di Graham Hancock (controllare per credere).

«Negli ultimi 10 anni» recita il comunicato con il quale il portale, il 4 ottobre 2011, ha oscurato la sua parte in lingua italiana, «Wikipedia è entrata a far parte delle abitudini di milioni di utenti della Rete in cerca di un sapere neutrale, gratuito e soprattutto libero. Una nuova e immensa enciclopedia multilingue e gratuita. Oggi, purtroppo, i pilastri di questo progetto — neutralità, libertà e verificabilità dei suoi contenuti — rischiano di essere fortemente compromessi dal comma 29 del cosiddetto ‘DDL intercettazioni’. Tale proposta di riforma legislativa, che il Parlamento italiano sta discutendo in questi giorni, prevede, tra le altre cose, anche l’obbligo per tutti i siti web di pubblicare, entro 48 ore dalla richiesta e senza alcun commento, una rettifica su qualsiasi contenuto che il richiedente giudichi lesivo della propria immagine. Purtroppo, la valutazione della “lesività” di detti contenuti non viene rimessa a un Giudice terzo e imparziale, ma unicamente all’opinione del soggetto che si presume danneggiato».
Il comunicato prosegue con un corollario assolutamente logico: «Quindi, in base al comma 29, chiunque si sentirà offeso da un contenuto presente su un blog, su una testata giornalistica on-line e, molto probabilmente, anche qui su Wikipedia, potrà arrogarsi il diritto — indipendentemente dalla veridicità delle informazioni ritenute offensive — di chiedere l’introduzione di una “rettifica”, volta a contraddire e smentire detti contenuti, anche a dispetto delle fonti presenti».

Non entro nel merito della questione, né dall’una né dall’altra parte.
Dal punto di vista di Wikipedia, la decisione di sospendere il suo servizio rappresenta una pietra miliare nella storia del web e della tutela del diritto alla libertà dell’informazione sulla Rete. A prima vista è una fondamentale presa di coscienza per i collaboratori e i fruitori della più grande opera collettiva che l’umanità abbia conosciuto, improvvisamente messi di fronte agli effetti delle norme censorie approvate dal Parlamento di un unico Paese — che non è uno dei “soliti oscurantisti” Iran o Cina o Birmania ma la “democratica” Italia! —; a una più oculata analisi, visti i ripetuti problemi di sopravvivenza avuti dall’enciclopedia on-line in tempi recenti, la clamorosa azione potrebbe indurre anche un pensiero malizioso (insomma, l’occasione per farsi pubblicità era ghiotta). È però innegabile che «lasciare all’arbitrio dei singoli la tutela della propria immagine e del proprio decoro invadendo la sfera di legittimi interessi altrui» è il punto debole del famigerato “comma ammazza-blog”: che diritto ho io, Pinco Pallino, di togliere a tutti gli altri navigatori italiani, “entro 48 ore”, un qualsivoglia contenuto senza che ci sia un giudice imparziale che esamini la questione e dica se ne ho il diritto o meno — c’è soltanto un giudice-cecchino che, su mia sollecitazione, impallina un sito web soltanto perché lo chiede Pinco Pallino —? Quale diritto ha Pinco Pallino di sottrarre a milioni di persone Socrate e la Meccanica Quantistica, Orson Welles e il Rinascimento, la Storia la Geografia la Geometria l’Ingegneria la Chimica e tutto il resto del “Sapere”? Wikipedia non ha una redazione, come un giornale o un blog: “togliere una pagina entro 48 ore, pena l’oscuramento di tutto il sito” (milioni e milioni di pagine, su Wikipedia) è impossibile; Pinco Pallino si ritrova quindi un potere — giusta o sbagliata che sia la sua rivendicazione — che nessun singolo, nell’èra dell’informatica, ha mai posseduto…
Dal punto di vista “governativo”, che l’Italia berlusconiana sia ormai una semi-dittatura mascherata non lo scopro certo io, e questo attacco alla Rete è solo uno dei tanti — e finora quasi tutti inutili — tentativi di tappare la bocca al dissenso. Internet, con la sua capacità di convogliare la protesta anche attraverso una satira collettiva feroce (cfr. il “caso Pisapia”), è il nemico dichiarato del gruppo politico che ha la sfrontatezza di definirsi Popolo “della Libertà”. Questo episodio è il frutto avvelenato di un Paese ormai avviato al declino, in cui il delirio di onnipotenza di un singolo ha drammaticamente acuito il vulnus di un sistema entrato in cortocircuito istituzionale — scontro fra potere esecutivo e potere giuridico — per la pochezza della sua classe dirigente.

Non entro nel merito della questione, dicevo. Ciò che mi interessa sottolineare è piuttosto il punto di vista dell’utente: è il senso di privazione e di impotenza che per gli “users” del portale del sapere si è manifestato con l’autocensura di Wikipedia.
In effetti, nell’ultimo decennio il portale è diventato, per molta gente, uno strumento essenziale, e di consultazione sempre più frequente (per il sottoscritto, addirittura oraria). E il suo essere “liberamente disponibile”, là, dietro il clic di uno schermo di pc o di smartphone o di tablet, probabilmente non ne ha fatto comprendere il reale valore — che è inestimabile ma che, ora lo si scopre, è sicuramente elevatissimo —. È drammatico apprenderlo così, e il fatto che ciò avvenga in un Paese liberale come l’Italia non fa altro che aggiungere rabbia al “dolore digitale” della rinuncia: Wikipedia è insostituibile. È la seconda cosa più utile del web (la prima è Google). Ma qui viene il punto…

Quale diritto ha Wikipedia di cessare improvvisamente di essere uno strumento insostituibile? Detto in altro modo: chi si arroga il diritto di sottrarre alle abitudini di milioni di utenti italiani della Rete uno strumento come questo, che è stato costruito in modo collettivo (dunque con il contributo anche di migliaia di italiani, fra i quali ancora una volta il sottoscritto)? Insomma, chi è quel “giudice-cecchino” interno che ha preventivamente deciso di oscurare il bene collettivo, in contrasto con quello stesso “diritto a esistere” che il comunicato di oscuramento invoca?

Il portale Wikipedia, una volta perfezionato, andrebbe dichiarato “patrimonio dell’umanità”, e in un futuro non molto lontano inserito nella Carta dei Diritti dell’Uomo. Non foss’altro che per toglierlo dalle grinfie sia dell’intervento legislativo di un singolo Parlamento in un momento storico “oscuro”, sia dall’opinabile decisione di oscurarlo presa da un’oligarchia “interna” (i fondatori).


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