Alle porte di casa nostra sta avvenendo qualcosa di sorprendente, di storico, di mai accaduto: il Nordafrica e la Penisola Arabica solcate da un’unica grande rivolta popolare e giovanile, nel segno di Twitter e Facebook (già ribattezzato “Sawrabook”, libro della rivoluzione).
Il marchio (posticcio) di al Qaeda è finalmente scavalcato da un movimento che vede insieme uomini e donne, motivato da uno slogan formidabile: “pane e libertà”, al tempo stesso sociale e ideale. Sembra una svolta storica, un’innovazione profonda che scavalcava il terrorismo di Bin Laden, il fondamentalismo coranico e talebano, aprendo un capitolo inedito nella convivenza delle civiltà.

Quasi nessuno si aspettava il subitaneo crollo del regime di Ben Ali in Tunisia. Fino a un minuto dopo la sua fuga, il governo francese sembrava paralizzato all’idea che lo scenario decennale di un’area relativamente minore della sua sfera d’influenza nordafricana non vigesse più. Ma la scintilla tunisina rischia di incendiare l’intera regione. Nessuna autocrazia araba si sente al sicuro, a cominciare dalla più strategica, l’Egitto, Stato autoritario con una sottile vernice parademocratica, garante ben remunerato di USA e Israele contro la deriva islamista incarnata dai Fratelli Musulmani. 80 milioni di abitanti (di cui 60 sotto i 30 anni!), un terzo analfabeti, con una gioventù senza futuro, ostaggio del trentennale regime di Hosni Mubarak (che prese il potere quando il suo Paese aveva appunto solo 20 milioni di abitanti). Il faraone sta cadendo, e non sarà il solo.
Gli apparati di sicurezza di questi Paesi possono prendere direttamente il potere, eliminando d’un colpo faraoni e delfini, e prevenendo il possibile successo degli islamisti in elezioni più o meno democratiche. Oppure lo Stato stesso può collassare, producendo vuoti geopolitici attraenti per ogni genere di radicalismo. Di sicuro però lo status quo è saltato.
Ovunque nella regione gli automatismi dinastici (“tawrith”, successione dinastica) sono sotto scacco. In Libia, dove sono apparentemente in lizza due figli di Gheddafi di diverso orientamento. In Yemen, uno Stato fallito (lì si starebbe riorganizzando la fantomatica al-Qa’ida) il cui anziano leader, Ali Abdullah Saleh, ora nega di aver mai pensato di trasmettere il comando al figlio Ahmed, mentre monta la protesta di piazza. In Algeria. Persino in Arabia Saudita, dove la monarchia è esplicita, l’onda d’urto potrebbe scuotere antiche certezze. Monta il malcontento anche in Marocco, e lo stesso accade in Giordania. Solo la Siria sembra apparentemente tranquilla, ma potrebbe essere solo questione di giorni.
Se il modo di organizzarsi è nuovo, il motivo è lo stesso di sempre. La molla, come nelle grandi rivoluzioni della Storia, è stata la fame. A dicembre 2010 la situazione socio-economica nel Maghreb (Tunisia e Algeria) e nel Mashreq (Egitto, Giordania), ha iniziato ad entrare in ebollizione. L’esplodere delle contraddizioni sociali ed economiche, nel mondo arabo, era inevitabile: i prezzi mondiali dei beni alimentari, misurati secondo il sistema dell’Onu, hanno fatto segnare il record da quando vengono monitorati (1990). Nel 2011 tali prezzi potrebbero continuare ad aumentare nel caso i raccolti non siano soddisfacenti. È quello che sta succedendo in Tunisia, mentre in Algeria fra le cause ci sarebbe anche il tentativo da parte del governo di regolarizzare l’economia informale. Gli esercenti hanno trasferito i costi addizionali sulla clientela: il Paese, che ha il 70% di popolazione sotto i 25 anni e il 30% di disoccupazione giovanile, ha reagito furiosamente.
La struttura finanziaria-fiscale altamente inefficiente, che non permette la ridistribuzione interna delle risorse tra gli strati sociali, è una delle cause principali del malessere sociale che sta eruttando in questi mesi sulle rive meridionali del Mediterraneo. Il sistema fiscale della maggior parte dei Paesi arabi colpisce i consumi di massa e non prevede una reale tassazione delle rendite e dei redditi alti; i servizi che vengono forniti dalle autorità pubbliche vengono per lo più sfruttati dai ceti più abbienti, escludendone le masse. Un’altra causa importante di queste esplosioni è data dalla grave crisi economica che sta colpendo l’Unione Europea, centro di gravità finanziario-commerciale dell’area mediterranea.
Lo sbocco che consentiva l’allentamento sociale interno, ovvero il flusso dell’emigrazione, s’è ridotto grandemente a causa della succitata crisi europea. Adesso questi vari fattori esterni e interni s’intrecciano, facendo tremare — o già mandando in frantumi — sistemi politici di per sé sclerotizzati e imbalsamati, incartapecoriti come il faraone Mubarak. Sistemi, però, che si sono retti grazie alla condiscendenza strategica degli USA e della NATO, che li hanno riforniti di ogni tipo di sostegno politico-diplomatico e di assistenza militare, spionistica e sicuritaria, da un alto, dall’altro grazie alla più che trentennale assistenza economico-finanziaria dell’Arabia Saudita e degli altri petro-emirati, che hanno alimentato i regimi anti-nasseriani e antibaathisti di Sadat e Mubarak in Egitto, di Saleh in Yemen, della famiglia Hussein in Giordania, delle varie oligarchie sunnite e maronite in Libano. Tutte allineate dall’asse palese Riyad-Washington-Londra-Parigi e dall’asse occulto Tel Aviv-Washington-Riyad in una serie di azioni di contenimento strategico.
Immobilismo sociale coniugato a una economia liberista, hanno eroso sempre più il già basso tenore di vita delle popolazioni locali; la paralisi politica interna si proiettava nel rivoltante servilismo politico-diplomatico verso USA, UE e Israele. Altrimenti il sostegno militare occidentale e quello finanziario saudita sarebbero stati bloccati. E soprattutto l’atteggiamento delle cancellerie del cosiddetto fronte moderato del mondo arabo, riguardo ai 25 anni di tormenti cui è sottoposta la popolazione palestinese, nei territori occupati di Cisgiordania e Gaza, da parte del Sionismo, ha liquidato gli ultimi argini di rispetto e credito verso i governi collaborazionisti da parte dei loro popoli. Era questione di tempo, ma prima o poi questa miscela doveva esplodere.
La miccia è rappresentata dalla sconfitta politico-strategica dell’arroganza NeoCon di Washington; dalle secche sconfitte militari d’Israele in Libano e a Gaza; dalla formazione e costruzione di una nuova alleanza strategica regionale, di natura economica, commerciale, industriale, tecnologico-scientifica e militare, che vede protagonisti dei leader realmente popolari, checché se ne dica espressioni degli interessi delle maggioranze dei rispettivi popoli e nazioni: Mahmoud Ahmadinejad in Iran e Recep Tayyp Erdogan in Turchia. L’asse Ankara-Teheran sta coalizzando intorno a sè le forze arabe più vive e responsabili. Il patriottismo libanese, la Siria, le forze irachene che vogliono dare una svolta alla situazione della loro nazione. Tale coalizione, andando conformandosi, potrà creare un centro di attrazione geostrategico e geoeconomico regionale tale che difficilmente le altre realtà del Medioriente potrebbero sfuggirgli. Sotto gli impulsi di questa nuova realtà in via di costituzione, il regime “sionista” di Israele si ritrova sempre più isolato, poichè i suoi “innaturali” alleati arabi, ovvero le varie democrature filo-occidentali, rischiano, e si vede, l’implosione interna.
La minaccia del prossimo futuro è il debito pubblico dei Paesi ricchi. Uno studio molto serio (Brookings Institution) dimostra come negli ultimi anni i Paesi ricchi abbiano contribuito più all’aumento del debito pubblico mondiale che alla crescita del suo pil, a differenza delle economie emergenti: se questo trend non verrà invertito, la stabilità finanziaria del sistema internazionale sarà a rischio.
Certo il fascino delle analogie mediatiche (i social network che svolgono un ruolo fondamentale negli eventi) non deve farci perdere di vista le profonde differenze fra un Paese e l’altro, né illuderci sulla scontata transizione verso regimi più o meno democratici, quasi fosse solo questione di tempo. Alcuni regimi salteranno, altri cambieranno solo colore, altri ancora diverranno persino più rigidi. Sullo sfondo l’incubo islamista, lo stesso che blocca Washington in una rivelatrice ambiguità, fra richieste di riforme e timore di veder insediare al Cairo il governo dei Fratelli Musulmani.
Però come la campagna d’Iraq fu la tomba delle utopie NeoCon di esportazione della democrazia sulla scia dei carri armati americani, così la rivolta popolare in Tunisia/Egitto/Yemen/Algeria (e perfino Albania) segnala la fine degli equilibri postcoloniali in tutta la regione mediterranea, dal Marocco al Golfo Persico.
Indietro non si torna. E prima ci renderemo conto che indietro non si torna, meglio sarà per noi. È una corsa contro il tempo. Gli USA, tramite i loro noti organismi per la “Democracy Export”, hanno avviato già da qualche anno quei processi tesi a garantire, in modo a loro favorevole, un rinnovo delle leadership politiche locali, spianando l’accesso a una nuova generazione di collaborazionisti dell’imperialismo statunitense e del colonialismo sionista. Fondazioni, think tank, organismi “umanitari”, insomma tutto il vecchio armamentario dietro cui si celano Langley e il Pentagono, lavora a pieno ritmo. Con tanto di appelli, da parte del maggiordomato del governo statunitense, a lasciare libero accesso ai network sociali, i grimaldelli che hanno permesso di strumentalizzare fette popolari nel perseguimento degli obiettivi geopolitici, geoeconomici e geostrategici delle centrali decisionali occidentali.
La vittoria delle forze autenticamente popolari, nazionali, patriottiche, islamiche e socialiste, rafforzerà e consoliderà il processo epocale avviato dall’Iran degli imam sciiti e dalla Turchia di Erdogan. Una coalizione che ha il potenziale di stabilizzare e fare prosperare una regione, il Medio Oriente, che ha tutte le carte e le risorse per poter progredire in modo notevole e ampio. Un obiettivo da ostacolare a ogni costo da parte dell’asse atlantista, poichè una autentica stabilizzazione regionale, con la risoluzione di tanti conflitti sociali ed etnici, comporterebbe l’emarginazione, e forse l’espulsione, della razzista e parassitaria “Sparta sionista”; il blocco di qualsiasi velleità occidentale nel poter utilizzare la regione mediorientale quale trampolino di lancio per aggressioni contro l’Eurasia; e in definitiva, il consolidamento emisferico dell’egemonia delle potenze eurasiatiche. Con l’Unione Europea costretta a riconsiderare radicalmente le sue opzioni strategiche verso il Continental-Block Eurasiatico e verso l’imperialismo neoliberista anglo-statunitense.
La nostra periferia è in ebollizione. Non finirà presto. E comunque finisca, saremo i primi a subirne o ad apprezzarne le conseguenze.
L’Egitto per esempio è una “occasione ghiotta” che l’Italia rischia di perdere. Occasione storica: spezzare nel più strategico Paese arabo il circolo vizioso di miseria, frustrazione, regimi di polizia e terrorismo — spesso alimentato dai regimi stessi per ottenere soldi e status dall’Occidente — che destabilizza Nordafrica e Vicino Oriente fino al Golfo e oltre. Il successo della rivoluzione avvierebbe la transizione a un Egitto “normale”, con un potere politico legittimato dal popolo: dopo la scintilla tunisina, il segno che la nostra frontiera sud-orientale può cambiare in meglio, avvicinandosi ai nostri standard di libertà e democrazia. Cogliendo le opportunità di sviluppo perse per l’avidità delle élite postcoloniali, impegnate a coltivare le proprie rendite, indifferenti a una società giovane, esigente.
L’Italia più di qualsiasi altra nazione europea dovrebbe appassionarsi al sommovimento in corso lungo la “Quarta Sponda”. Chi più di noi dovrebbe interessarsi alla ricostruzione del “circuito mediterraneo”, destinato a intercettare la quasi totalità dei flussi commerciali fra Asia ed Europa, di cui saremmo naturalmente il centro? Qualcuno pensa ancora che lo sviluppo del “Sud del mondo” sia una minaccia e non una formidabile risorsa per il nostro stesso sviluppo — anzi, la condizione perché non si arresti —, dato che il baricentro dell’economia mondiale si sta spostando verso l’Asia e l’Europa rischia un arretramento mai conosciuto prima?

Eppure Roma tace. Mentre tutto il mondo si preoccupa del dopo-Mubarak, noi ci dilaniamo sulla “nipote”. Con un Ministro degli Esteri fantoccio, impegnato più che altro a costruire dossier contro un avversario politico. Quanto sarebbe da rimpiangere Andreotti, in questo momento, e tutta la “realpolitik” della vecchia DC (ma anche del primo Craxi): ai loro tempi, appena un ventennio fa, l’Italia — pur nel cono d’ombra dell’ombrello americano — giocava un ruolo primario nell’assetto geopolitico di queste aree oggi in ebollizione…
Stiamo perdendo una svolta epocale: se anche i militari riuscissero ad affogare nel sangue le aspettative della piazza, la rivoluzione egiziana ha ormai sancito che il paradigma delle dinastie parassitarie, incentivato dai governi occidentali, non garantisce più nessuno. Quei regimi significano solo caos, repressione e miseria: l’ambiente ideale per i jihadisti. I quali — non dimentichiamolo — sono incistati nelle nostre metropoli. Se sbagliamo politica in Egitto, in Tunisia o in altri Paesi del nostro Sud, il prezzo lo paghiamo in casa.
Per secoli l’Egitto è stato fecondato dalla nostra diaspora, come l’intero bacino del Sud Mediterraneo, dove un secolo fa viveva quasi un milione di connazionali: operai, artigiani, banchieri, architetti e burocrati pubblici. Nell’Egitto “khedivale”, l’Italiano era lingua franca, usata nell’amministrazione pubblica. Un tipografo di origine livornese (Pietro Michele Meratti) vi fondò nel 1828 il primo servizio di corrieri privati, la “Posta Europea”, poi assurto a monopolio pubblico. Le diciture delle prime serie di francobolli egiziani erano in Italiano. Decine di migliaia di italiani, tra cui molti ebrei, abitavano il Cairo e Alessandria, dove i segni del “liberty alessandrino” sono ancora visibili. La nostra Egittologia ha una lunga tradizione, come in genere le nostre missioni archeologiche orientali, fra le principali fonti d’intelligence quando i servizi segreti erano ancora qualcosa di serio.
Di questo e delle nostre tradizioni “levantine” in genere cercheremmo vanamente una trattazione nei manuali scolastici: è Storia rimossa. Eppure ancora oggi molto del residuo capitale di simpatia di cui godiamo nella regione si fonda su tali memorie: basterebbe poco per ravvivarle. Nell’immediato, anche un gesto simbolico. Per esempio: a Torino abbiamo il più importante museo di antichità egizie dopo quello del Cairo, oggetto di sospetti vandalismi nelle prime fasi dei disordini… sarebbe utilissimo uno sforzo sostenuto dai poteri pubblici e da fondazioni private per dare concreto seguito alla profezia di Jean-François Champollion, il decifratore della Stele di Rosetta: «La strada per Menfi e Tebe passa da Torino». Finanziare e sostenere la messa in sicurezza del Museo del Cairo e dei suoi reperti significherebbe non solo salvare un giacimento culturale di valore universale, ma un atto di rispetto per la pietra angolare dell’identità egiziana. Quell’identità che i nostri “levantini” contribuirono a resuscitare e che le piazze egiziane oggi vogliono riscattare.
Eppure nell’immaginario collettivo (ossia televisivo) sembra che l’Egitto sia un qualsiasi pezzo d’Africa, un “arcipelago di miserie e arretratezze più le piramidi e Sharm el-Sheikh”. Ma da dove spuntano i giovani anglofoni che maneggiano Twitter e Facebook e rischiano la vita per la libertà? Per anni abbiamo vissuto di verità ricevute, un eterno fermo immagine. Intanto la società civile egiziana cresceva, si strutturava. Ci sono certo i Fratelli Musulmani, un mosaico dalle mille ambiguità, che Mubarak ci ha rivenduto con successo come “banda di terroristi”. Ma ci sono anche laici, cristiani, nazionalisti, socialisti, gente che semplicemente non ne può più della “repubblica ereditaria”. Quanto meno daremo ascolto e supporto alle loro istanze, tanto più il rischio di una deriva islamista diverrà concreto. È quanto sperano Suleiman e gli altri anziani ufficiali drogati da decenni di potere incontrastato. Per riproporre e rivenderci il muro contro muro. Lo “scontro delle civiltà”.
Obama e alcuni leader europei forse cominciano a capirlo. Fra cautele ed esitazioni invitano a voltare pagina. Non così noi Italiani: continuiamo ad aggrapparci a un Egitto che non c’è più. L’Egitto che prova a nascere non lo dimenticherà. La sua sconfitta sarà la nostra. La sua vittoria, solo sua.
Be First to Comment