La prima volta che lessi “On the road” (Sulla strada), scritto da Jack Kerouac nel 1951 e pubblicato nel ’57, avevo 16 anni. L’ultima ne avevo 40. Nel mezzo un altro paio di riletture. È il secondo libro che amo di più (il primo, lo dichiaro, è un altro viaggio, “Voyage au bout de la nuit” di Louis-Ferdinand Céline). Quella prima volta, nel 1979, leggevo le avventure di Sal Paradise (Kerouac stesso) e Dean Moriarty reggendo aperto sulle ginocchia un atlante geografico della scuola con la grande cartina degli States sotto le dita, mentre sul giradischi andava a tutto volume il vinile di “Darkness on the edge of town” di Bruce Springsteen — altre badlands da percorrere con gli occhi del sogno — e mia madre urlava da un’altra stanza «abbassa quel fracasso di chitarre!».
(Conservo ancora quell’atlante, e pure il vinile del Boss: nelle sue pagine ingiallite ci sono luoghi ancestrali ormai spariti, Yugoslavija, U.R.S.S., Cecoslovacchia, D.D.R. e B.R.D. — le due Germanie…).
Ora, 53 anni dopo, il viaggio di On the road è ancora vivo ma con una clamorosa trasformazione: grazie alle telecamere fisse, su Google Earth il trip si può ripercorrere (seduti a casa) luogo dopo luogo proprio come l’autore usò mappe e puntine negli anni in cui viaggiò attraverso il continente americano prendendo appunti e formando nella sua testa il romanzo che definì una generazione (e che diede inizio alla sua degenerazione, ma è questione di punti di vista).
Il viaggio virtuale di On the road parte da da questo url (è richiesto il plug-in di Google Earth). Ogni posto, ogni città, benzinaio o paesaggio toccati dai personaggi del libro, perfino la mitica Route 66, sono segnati: basta puntare il cursore e affidarsi per il resto alle infinite possibilità dello zoom. In ogni segnalibro sono appuntate spiegazioni, citazioni, emozioni. Frasi tratte dal romanzo, pezzi di vita di Kerouac, visioni. Il compromesso virtuale mantiene vivo il viaggio. Lo fa a tre dimensioni e senza grandi pretese. Non è un lavoro ufficiale, è opera di un internauta (bit) in cerca di avventura (beat) da seduto in poltrona (seat).
On the road resta un mito privo di punti e virgole (Kerouac aveva prescelto una punteggiatura minimale e indifferente, ispirata dal bebop jazzistico, perché le virgole, come buche sulla strada, non rallentassero i suoi spostamenti). Racconta la frenesia del viaggio («Dove andiamo?», «Non lo so, ma dobbiamo andare…»), dell’angoscia esistenziale, dell’illusione-delusione, della ricerca di Dio, o forse del padre, o più semplicemente di sé stessi, e ha praticamente creato da solo il mito del viaggio, che è un tema fondante della vita americana e dei suoi immensi spazi. È una strada di parole percorsa da generazioni, imprigionata su un rotolo di carta per telex lungo 36 metri sul quale l’autore ha dattiloscritto il suo romanzo. “The scroll” (il rotolo) fu comprato all’asta nel 2001 per 2 milioni e mezzo di dollari; attaccato con lo scotch a mano dallo stesso Kerouac per scrivere senza mai fermarsi, senza soste o pause, come in un viaggio, per strada, il rotolo è stato esposto al pubblico, trattato e guardato come una vetusta pergamena piena di segreti (come i Rotoli di Qumran, anch’essi del resto privi di punteggiatura essendo in Aramaico antico).
Ora, Beat e Bit si pronunciano allo stesso modo, hanno lo stesso suono. Ma con Google Earth il sapore si è un po’ perso.
In una lettera indirizzata all’amico Neal Cassady (il Dean Moriarty di Sulla strada) Kerouac scrisse: «Come è strano essere lontani da casa quando la distanza è un intero continente e non sai neanche più dove sia casa tua e la casa che ti resta è quella che hai in testa». Ecco, questa frase dell’autore spiega la cosa meglio di ogni altro tentativo dialettico: io adoro la tecnologia, la controllo, non ne sono sopraffatto; ma in questo caso devo dire «no grazie», non mi serve Google Earth. Quello che mi resta del meraviglioso romanzo americano — una delle poche cose che sopporto degli USA — è ancora qui nella mia testa. Viaggiare On the road su un libro e su un atlante, rispetto al farlo attraverso le immagini delle telecamere di Google, è come paragonare un sogno a un reality show. È come far leggere una poesia a un robot.
Insomma questo è uno di quei casi in cui il “progresso” non aggiunge niente — anzi, toglie.
(Curioso: Kerouac coniò il termine “beat” nel ’47, e morì a 47 anni; io lo sto omaggiando nel momento in cui ho proprio 47 anni…)
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