Se esistono le religioni, è proprio perché fin dall’inizio l’umanità ha capito che la pena capitale non è abbastanza efficace.

La storia della povera Sakineh Mohammadi Ashtiani, l’iraniana di 43 anni (peraltro, madre di due figli, come “Eva”) che sta per essere lapidata per adulterio in base alle leggi “sante” islamiche, riporta in auge la riflessione sulla inutilità della pena di morte. Una inefficacia paradossalmente sancita proprio dalla nascita delle religioni. E il motivo è presto detto.
Perché abbiamo bisogno di una religione? Perché siamo “animali sociali”, e per stare insieme ci vogliono regole condivise. Se sei un “semplice” re o altro tipo di governante, e dài un ordine al tuo popolo — «fai questa cosa, non fare quest’altra» —, la tua è un’autorità umana e, in quanto tale, non completamente credibile e accettabile. Sei solo un essere umano come gli altri, e le tue eventuali punizioni (il carcere, la frusta, l’emarginazione) non hanno un potere sufficiente a garantire che i tuoi ordini siano rispettati completamente. Neanche la prospettiva della pena di morte è abbastanza coercitiva, poiché la morte, prima o poi, arriva comunque.
Se invece gli stessi ordini vengono “da più in alto” — dal “più in alto” che ci sia —, cioè dal non-umano, o meglio “dal sovra-umano”, e la punizione per la disobbedienza è ugualmente “oltre” (un castigo “per sempre”), allora sì che l’ordine è credibile e la sua autorità si pone al di fuori di ogni discussione. È l’autorità “divina”: come si può andare contro l’ordine di Dio, del Creatore di Tutto? Quella celeste è una legge che genera persuasione dall’interno dell’individuo.
Per questo venne redatta la Legge di Mosé, per questo «Dio parlò sul Sinai»: per generare una legislazione assolutamente credibile e soprattutto non disobbedibile — pena una “dannazione” eterna —, frutto della massima autorità possibile.
Da questa necessità sociale sono nate tutte le religioni organizzate, specialmente le tre monoteistiche: per scopi puramente pratici, per irreggimentare le società umane.
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Senza perciò tirare in ballo discorsi più articolati e specifici, per esempio sulla condizione della donna nel mondo islamico, voglio sottolineare che esiste già a monte un sano principio logico che rende assolutamente ingiustificata la pena capitale. Per Sakineh e per tutti gli altri “colpevoli” che attendono in un braccio della morte. Nessun essere umano può ergersi a boia di un altro, per via della perfetta inutilità sociale della punizione. Gli antichi lo avevano già capito, e inventarono “leggi divine” di tutti i tipi, molto più efficaci dal punto di vista persuasivo.
La pena di morte andrebbe abrogata dappertutto, prima ancora che per motivi etici, per la totale inefficacia del suo obiettivo: scoraggiare gli esseri umani, attraverso una esemplarità eclatante, dal commettere “delitti”. È la stessa Storia, la storia delle religioni, a insegnarcelo.
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