La (vana) rappresaglia contro la nostra libertà di espressione

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Gli utenti internet pagheranno per un povero matto che ha colpito un personaggio pubblico?

L’odio nasce in Rete? Oppure la Rete si limita a mostrarcelo?
Il 18 dicembre 2009 viene pubblicato in Gazzetta Ufficiale il pacchetto di norme approvate dal Parlamento Europeo in cui l’accesso e l’uso di Internet per la propria espressione personale viene definito un «diritto fondamentale del cittadino dell’Unione». Diritto fondamentale…

Davanti a certe affermazioni — come quelle del ministro Ronchi e del sottosegretario Mantovano —, gli appartenenti al nocciolo duro dell’utenza Internet la mette in burla. C’è chi pensa che non ci sia censura applicabile alla Rete, per i maghi del computer. Sarà pure vero, ma milioni di italiani che si esprimono sulla Rete non sono maghi del computer, sono persone comuni che scrivono cose normali, pubblicano su Facebook foto di famiglia, vi citano la musica preferita, o la frase di Walt Whitman o di Jim Morrison.
Ogni tanto qualcuno entra in un “gruppo Facebook” a cuor leggero: che si tratti di «uccidiamo l’Innominabile» o di «buttiamo a mare l’immigrato», la grande maggioranza lo fa come se esprimesse una fantasia momentanea, una di quelle follie che tutti pensiamo in momenti di ira, e che la coscienza personale e civile filtra e manda nel cestino delle cose sporche dell’anima — sì, è vero, poi c’è qualcuno che non le filtra, e magari lancia una statuetta del Dôm de Milàn, ma cosa c’entra la Rete? Gli attentatori del passato avevano Facebook o Twitter?

Fa parte del nuovo col quale viviamo, questa “leggerezza dello strafalcione”: una libertà che i politici prendono per sé quando si tratta di manipolare nei media tradizionali. In altri Paesi gli utenti Internet saranno pure “più moderati” di noi: ma là non ci sono politici che fanno la guerra civile verbale all’ora del tiggì e ministri che insultano intellettuali e dipendenti dello Stato a ogni passo! Là non hanno mai detto di voler «strozzare con le loro mani» gli autori di una fiction televisiva. Là non ci sono premier che dicono «chi non mi vota è un coglione». La rete, in fondo, da questo punto di vista non è che un ventilatore che rispara in giro il fango che hai buttato dentro.
La Rete “segue” e “mima”, non crea.

Gli strumenti sono neutri: non sono portatori in sé di democrazia, partecipazione, sviluppo e progresso. Favoriscono l’accelerazione di processi già profondi nella popolazione e non impediscono alle parti di non parlarsi quando non c’è la volontà di dialogare. Non creano processi da zero.

Gli esponenti di governo che parlano di «monitorare la Rete» — ne siamo certi — sarebbero pronti a dire che «chi si “comporta bene”, non ha niente da temere». Ma intanto invocano filtri e controlli (e repressioni) che, per lo stesso fatto di essere evocati, invitano chi dovrà compiere quelle indagini a una difficile corsa a ostacoli contro la privacy e la libertà d’espressione, correndo il pericolo di deragliare a ogni passo dalla legalità. Perché monitorare qui non significa accertare chi ha aperto un “gruppo” — operazione in sé banale per una forza di polizia attrezzata —, qui si tratta di invocare puramente e semplicemente la cancellazione di una espressione del pensiero, e già che ci siamo di “registrare” chi l’ha fatta. Insomma tenere memoria di chi ha detto cosa. Schedare.
Che è il primo passo per tornare al MinCulPop. Per somigliare nei fatti all’Iran e alla Cina, a Castro e Ahmadinejad.

Vien da pensare che “l’occasione Tartaglia” sia stata colta dall’attuale classe governativa per vendicarsi del “No-B-day”, primo movimento dal basso nato e organizzato su Facebook…
Finché Facebook è servito per distrarre la gente dalle cose che contano, per rincoglionirla — al pari di altri strumenti come Juve-Inter-Milan, Maria De Filippi, Grande Fratello, veline — o terrorizzarla — CO2, clima, 2012, mucca pazza, aviaria e la recente suina —, allora okay: il social network è cosa buona, non lo tocchiamo, “panem et circensem”, «è il trionfo della democrazia partecipata e globale», evviva il progresso. Dopo il “No-B-day”, invece, chi ha il timone ha capito che “il progresso”, usato in un certo modo, può risvegliare le coscienze e (più pericoloso) mobilitare.
In realtà però non c’è bisogno di essere esponenti del centrodestra per pensarla così: un ministro del centrosinistra si rese famoso anni fa per una invocazione all’applicazione del “modello cinese” di filtri Internet all’Italia. Succede ogni volta che attraverso la Rete si esprimono opinioni o sentimenti ripugnanti, o comunque disdicevoli: le si pone alla base di un fenomeno criminale da reprimere, non come manifestazioni di quel fenomeno. Da qui poi si passa alla rappresaglia verso il contenitore di quei pensieri.

Proprio in questa settimana ha la parola al processo di Milano la difesa dei dirigenti di Google che sono a giudizio per il caso del bambino autistico abusato dai suoi compagni e del relativo video, realizzato dai suoi assalitori, e pubblicato su GoogleVideo. I magistrati della pubblica accusa invocano “controlli preventivi” da parte di Google e pongono la mancata esecuzione di quei controlli alla base della loro richiesta di condanna. Si tratta di richieste (quelle del magistrato, quelle dei ministri) assurde: cosa le accomuna?
Nel caso dei ministri si pensa di eliminare una espressione di pensiero solo perché ripugnante. Ma chi stabilisce la soglia di sopportazione della ripugnanza? Il governo? Forse l’onorevole Carlucci, che sobriamente parla di social network come «luogo di delinquenti»?

Siamo o no in uno Stato di Diritto dove la libertà di espressione è tutelata nella Costituzione? E questa libertà non si applica forse ai casi limite, al controverso e all’ambiguo? Ma qui gli esponenti politici invocano il Codice Penale, e la fattispecie dell’istigazione a delinquere. Operazione concettuale analoga a quella dei magistrati che chiedono la condanna di una piattaforma web che ha ospitato quello schifoso video. Queste due posizioni condividono l’equivoco di equiparare Facebook ai giornali e GoogleVideo o YouTube a un canale televisivo…
Non vedono che con questi mezzi è arrivata anche ai comuni cittadini la capacità di esercitare l’espressione dei propri pensieri, senza alcun’altra mediazione. Non ci sono direttori responsabili dentro Facebook, e se qualcuno commette dei reati, la responsabilità penale resta personale. Se Pinco apre un gruppo in cui si dice «Ammazziamo X», Pinco va a processo. E le leggi per farlo già ci sono tutte. Per chi governa invece bisogna chiudere lo spazio dove Pinco si esprime.
Si cerchino gli individui che quel reato hanno commesso. Li si processi. Ma non si cancelli lo strumento in cui quella libertà si esprime — anche nel gruppo che inneggiava al povero psicolabile c’erano i contrari, ed esercitavano la loro libertà di dirsi contrari —. È una definizione del problema semplicemente sbagliata, il male che si denuncia non è la Rete, che anzi matura sempre più come strumento di comunicazione politica.

Ma al fondo di tutto c’è altro e peggio, che prende tutta la società italiana. C’è questa voglia di menare le mani su tutto ciò che è fuori schema, questo pensiero sommario per cui bisogna eliminare il messaggero che porta le cattive notizie. Come se, eliminato quello, avessimo risolto il problema. Dimenticano la lezione della Storia, che la libertà si esercita nei casi limite e che la libertà esiste anche per gli imbecilli — e va pure tutelata anche e nonostante loro —. Se non accetti l’imbecille che inneggia ai souvenir del Dôm, non fermi quelli che odiano il premier istigando effettivamente alla violenza: continui solo a governare secondo uno stato mentale di guerra, di conflitto dall’alto, di repressione come defoliante del pensiero.
La prima vittima è la libertà individuale.

La Rete è in pericolo perché il potere, nel mondo, ha fretta di chiudere lo squarcio che Internet ha aperto nel controllo sociale. Peraltro a questa visione del potere si stanno adeguando anche i giornalisti. Perché il web ha anche messo in discussione la delega a informare, a distribuire visione del mondo, che i mass-media hanno avuto per anni. Questo dà grande fastidio a molti giornalisti: qualcuno di loro comincia a scambiare la libertà di espressione con la difesa dei propri privilegi castali. È una miopia perigliosa: Internet è un grande fenomeno sociale, non tecnologico, come dimostrano gli oltre 10 milioni di italiani che frequentano Facebook. Un po’ di arroganza in meno, un po’ di equilibrio terzo, da parte dei giornalisti (i quali fino a oggi sono stati i principali “ventilatori che sparano indietro fango”, non dimentichiamolo), non guasterebbero.

Il presidente Napolitano si sgola da mesi: «finìtela di litigare, in piazza e sugli schermi». Il Presidente della Repubblica sembra l’unico rimasto con un po’ di senno, di sale in zucca. Tutti gli altri continuano a fare a cazzotti verbali in ogni angolo, perfino i cardinali. Esattamente come allo stadio.
Eppure a farne le spese deve essere Internet…


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