Ora di religione o di indottrinamento?

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I docenti di religione cattolica non possono partecipare “a pieno titolo” agli scrutini e il loro insegnamento «non può avere effetti sulla determinazione del credito scolastico»: a stabilirlo è il TAR del Lazio, che con la sentenza n. 7076 ha accolto i ricorsi presentati, a partire dal 2007, da alcuni studenti, supportati da diverse associazioni laiche e confessioni religiose non cattoliche, che chiedevano l’annullamento delle ordinanze ministeriali firmate dall’ex ministro Giuseppe Fioroni e adottate durante gli esami di Stato del 2007 e 2008. L’inclusione della religione nella rosa delle materie da cui scaturiscono i giudizi degli allievi è ritenuta illegittima. Per i giudici amministrativi «l’attribuzione di un credito formativo ad una scelta di carattere religioso degli studenti e dei loro genitori, quale quella di avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, dà luogo ad una precisa forma di discriminazione, dato che lo Stato italiano non assicura la possibilità per tutti i cittadini di conseguire un credito formativo nelle proprie confessioni o per chi dichiara di non professare alcuna religione».
In parole povere: ci possono essere studenti furbetti in grado di trarre indebito vantaggio (in crediti formativi) frequentando (“ipocritamente”) l’ora di religione, rispetto ad altri che — per le più svariate ragioni — tale ora non hanno frequentato. Per cui quell’ora non deve concorrere a costituire credito formativo.
Fin qui sembra un ragionamento più che sensato.
Purtroppo, però, si basa su di un presupposto sbagliato: che si tratti di un insegnamento di carattere etico-religioso strettamente attinente alla fede individuale. Non è vero: lo dimostra il fatto che un ragazzo, non credente, può decidere, senza contraddizione alcuna, di frequentare questa disciplina. L‘errore dei giudici amministrativi sta nell’aver assimilato l’ora di religione ad un’ora di catechesi. La catechesi non può avere spazio in una scuola pubblica, perché ha un contenuto spirituale, non culturale. Al contrario non avrebbe senso insegnare la religione, come “disciplina”, in una parrocchia, dato appunto il suo contenuto culturale e non spirituale. In altre parole, il docente di religione non è chiamato a valutare la fede, la devozione, la spiritualità dei ragazzi, ma la loro capacità di riuscire, a seguito di uno studio adeguato, ad integrare il sapere religioso — quello specifico sapere religioso che fa parte della tradizione del nostro Paese — nell’ambito complessivo dei saperi (in particolare di quelli “umanistici”) che la scuoIa ritiene indispensabili per la formazione dei giovani in Italia. E poiché nella tradizione fondamentale tipicamente italiana tale “sapere religioso” è quello cattolico — secoli e secoli di capolavori sono lì a dimostrarlo su tutto il suolo italico, con eredità che vanno da Leonardo a Raffaello a Michelangelo al Bernini, passando per Manzoni e Agostino da Ippona… —, è coerente che questo e non un altro sia il sapere da offrire agli studenti nella scuola italiana.
Effettivamente in Italia non si possono comprendere l’Arte, la Letteratura, la Pittura, la Filosofia, la Storia, se non si ha un’adeguata conoscenza, dall’interno, del Cristianesimo. È per questo che ha peraltro ben poco senso la proposta di sostituire l’ora di religione con un’ora di “storia delle religioni”, che spazi dall’Animismo al Buddismo, dall’Induismo all’Islam, dallo Scintoismo al Giainismo: per quanto rispettabilissime, non sono queste le fedi che fanno parte (almeno fino ad oggi) dello specifico culturale della realtà italiana.
D’altro canto, poiché è ben possibile che alcune famiglie e alcuni ragazzi possano percepire nell’ora di religione lo spettro di un indebito proselitismo, che all’interno della scuola pubblica violerebbe di certo la laicità dello Stato, si è ritenuto opportuno dare alla religione come materia scolastica uno statuto opzionale. La cosa però ha il sapore di un classico compromesso all’italiana, cioè superficiale e pasticciato. L’insegnamento di una disciplina opzionale non è infatti subalterno a nessun altro, né può essere interpretato alla stregua di un “innocuo arricchimento culturale”. Umiliare i docenti di religione, precludendo loro di partecipare a valutazioni collegiali a carico di studenti con cui essi, nel corso dell’anno, hanno avuto un rapporto magari più intenso e più dialettico di altri loro colleghi — e questo, purtroppo, è innegabile, e non perché i prof di religione siano più “profondi” quanto piuttosto per la notoria, diffusa sciatteria di molti altri! —, equivale a mandare un messaggio distorto (e forse anche subdolo) all’opinione pubblica: il sapere religioso è irrilevante. Un messaggio di questo tipo, oltre che essere culturaImente fuorviante, è un’offesa allo stesso principio di laicità. Laicità non significa infatti ostilità — e nemmeno indifferenza — dello Stato nei confronti della religione, ma il fermo proposito di non privilegiare i credenti sui non credenti, o di non attribuire arbitrariamente ad un solo culto poteri o privilegi negati ad altre confessioni. Ora, rispetto agli studenti che non si avvalgono dell’insegnamento della religione, per quelli che decidono di frequentarla si tratta di una dilatazione e non di una diminuzione dell’orario scolastico, a seguito dell’assunzione di un impegno ulteriore di studio: dov’è il privilegio? L’unica risposta è appunto «nella possibilità di ottenere credito formativo», come ci vengono sostanzialmente a dire i giudici del TAR: ossia ottenere — altrettanto subdolamente — un “vantaggio competitivo”. Interpretazione superficiale, che scontenta tutti e che pure offende gli studenti, sottintendendo che facciano i furbi…
E dunque?
Dunque ci sarebbe un’ottima tagliata di testa al toro.
La sentenza del TAR del Lazio, pur facilmente attaccabile, sana intanto almeno un’anomalia, dal momento che i docenti devono in ogni caso avere il benestare della curia e anche i libri di testo sono soggetti al nulla osta dell’autorità ecclesiastica. L’insegnamento della religione in Italia è cioè subordinato a un’autorità che non è quella statale, e di conseguenza presenta comunque, da qualunque lato lo si voglia guardare, il peccato originale di una natura confessionale!
Se non ci devono essere «insegnanti di serie A e di serie B», se lo studio della religione fa «parte integrante del ciclo formativo», come afferma mons. Pennisi, commissario della CEI per l’educazione, in quanto «premessa indispensabile per affrontare lo studio di tante altre materie», allora introduciamo lo studio del fenomeno religioso chiamato Cristianesimo come materia obbligatoria per tutti e, soprattutto, con insegnanti reclutati — come tutti gli altri — in base ai titoli di studio e non alle decisioni delle curie, oltretutto indipendenti da qualunque autorità esterna allo Stato! E, ancora più importante, sleghiamo i testi scolastici di tale materia dall’obbligo di essere “accettati” dal corpo religioso cattolico!
Insomma: un corpo docente non composto in via esclusiva da parroci e preti ma anche da “normali insegnanti”, e con libri di testo realizzati da “esperti di religione” — non necessariamente cattolici — e approvati non dalle curie bensì dai provveditorati.
Sarebbe perfetto. Una soluzione del genere avrebbe il pregio di essere inattaccabile sotto ogni punto di vista: culturale, laico, giurisdizionale, scolastico, ideologico.
Eppure sono certo che incontrerebbe l’opposizione di tanti: la Chiesa Cattolica, che si vedrebbe sottratto il controllo di numerose persone; altre confessioni religiose, non sempre inclini al libero confronto culturale (basti pensare all’intransigenza dell’Islam); i laicisti più oltranzisti; non ultimo, i molti studenti che si troverebbero una materia in più da studiare seriamente (e non per “maturare crediti”)…

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