Sullo “spreco sociale” generato dalle Religioni

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Le religioni — tutte le principali, ma soprattutto le tre monoteiste — contengono germi di pensiero che potrebbero essere di estrema utilità per il vivere civile, ma che invece vengono persi perché “contingentati” all’interno dei dogmi.

È un concetto che merita di essere chiarito.
Abbiamo tutti bisogno di una religio (vd nota sotto *). Perché siamo “animali sociali”, e per stare insieme ci vogliono regole condivise.
(*) La parola “religione” deriva dal latino religio, la cui radice è ligere, “legare”; anche in arabo, la forza coesiva che tiene insieme le tribù è “asabîya”: da asaba, “legare”, e da asab, “nervatura” o “legamento”; il musulmano si definisce in termini non di libertà, ma di sottomissione: Islâm, Salâm e Salâma — “sottomissione”, “pace” e “sicurezza” — derivano dal verbo salima, il cui significato principale è “essere sicuri, incolumi, senza colpa”, ma che in un’accezione secondaria significa anche “arrendersi”.
Se sei un “semplice” re, o un governante, e dài un ordine al tuo popolo — «fai questa cosa, non fare quest’altra» —, la tua è un’autorità umana e, in quanto tale, non completamente credibile e accettabile. Sei solo un essere umano come gli altri, e le tue eventuali punizioni — il carcere, la frusta, l’emarginazione — non hanno un potere sufficiente a garantire che i tuoi ordini siano rispettati completamente. Neanche la prospettiva della pena di morte è abbastanza coercitiva, poiché la morte, prima o poi, arriva comunque.
Se invece gli stessi ordini vengono “da più in alto” — dal “più in alto” che ci sia —, cioè dal non-umano, o meglio “dal sovra-umano”, e la punizione per la disobbedienza è ugualmente “oltre” — un castigo «per sempre» —, allora sì che l’ordine è credibile e la sua autorità si pone al di fuori di ogni discussione. È l’autorità “divina”: come si può andare contro l’ordine di Dio, del Creatore di Tutto? Quella celeste è una legge che genera persuasione dall’interno dell’individuo.
Per questo venne redatta la Legge di Mosé, per questo «Dio parlò sul Sinai»: per generare una legislazione assolutamente credibile e soprattutto non disobbedibile — pena una “dannazione” eterna —, frutto della massima autorità possibile.
Da questa necessità sociale sono nate tutte le religioni “organizzate”: per scopi puramente pratici, per irreggimentare le società umane. Nella religiosità caratteristica del mondo arcaico — “pagano” —, le divinità erano semplicemente i simboli delle manifestazioni naturali. Dal contatto Egizi-Ebrei ebbe origine la prima religione morale, sotto forma di “monoteismo”, manifestata per la prima volta nella riforma del faraone Akhenaton. Quando Mosé era giovane, Akhenaton (qualcuno addirittura sostiene l’identità fra i due) sostituì il culto di Amon con il culto del “disco solare”, Aton, proclamandolo «unico Dio, per mezzo del quale tutte le cose sono create»; a sua volta Aton, ereditato dagli antichi Ebrei, divenne Adonai.
I sapienti di Israele, ricavandola dal “Libro dei Morti” egizio, idearono la sintesi del Decalogo, le parole di Dio «memorizzabili sulle dita delle mani», i Dieci Comandamenti: la base del “culto sociale” dal quale scaturirono l’Ebraismo e poi il Cristianesimo. Dall’esperienza filosofica morale maturata presso il popolo ebraico si originò il testo della Bibbia, che, al di là delle amenità mitologiche e dei superpoteri di certi personaggi, è un vero e proprio corpus completo di leggi sociali.
La stessa cosa successe grossomodo in tutte le altre religioni, in ogni angolo del pianeta: corpi completi di leggi sociali vennero “imposti dall’alto” — anzi, dall’Altissimo — per essere rese credibili ai popoli.

Qual è il problema? Il problema è che queste leggi sociali restano “chiuse” all’interno delle Religioni e non hanno alcuna utilità pratica nella società, perché i “credenti” le inquadrano in un’ottica di salvezza post-mortem e non di “organizzazione quotidiana del vivere”. E anche ove quest’utilità quotidiana ha un minimo di messa in atto (come nel caso dell’Ebraismo o dell’Islam, dove quasi non esiste separazione fra religione e politica), i benefici sono di gran lunga inferiori agli svantaggi, a causa di dannosissime distorsioni (Israele pensa di essere un “popolo eletto”, cioè superiore — e dunque razzista —, mentre l’Islam umilia l’intero universo femminile).
Peraltro è proprio in questo modo, che è andata perduta la principale eredità del messaggio originale di “Gesù″: camminate sull’acqua“, “resurrezioni dei morti“, “guarigioni miracolose” e “moltiplicazioni dei cibi” hanno annacquato — forse per sempre — l’utilità estrema di un insegnamento profondamente civile, di “saper vivere insieme”, qual era quello di Yeshua bar Yosef/”Gesù il Cristo”.

La causa di questa immane perdita, fomentata dalle “chiese”, è nella nostra incapacità di sopportare l’idea che nasciamo per poi morire.
Non sappiamo rassegnarci ai limiti della Ragione, alla quale imputiamo una colpa immensa: il non saper rispondere al grande quesito esistenziale «cosa siamo, e perché?». Siamo un imprevisto dell’Essere? La vita intelligente è un incidente? La filosofia indiana — la più antica del pianeta — è su questa strada. A Occidente propendiamo invece per la Creazione: «ci ha fatti Dio». È un concetto infantile — un “uomo più grosso e più potente” che crea dei soldatini con l’argilla a propria immagine — che la Religione mediterranea sostiene da millenni; però purtroppo da circa un secolo ha cominciato a dirlo anche la Scienza, cambiandone solo la terminologia: Big Bang al posto di Genesi, Radiazione corpuscolare invece di Materia, Principio di indeterminazione al posto di Disegno inconoscibile di Dio, Energia piuttosto che Spirito
«Perché nasciamo, se poi dobbiamo morire?» ci ripetiamo. E di fronte alla resa della Scienza e della Ragione, le “chiese” sono lì per lenire il nostro disagio.
Ogni Chiesa dà smisurato valore al concetto di “vita dopo la morte”, elaborando a tal uopo il principio della “salvezza”, e dice più o meno: «se credi, ti salvi». E non mente, l’affermazione è sincera: se hai fede, trovi pace dal “silenzio di Dio” — cioè dall’assenza di risposte —. La fede non ha bisogno di prove. In questo risiede il “mistero della fede”: se credi, ti salvi. Anche se non è vero, anche se quelle descritte sui “testi sacri” son cose mai accadute! È lì il trucco, è tutta lì la “salvezza”: credere per vedere, non il contrario. A tale scopo l’Uomo ha creato Dio — e perciò lo ha creato silenzioso, anche se nei Vangeli è dotato perfino di un verbo —. Un silenzio divenuto ancor più assordante negli ultimi 100 anni, da quando abbiamo cominciato a capire quanto vasto e apparentemente privo di vita sia quel “là fuori”, l’Universo.

È così, che ci siamo persi la capacità di organizzarci a vivere meglio la vita tutti insieme. Credendo per vedere e non invece vedendo per credere.

Il messaggio sociale di “Gesù” era molto chiaro, eppure è andato perduto nelle sciocchezze dei testi sacri.
È sufficiente aprirsi ed “accogliere”, riconoscere la luce dentro noi stessi, per divenire ciascuno “Figlio di Dio”, per accorgersi della verità: una “vita migliore” da realizzare nel Presente, che è la vera “eternità” da cogliere. La chiave di ogni conoscenza superiore sta nelle parole «Io sono», la soglia più alta della conoscenza, il contatto con questo fantomatico “Dio”. È una conoscenza da realizzare qui e ora. Smettendo di guardare al futuro per paura. Smettendo di cercare un senso più in là. Smettendo di dare ascolto a tutte le cose che derivano dalla “paura prima” — la morte.
Se non si fa qui e ora il salto di qualità, si resta legati ad una continua ricerca dell’altrove e del dopo e, praticamente, non si vive. La differenza è nel comportamento, ossia nel senso attivo che diamo al Presente. Non c’è alcuna “beatitudine perenne” — o “dannazione senza fine” — “dopo”.
La “Speranza” — splendidamente umana, altro che divina! — che Yeshua bar Yosef fece sua incarnandola in un modo assolutamente irripetibile, non è stata più rivelata in tutte le sue effettive potenzialità: è inutile impegnarsi in un ideale, per nobile che sia, se poi non si è disposti a lavorare concretamente, a lottare per realizzarlo. Egli pregava, ma poi si rimboccava le maniche: quanti, da sempre, anche i “più fervidi credenti cristiani”, fanno solo la prima cosa, lasciando ad altri l’onere di sporcarsi le mani — proprio l’atteggiamento che Yeshua condannava inderogabilmente —?

Ma Yeshua è stato trasformato in “Gesù″, è stato fatto camminare sull’acqua, gli si è dato il potere di placare le tempeste e di risuscitare sia se stesso che i suoi migliori amici («perché nasciamo, se poi dobbiamo morire?», appunto!), e diluendo le sue (1) potenti parole nell’acqua non potabile della mitologia, tutti noi abbiamo perso un’occasione ghiottissima per vivere meglio nelle nostre società


(1) Rammentando di non fossilizzarci sulle parole, che facilmente potrebbero non essere del Gesù storico ma una creazione del “ventriloquo” estensore del testo evangelico in base al suo piano teologico e redazionale: dagli Evangelisti possiamo ragionevolmente aspettarci la “sostanza” di ciò che fu detto, la “ipsissima vox”, non le esatte parole pronunciate in una precisa occasione, ovvero gli “ipsissima verba”.


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