Anche a Norimberga i vincitori hanno processato i vinti. Ma almeno il processo è stato equo. A Bagdad si è invece celebrata una farsa. I giudici sono stati nominati dall’esecutivo (il Consiglio di governo) e da esso sostituiti quando non si allineavano sulle posizioni ufficiali delle autorità o si dimostravano scarsamente efficaci. Il tribunale sin dall’inizio è stato finanziato dagli Usa, che hanno anche elaborato il suo Statuto, poi formalmente approvato dall’Assemblea nazionale irachena, nell’agosto 2005. Imputazioni precise contro gli otto imputati sono state formulate solo a metà processo. La Corte non ha consentito alla difesa di convocare un certo numero di testimoni a discarico che dovevano ancora essere ascoltati.
Inoltre, molti documenti prodotti dall’accusa contro gli imputati (tra cui l’ordine di Saddam Hussein di eseguire la condanna a morte inflitta ai civili che avrebbero attentato alla vita del dittatore e l’ordine di conferire onorificenze alle forze di sicurezza che avevano arrestato e interrogato i presunti colpevoli), sono stati contestati dalla difesa, che ha affermato trattarsi di falsi. Per verificarne l’autenticità, il tribunale non ha convocato esperti internazionali (come sarebbe stato doveroso), ma esperti iracheni che, secondo la difesa, erano legati a filo doppio all’attuale ministero dell’interno iracheno. Insomma, un processo privo di qualsiasi seria garanzia dei diritti della difesa.
Certo, non è facile processare un ex dittatore che cerca di usare le udienze pubbliche per comizi e polemiche politiche. I giudici però non avrebbero dovuto rispondere alle arringhe pretestuose dell’ex-dittatore urlando più di lui o espellendolo dalla sala delle udienze, ma con equilibrio e serenità, limitando ad esempio il suo tempo di parola, inducendolo a discutere i problemi specifici del processo, e soprattutto affrontando seriamente i problemi giudiziari che gli avvocati di Saddam sollevavano. In una parola, mostrandosi pazienti, equilibrati ed imparziali.
La condanna a morte dei tre maggiori imputati è sbagliata sotto un triplice profilo. Anzitutto, si tratta di una punizione che non è affatto credibile perché conclude un processo-farsa. In secondo luogo, la pena capitale è stata oramai condannata dalla vasta maggioranza della comunità internazionale. Anche se paesi come gli USA e la Cina continuano a praticarla, si può dire che la pena di morte è diventata, sul piano internazionale, se non illegale, almeno illegittima. Prova ne sia che tutti i tribunali internazionali finora istituiti dalle Nazioni Unite (alcuni, come quello dell’Aja per l’ex Jugoslavia e quello per il Ruanda, con il fortissimo sostegno degli americani) bandiscono la pena di morte.
Lo stesso vale per la Corte penale internazionale, il primo tribunale internazionale a vocazione universale, che oramai agisce come suprema istanza penale internazionale per ben 104 Stati. In terzo luogo, la pena di morte inflitta ai tre imputati costituisce un grave errore politico, perché naturalmente aggraverà la situazione in Iraq. Il paese è da tempo in preda ad una sanguinosa guerra civile, anche se i vertici statunitensi, per ragioni politiche, si ostinano a negare che sia in atto una vera e propria insurrezione armata. Saddam Hussein diventerà un martire, oltre ad essere già considerato un eroe dell’antiamericanismo. L’odio per il gruppo dirigente iracheno e per gli americani aumenterà a dismisura e i massacri si moltiplicheranno.
L’appello che subito interporranno i condannati non potrà che rinviare l’esecuzione capitale, anche in attesa che vengano celebrati contro l’ex dittatore altri processi, per fatti, tra cui il genocidio dei Curdi negli anni ‘80, che appaiono obiettivamente molto più gravi del massacro di Dujail. In breve, in Iraq anche sul versante della giustizia è stata imboccata una strada radicalmente sbagliata, e appare assai probabile che si arriverà alla peggiore soluzione possibile.
Per George W. Bush, il tiranno iracheno è il solo trofeo di una guerra sfortunata da esibire. Il verdetto che manda Saddam Hussein al capestro rispolvera il trofeo di George W. Bush del quale ci si era quasi dimenticati. E lo esibisce proprio alla vigilia di un importante voto americano sul quale pesa il disastroso bilancio della guerra irachena. I crimini del regime spazzato via dalle truppe americane entrate a Bagdad nella primavera del 2003 non sono stati cancellati. Quel che è accaduto dopo e sta ancora accadendo non li ha mandati in prescrizione. I massacri di curdi e di sciiti, a volte anche con armi chimiche, sono stampati nelle memorie e sono ancora all’origine di molte vendette. Ma i 650mila morti civili iracheni (secondo la rispettabile rivista britannica “Lancet”) dall’inizio dell’intervento americano, e la media di oltre 100 vittime quotidiane, cosi come l’esodo di più di un milione di iracheni verso i paesi vicini, spingono la popolazione delle province centrali, dove più infuria la violenza, a rimpiangere i tempi in cui Saddam imponeva l’ordine col terrore.
Il verdetto del tribunale speciale di Bagdad riguarda il massacro di 148 sciiti nel villaggio di Dujail, dopo un fallito attentato alla vita del rais, vale a dire una delle tante repressioni, non la più grave. In molte altre occasioni le vittime sono state migliaia. La pena di morte inflitta a Saddam “per crimini contro l’umanità” in questo primo processo sembra voler ricordare al momento opportuno, agli elettori americani, che se Saddam non possedeva le armi di distruzione di massa e non era complice di Al Qaeda, e quindi degli attentatori delle Torri Gemelle di New York, come pretendeva a torto Bush per giustificare la guerra, egli resta comunque un dittatore sanguinario che l’America ha spodestato e consegnato alla giustizia del suo paese. È impossibile contestare questa verità, riproposta non solo agli americani.
È vero, dunque, l’America di Bush ha cacciato un criminale dal potere in un grande paese del Medio Oriente. Ma come un ingegnere che, dopo accurati calcoli, estirpa una trave marcia e fa crollare un edificio, cosi Bush ha eliminato Saddam con un’impeccabile e rapida operazione militare durata pochi giorni, ma ha provocato un conflitto che dura da anni e di cui non si vede la fine. Se George W. Bush avesse voluto un processo regolare, se avesse voluto una giustizia imparziale, avrebbe consegnato Saddam Hussein al Tribunale Penale Internazionale dell’Aja.
Il processo, è vero, sarebbe durato anni e non si sarebbe concluso con una condanna a morte, perché il TPI esclude la pena capitale, ma ci sarebbe stato un dibattimento trasparente, lontano dalle passioni di una guerra civile. Non era gradito un processo durante il quale sarebbero emerse le innumerevoli complicità tra Saddam e gli americani, in particolare quando Saddam era il potente rais laico che si opponeva all’islamismo iraniano. Durante la guerra Iran-Iraq, egli rappresentava la grande diga di fronte alla Repubblica islamica di Khomeini. E quando, dopo la prima guerra del Golfo (1991) annientò la guerriglia sciita nel Sud dell’Iraq, gli americani che l’avevano favorita e illusa, lasciarono Saddam agire indisturbato.
Di questo non si è parlato nell’aula bunker del tribunale speciale iracheno. La violenza è aumentata e aumenta al punto da convincere un numero sempre più robusto di generali americani e inglesi che la partita irachena non può essere vinta dall’esercito più potente del mondo (e forse della storia). La parola “caos” ricorre sempre più spesso ad indicare una situazione che sfugge ad ogni azione razionale, militare o politica.
Non esistevano e non esistono dubbi sui crimini di Saddam. Ma chi l’ha giudicato l’ha fatto con lo spirito di chi partecipa a una guerra civile. Gli americani non volevano assumersi quel compito, in quanto “vincitori”, e l’hanno lasciato agli iracheni. I quali non erano nelle condizioni di rispettare una procedura normale. Il primo ministro, Nuri Kamal al-Maliki, uno sciita, è stato chiaro quando, subito dopo la sentenza, ha dichiarato che essa servirà da esempio ai terroristi. Se il conflitto iracheno, come lasciano chiaramente intendere i generali americani, non sembra risolvibile sul piano militare, la condanna a morte (benché non esecutiva immediatamente), compromette qualsiasi, sia pur remota, possibilità di aprire uno spazio politico.
La trappola irachena funziona inesorabile. Se abbattuto il tiranno si è disgregato il paese, adesso la sua condanna alla forca, giustificata ma decisa in modo sommario, promuove il rais al ruolo di martire e simbolo della rivolta sunnita, e alimenta al tempo stesso l’intransigenza sciita che punta su una rapida esecuzione della sentenza.
Perciò il trofeo di Bush continua a trasformarsi in un boomerang.
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