Le religioni, come le ideologie, sono sempre servite a legittimare stati di abuso con l’alibi della grande verità filosofica. Ma in sé sono pacifiche…

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Nel nome di uno stesso Dio, ebrei cristiani e musulmani pregano, amano, guardano al futuro, ma può accadere che si facciano anche la guerra. Negli ultimi tempi si tende a rimarcare differenze piuttosto che somiglianze: si utilizzano luoghi comuni, scambiando tradizioni locali per vera religione.
Quasi mai però si fa riferimento alle dottrine originali di queste religioni, che rivelano quanti siano i punti in comune fra le tre grandi fedi monoteiste, che tutte insieme rappresentano il credo di quasi due terzi degli abitanti della Terra. E fanno capire che sono così sostanziali da rendere assurda e incoerente qualsiasi pretesa di diffidare degli appartenenti ad altre religioni (o, peggio ancora, nel vedere in loro “infedeli” o nemici da combattere).

La figura biblica che unisce più di tutte è quella di Abramo, il padre spirituale (e forse anche reale) di ebrei, cristiani e musulmani. Abramo fu il grande pensatore che scopri l’evidenza diretta di un Dio unico. Fu il fondatore del monoteismo. Dal suo seme nacquero Ismaele, dal quale sono discesi gli arabi o israeliti, e Isacco, da cui vennero gli ebrei (e poi i cristiani). Nella Bibbia si sancisce la parentela fra ebrei, cristiani e musulmani: la moglie di Abramo, Sara, non può avere figli e allora prega una schiava, Agar, di concepire un bambino con Abramo al posto suo. Una sorta di ricorso alla pratica moderna dell’utero in affitto, perfettamente accettabile a quell’epoca. Nasce Ismaele e poi, per intervento divino, già molto avanti nell’età, Sara riesce a partorire lei stessa un figlio, Isacco. Incomprensioni fra Sara e Agar costringono Abramo a mandare via di casa, a malincuore, la schiava con Ismaele. Vanno nel deserto, dove però vengono sempre aiutati da un angelo mandato da Dio.
E qui si scopre un secondo punto importante: nella Bibbia l’angelo rassicura Agar dicendo che anche Ismaele fonderà un grande “popolo di Dio”. Quindi la Bibbia afferma che Dio fece un patto con Abramo e la sua discendenza attraverso Isacco (gli ebrei e, in seguito, i cristiani), ma che fece qualcosa di simile anche con Ismaele (i musulmani).

La Bibbia ovviamente è prodiga di particolari sul primo dei due patti, dato che racconta le vicende degli ebrei. Ma a margine della cronaca ebraica ci sono altri dati a favore della sussistenza dell’altro patto e di un rispetto reciproco. Isacco nella vita adulta va a fare visita al fratello Ismaele. E poi Ismaele partecipa anche ai funerali di Sara e dello stesso Abramo. Quando Ismaele muore, vengono profuse nel Vecchio Testamento le stesse parole che si usano nei confronti dei giusti.
L’importanza del patriarca è riconosciuta anche dal Corano, dove si racconta il sacrificio compiuto da Abramo (senza specificare però il nome del figlio che il padre, messo alla prova da Dio, stava per immolare).
La festa più importante dell’Islam, la ‘id aI-adha, ricorda proprio il sacrificio di Abramo, simbolo della sottomissione a Dio, ma anche della misericordia divina. Abramo e Ismaele, secondo il Corano, avrebbero insieme fondato la Kaaba della Mecca (la struttura che conserva la Pietra Nera), a confermare lo strettissimo grado di parentela fra ebrei (da cui si distaccarono i cristiani) e musulmani. Che si riflette anche dal punto di vista culturale: Abramo, che a 75 anni, su chiamata del Signore, lascia la casa del padre (un venditore di idoli) per fondare il “popolo di Dio”, è l’uomo che rompe i ponti con il passato, è il superamento del mito di Ulisse e del concetto greco dell’eterno ritorno. Con Dio non si torna indietro, si bruciano le navi e si va avanti, verso il cambiamento.
Con Abramo la Religione diventa Storia: se prima la religione era legata a una dimensione mitica della creazione, in un tempo indefinito, al di fuori di una dimensione storica, nella Bibbia Dio si muove nella storia e, anzi, ne determina con gli uomini gli avvenimenti. Dà modo di affrontare eventi particolari (come il cambiamento delle stagioni, le carestie o la morte), e il credo diventa pratica quotidiana, portatrice di etica e di valori che tutti devono rispettare nella società.

Un altro dato stranamente poco noto in Occidente è la popolarità di Gesù nel mondo musulmano. Per i musulmani Gesù è un profeta molto particolare, perché ha portato (di persona) la parola di Dio a un livello analogo al Corano. Molti sapienti musulmani fanno un parallelo fra l’eucarestia dei cristiani e la recitazione dei versi del Corano. Nell’Islam si ritiene che Gesù sia il “maestro del soffio divino della vita”. Inoltre, il Corano riconosce grande importanza a Maria di cui si sottolinea lo stato di verginità.

E il ruolo di Gesù (lbn Mariam, cioè figlio di Maria), nato sì a Betlemme, ma sotto una palma, e che per il Corano non è mai morto in quanto Dio lo avrebbe elevato in cielo da vivo, è fondamentale per i musulmani. Anche loro credono nel giorno del giudizio, ma non pensano che a giudicarli verrà il loro amato profeta Muhammad (Maometto). Chi allora? A tornare sulla Terra sarà proprio il padre della religione cristiana: il compito, è scritto nel Corano, sarà di Gesù. L’Islam riconosce i profeti biblici della tradizione ebraica, la figura di Gesù e molti santi cristiani. Siamo tutti discendenti di Abramo, ma ancor prima di Sem (altra figura biblica), dal quale vengono i popoli semitici. Una discendenza confermata anche dalla scienza: la moderna genetica ha dimostrato che ebrei e palestinesi sono geneticamente uguali, hanno gli stessi antenati.

La dimensione etica delle tre grandi religioni non deriva solo da un concetto di parentela: più importante ancora è il loro carattere universale, cioè aperto a tutti.
Saulo di Tarso, il grande promotore della religione cristiana e colui che prese le distanze dal mondo ebraico, nella Lettera ai Romani e in altre epistole fa riferimento ad Abramo con un numero di citazioni inferiori solo a quelle dedicate a Gesù. E sottolinea che Abramo scoprì Dio ben prima del patto della circoncisione (praticata poi anche dai musulmani) e che pertanto non è necessario circoncidersi e far parte della stirpe ebraica per seguire il Signore.
Le tre grandi religioni non sono nate “aristocratiche” e hanno la caratteristica di rivolgersi a tutti con una certa attenzione ai problemi sociali. Quella ebraica è stata la religione di un popolo di schiavi, quella cristiana inizia come speranza per gli oppressi, quella musulmana ha pure fondato il suo successo fra gli umili.
Non è un caso che uno dei cinque pilastri dell’islam sia la decima, l’elemosina del 10 per cento del proprio guadagno per i bisognosi. In pratica è l’altra faccia della carità cristiana o della solidarietà ebraica. Le tre religioni monoteistiche hanno in comune la ricerca del bene, la pratica quotidiana della preghiera e un forte interesse per la collettività; e poi il senso di giustizia, il rispetto per i bisogni del prossimo, della vita, l’idea che tutti sono figli di Dio, la sacralità della famiglia, ancora punto di appoggio fondamentale per gli esseri umani.
Ce n’è insomma a sufficienza per pensare che le tre religioni, invece che per cementare l’odio reciproco, possano servire per combatterlo. La religione non è mai la causa diretta dei massacri, ma un pretesto per farli. E la Storia dimostra che la religione non è mai in primo piano fra le cause di una guerra: a seconda delle epoche, la guerra può avvalersi di contenuti più o meno sacri, che appaiono però secondari rispetto a obiettivi sociali e politici, e questa è una verità che gli esperti conoscono. Dato che morire per prosaici motivi economici di conquista non è edificante, si offrono agli individui che devono combattere motivi alti: la religione ovviamente ne contiene parecchi. Ci sono poi guerre definite laiche che arrivano ad avere forti connotati religiosi (la guerra civile spagnola) e guerre cosiddette religiose con contenuti laici (il saccheggio dei lanzichenecchi a Roma nel 1507, o la battaglia di Lepanto, in realtà una lotta per il possesso di Cipro). Il tentativo di spacciare una guerra come “religiosamente pura” è solo un alibi. Lo stesso Sant’Agostino non parlava di guerra giusta, voleva solo affermare il “principio legale” della guerra, dove la responsabilità non riguarda più il singolo cristiano, ma i governi. Per non parlare del Jihad, che ha soprattutto a che fare con la lotta interiore, ma che continua a essere tradotto come guerra agli infedeli.
Nelle guerre, la religione ha insomma il ruolo di “marcatore culturale”, così come l’amore per la patria, l’attaccamento alla tribù o a una fazione politica, componenti per cementare l’azione del gruppo combattente.
Neanche le crociate erano “pure” guerre di religione: venivano infatti definiti pellegrinaggi armati, l’obiettivo era liberare Gerusalemme e non convertire i musulmani. Le crociate sono state un modo di aprirsi la strada a oriente in un periodo in cui l’Europa era isolata e depressa economicamente. Nel bene e nel male hanno messo in contatto due mondi, nemmeno troppo diversi, che finirono per migliorarsi reciprocamente: basta ricordare lo sviluppo della medicina e della matematica, e che le università in Occidente prima delle crociate non esistevano (nacquero sul modello delle scuole musulmane).
Non ci sono mai state aree omogenee di culto, cioè definite in modo rigido entro confini geografici. La situazione era molto più articolata. Pensiamo al pluralismo religioso nell’impero romano, o a Baghdad, sede del califfato prima del 1256: oltre ai musulmani, vi era il 30% di ebrei, zoroastriani e cristiani con proprie amministrazioni religiose. Un modello ripreso poi a Istanbul. Lo stesso impero ottomano si fondava sul pluralismo religioso, per cui dai Balcani fino all’Ungheria esisteva una prevalenza cristiana.
A Cordoba, durante l’occupazione araba, la biblioteca conteneva 4 milioni di volumi e vi venne in pratica conservata la cultura greca: gli scambi fra ebrei, cristiani e musulmani erano incentivati, così come in Sicilia con l’imperatore cristiano Federico.
Oggi sono spesso i media a creare confusione. Per esempio, la definizione dell’esercito bosniaco come “musulmano” nacque dalle corrispondenze delle agenzie e dei quotidiani occidentali. L’esercito all’inizio era nazionale e pluralista: un inviato del quotidiano francese “Le Monde” nei suoi articoli scriveva “esercito bosniaco”, ma in redazione a Parigi cambiavano in “esercito musulmano”, dato che vedere una guerra con la lente della religione era un modo per semplificare. Alcuni luoghi comuni, continuamente ripetuti dagli organi d’informazione, hanno certamente contribuito ad amplificare gli aspetti religiosi del conflitto della ex-Jugoslavia. Che restano però secondari nelle recenti guerre balcaniche: lì, in realtà, lobby nazionaliste hanno strumentalizzato le diverse identità religiose. Anche in Cecenia è la guerra a usare la religione e non viceversa: i fondamentalisti islamici sono emersi di recente, in concomitanza con le aspirazioni di potere di alcuni capi locali. Ma il loro generale, Khattab, ha raccolto molti consensi sulle macerie della politica repressiva di Eltsin in Cecenia fino al 1996. La leadership locale pensava di controllare i fondamentalisti, così come lo credeva l’esercito russo, che li strumentalizzava per legittimare le sue violazioni dei diritti umani sulla popolazione.


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